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L'angolo di Jane

Tutto su Jane Austen e sui libri che mi piacciono!

L'ANGOLO DI JANE

Benvenuti nel mio blog!

Questo spazio è dedicato a recensioni di libri e film, ai miei racconti,  a riflessioni personali di varia natura e soprattutto a Jane Austen, una delle mie scrittrici preferite.

Sono una stella del firmamento
che osserva il mondo, disprezza il mondo
e si consuma nella propria luce.
Sono il mare che di notte si infuria,
il mare che si lamenta, pesante di vittime
che ad antichi peccati, nuovi ne accumula.
Sono bandito dal vostro mondo
cresciuto nell'orgoglio e dall'orgoglio tradito,
sono il re senza terra.
Sono la passione muta
in casa senza camino, in guerra senza spada
e ammalato sono della propria forza.

(Hermann Hesse)

 


 

 

JANE AUSTEN -RITRATTO

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Se nemmeno Shakespeare lo ha fatto (racconto) - Blue Willow

Post n°936 pubblicato il 11 Dicembre 2012 da bluewillow
 

Il brusio che percorreva la sala affollata si interruppe di colpo quando i riflettori furono puntati nuovamente sulla madrina della serata, un'attrice bionda, piuttosto nota, che con labbra rosso fuoco, e voce impostata, aveva già annunciato i vincitori di molti dei premi per un concorso letterario, il premio Parvus per i migliori racconti brevi, di recente istituzione, ma che stava conquistando sempre maggiore popolarità.

Dopo aver consegnato i riconoscimenti minori, era giunto il momento di annunciare il vincitore del premio più ambito, quello per cui, perfino nei circoli più snob, qualcuno segretamente fremeva, pregustando la possibilità di una vittoria o almeno la consolazione della sconfitta di qualche acerrimo rivale: quello per il miglior racconto romantico.
Ormai da qualche ora, il professor Julius Belli accarezzava il momento della sua incoronazione, l'attimo in cui il suo nome avrebbe aleggiato su tutta la platea, scandito da quella bella voce che stava ascoltando con sempre più impazienza.
Il professore non nutriva alcun dubbio sulla propria vittoria: aveva creato quel racconto in un intenso momento di ispirazione, quasi dodici mesi prima, e da quel momento lo aveva limato, rielaborato, riletto, riscritto fino a raggiungere l'assoluta perfezione. Ogni parola e perfino le virgole emanavano intensità e trasporto: quando sua moglie lo aveva letto aveva pianto e gli aveva detto "Julius, sono contenta di averti sposato". E' vero, lo diceva abbastanza spesso, ma quella volta il professore aveva capito di aver scritto un capolavoro: certe cose si sanno, si sentono nel profondo del cuore come sole sanno fare le verità inoppugnabili.

"E il premio per il miglior racconto breve romantico va a..."

Il professore stava per alzarsi, prima che la folla lo bloccasse e finisse sommerso dalle congratulazioni più o meno sincere dei colleghi.

"...al più giovane dei partecipanti, Romeo Verona, per il meraviglioso Il mio virus sei tu".

Il professore si bloccò, metà alzato e metà seduto, mentre il nome inatteso risuonava al posto del suo, martellandogli le orecchie, poi si rianimò e accorgendosi che il vero vincitore era seduto proprio vicino a lui, allungò il braccio, già teso come nell'atto di ringraziare l'immaginaria folla che lo avrebbe acclamato, e porse la mano a Romeo Verona.
"Congratulazioni" disse in un soffio semi-strozzato. Poi tornò a sedersi, affranto nell'animo, ma cercando di mantenere un dignitoso contegno.
Julius Belli amava considerarsi un uomo equanime: prima di reputarsi vittima di un oltraggioso affronto e di una solenne ingiustizia, avrebbe letto il racconto del giovane scippatore di premi.
Certo, lui, Julius Belli, aveva vergato pagine dense d'arte e sentimento, ma sapeva che ci sono momenti fortunati nella letteratura in cