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Un blog creato da sara_1971 il 13/07/2007

S_CAROGNE

Avvertenze: questo è un blog, bipolare come i più comuni disturbi dell'umore

 
 

Sara

 

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Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...

 

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Giochi senza Frontiere

Post n°632 pubblicato il 07 Marzo 2010 da sara_1971

Si sa, per noi zappaterra figli della Magna Grecia ogni viaggio è chimera. Stavolta la squadra è composta da due accademici di alto grado (i Prof) e due giovani (ehm) precarie. Ufficialmente la trasferta è giustificata dalla partecipazione ad un congresso, ufficiosamente il fine è quello di trascorrere dodici giorni a gozzovigliare in un altro continente di cui si ignora persino la collocazione geografica.

 

Parte I

Il Motto: Ogni viaggio è un miraggio

 

La partenza vede Sara riuscire a salire sull'aereo nonostante il terrore e soprattutto nonostante la valigia (soprannominata garbatamente Il Morto) superi di parecchi chili la franchigia. Le due precarie si presentano in aeroporto acchittate come per il dì di festa (la lunghezza della gonna direttamente proporzionale alla scollatura della maglia) e benché i sedili delle sale d'aspetto e degli aerei siano concepiti scientificamente affiche`la gente non possa distendersi, l’umore è dei migliori.

Nel corso della trasvolata le due precarie scambiano chiacchiere garbatamente formali con personaggi virtualmente capaci di darti lo stipendio (Prof, gradisce un cioccolatino? Carissima, saresti così gentile da passarmi il passaporto?) riuscendo tra l’altro a stringere amicizia con un simpatico avventuriero olandese. L’inglese è pessimo (e dà tragicamente l’impressione che io non mi sia mai mossa dall’hinterland barese) ma Sara è abbastanza paracula da farsi capire a gesti.

Il volo intercontinentale si chiude con un lungo applaudire a vanvera come se l'atto del decollo e dell'atterraggio fossero una concessione che il pilota elargisce  bonariamente e vadano quindi riconosciuti in maniera eclatante. La compagnia aerea ha inserito nel protocollo del volo lo squillo di tromba per sottolineare il buon esito dell'atterraggio confermando i timori di Sara, ovvero che non sia poi così scontato non sfracellarsi al suolo o in mare. E' un miracolo, un caso, un destino benevolo. Appena arrivati a destinazione i quattro indossano l’aria da turisti spaesati affinché la metamorfosi sia completa. E così si dà inizio alle danze.

 

Parte II

Il Motto: Dietro ogni compagno di viaggio c’è in agguato una belva.

 

I rapporti formali e civili iniziano velocemente a deteriorarsi complice il caldo, le maratone turistiche e il consumo di cibo spazzatura.

La frase “Non importa” dopo appena tre giorni di convivenza forzata risulta direttamente proporzionale alla quantità di litigi avuta con i partner di viaggio.

A causa dell’incessante camminare iniziano a formarsi le prime piaghe podali così i quattro si avventurano sulla metropolitana zoppicando allegramente, l’abbigliamento glamour cede il posto ai jeans e alle infradito, i capelli inizialmente lisci come anguille iniziano ad incresparsi a causa dell’umidità. Il pranzo diventa il momento clou per esaltare i dissapori. Le discussioni vertono sui temi più disparati: Convivenza versus Matrimonio, Liquidi versus Carta di Credito, Mar Piccolo versus Oceano Indiano e altre corbellerie qualunquiste accattivanti quanto un’ospitata di Giovanna Melandri da Vespa. Un inaspettato black out delle carte di credito inasprisce gli umori: ci si guarda in cagnesco per qualsiasi richiesta di contante, fosse anche per saldare il conto dell’albergo.

Scopriamo che il paese in cui ci troviamo oltre al religioso pudore delle gambe coperte e delle maniche lunghe, coltiva anche un certo disprezzo per chi veste con poco rispetto per la decenza. Un po’ come noi con i tedeschi in sandali e calzini ma di più. Ed infatti i tassisti rispondono solo alle richieste degli individui di sesso maschile. Evidentemente bastano 14 ore di volo per mandare a ramengo le più importanti conquiste femministe degli ultimi 40 anni. Sara (che ha orrore dei rettili) incontra un varano: entrambi fuggono in direzione opposta reciprocamente disgustati.

 

III Parte

 

Il motto: Meno esseri viventi ho nelle vicinanze, meno probabilità ho di litigarci.

 

Le litigate intorno al desco cedono il passo alle paranoie complottiste da primo ministro: si litiga ormai per un nonnulla. Il Prof si rivolge alle due precarie appellandole con graziosi vezzeggiativi quali galline spennacchiate e squattrinate incapaci, Sara e la sua collega si alzano al mattino struccate, spettinate e furenti e tali restano per tutto il giorno.

Le scarpe vengono assaggiate per accertarsi che siano compatibili con le proprie piaghe ed eventualmente scambiate: a volte Sara e la collega scendono a fare colazione con calzature spaiate e nessuno ha più la voglia di scandalizzarsi.

La squadra si contende finanche il tarallo ammuffito casualmente reperito in valigia: noi zitelle d’altronde viviamo di cose confezionate perciò in un certo qual senso siamo predisposte alla cena rivoltante ma i Prof evidentemente no. Dulcis in fundo, il team viene cacciato dal prestigioso Swiss Hotel a causa dell’abbigliamento indecoroso (si finisce con il cenare al Mac Donald tra il disappunto generale).

Ah già… l’abbigliamento: la mancanza di abiti puliti costringe al ripescaggio dal bustone di indumenti fetidi perciò vengono riesumati cenci indossati alla partenza (ho consultato con attenzione il Saper Vivere  di Donna Letizia ma non ho trovato alcuna soluzione alla mancanza di vesti in trasferta).

La pelle ormai diventata di cotica e le occhiaie perenni lasciano presagire il dedicare alle due sventurate un’ala della facoltà con tanto di busto in marmo ed epitaffio latino.

Il viaggio si tramuta una puntata avventurosa di Adventures grazie ad un percorso in canoa e a dorso di elefante. Per concludere degnamente il tutto l’ultima notte Sara e la sua collega restano bloccate sul pianerottolo. 

Non si può escludere a priori che le specie accademiche siano in fondo (ma proprio in fondo) categorie ad alto tasso di comicità (magari persino Briatore è un fine umorista, anche se ha l'aspetto di puttaniere cocainomane), ma ho il sospetto che alla base del vivere civile ci sia un diverso concetto di divertimento.

Comunque dalle donne dell’Est ho molto da imparare. Ed infatti adesso, scusate, vado a esercitarmi a congiungere le mani nel fare l’inchino, casomai  mi presentassero un'Altezza Reale.

 

P.S. Ad ogni modo questo viaggio è riuscito a farmi raggiungere una rara consapevolezza: io con me, da sola, proprio non ci potrei vivere

Applausi. Sipario.

 

Per gli amanti del National Geographic.

(Quando un viaggio diventa percorso)

 

La città degli Angeli (antico villaggio di palafitte e oggi intensa e frenetica metropoli) offre tutto quello che un occidentale può desiderare dalla vita: alberghi di lusso, grattacieli, centri commerciali ultra moderni, punti estetici, incontri di box, mercatini, discoteche e quant'altro si desideri avere a portata di mano.

La frenesia della vita quotidiana si protrae verso le mode occidentali rimanendo allo stesso tempo legata alle tradizioni orientali: i giardini tropicali, i baldacchini dorati, i megacine multiplex, i templi con i tetti d'oro zecchino, le imbarcazioni su cui si pagaia al ritmo delle nenie tailandesi, gli arazzi, i drappeggi, la porcellana, l’oro e i diamanti, la seta, i serpenti ed i soliti posti dove vi forzeranno ad acquistare souvenirs, pietre preziose ed altre paccottiglie… tutto questo è Bangkok ma non solo.

Dietro i muri di cemento la metropoli continua la sua vita parallela, indifferente ai tumulti del progresso: olezzi, sporcizia e pantegane la fanno da padrone tra i fiumi e i canali che un tempo riproducevano in terra il disegno cosmico e che adesso sono rimasti solo nelle zone più povere della città. Basta allontanarsi dal cuore commerciale della capitale per piombare in pieno ottocento: nella luce scarsa dei vicoli i dedali interminabili di baracche di legno e lamiere sono il ventre della città.

L’odore di acqua marcia, i bambini che giocano con i topi quando non riposano  addormentati tra le braccia della madri che mendicano senza sosta, i focomelici senza gambe che si muovono su piccoli skate, quelli senza braccia che giacciono esanimi davanti ad una scodella piena di monetine, lo smog, il traffico, i taxi zeppi di turisti: tutto si mescola e si confonde in un inevitabile archetipo di città miserabile.

I derelitti che ogni giorno arrivavano a Bangkok per trovare “fortuna” finiscono stritolati tra le spire di una edilizia che nulla ha risparmiato: la speranza di questi espatriati di riscattare la loro vita precedente vorrebbe valere la prepotenza dell’acciaio degli immensi centri commerciali, l’aria da cripta che stagna, quel poco d’ossigeno che significa la differenza tra spegnersi e rimanere vivi.

Questi mendicanti sono la sabbia nella clessidra dell’Occidente. Come i dannati nelle illustrazioni dei libri dell’Inferno - le facce arrossate dalle fiamme eterne - li vedi accamparsi ovunque: tra i ponteggi di un palazzo in costruzione, sotto le arcate delle superstrade che tagliano la città in una inestricabile ragnatela di traffico, sulle sponde del Chao Prhaya dove si lavano i denti nell'acqua fangosa dei klong, i canali-fogne che danno a questa città il soprannome bugiardo di Venezia dell'Estremo Oriente.

Su tutto, e dappertutto, l'odore dei vicoli: un odore grasso, graveolente, tenace di umanità, di olio fritto e rifritto, di grasso bruciato sulla brace, di carbonella, di fogna. In ogni baracca, illuminata da lampadine fioche o da tubi al neon, detta legge il televisore religiosamente acceso col volume al massimo: la cucina è una fornacella con la brace, il gabinetto chissà. Porte e finestre sono spalancate per far entrare un po' d'aria, la privacy è un concetto inesistente: ogni famiglia mangia a terra in cerchio, lì un papà riposa sdraiato su una stuoia a terra, qui una vecchia grassa si sventola fiaccamente e sospira, più distante una coppia giovane parla fitto fitto.

Le pareti delle baracche sono annerite. Fuori c'è di tutto: ferrivecchi, cassette, utensili arrugginiti, fusti di benzina, barattoli vuoti, pezzi di legno, carrozzine sfiondate, balestre d'auto, gomme di tuk-tuk. Sopra di noi nuvole fumanti profumano di cibo, di carne alla brace, di fritture croccanti. Tra i teli di plastica innalzati come quinte semitrasparenti, i vapori confondono i profili asiatici e rimandano un gran sapore di Blade Runner.

Nella dolciastra e tropicale non servono le tapparelle abbassate, le vaccinazioni, il guardare a destra e sinistra prima di attraversare la strada, non serve fare il bagno due ore dopo aver mangiato ed evitare le stradine buie: tutti zampettano come vespe in un bicchiere rovesciato, padroni solo del proprio miserabile spazio sul marciapiede. Le facce indurite e diffidenti dei ragazzini sono le stesse dei loro coetanei delle fogne di Bucarest, dei meninos da rua di Rio de Janeiro, dei niños de la calle di Città del Messico.

Tra scannatori strafatti che massacrano animali nel modo meno pulito e indolore un venditore ambulante lancia la moneta color smeraldo nell’aria chiedendoti di scommettere. Poi raccoglie la patacca e ricomincia da capo un attimo dopo. E così per sempre.

E’ brava, Bangkok, a farti sentire fortunata quando la fotografi nel bel mezzo del goffo e scatenato tentativo di innalzarsi ai fasti della vicina Singapore. Ne viene fuori lo schizzo di una metropoli diversa da ogni altra che prima si rivela un ventre materno – il luogo accogliente e familiare per definizione, il posto deputato a proteggerti e a farti crescere – e dopo, a tradimento, senza pietà ti uccide.

 

(Non so se si sia vagamente intuita la meta del mio viaggio, ma l’importante è che sia tornata. Mi siete persino mancati, pensa un po’).

 
 
 
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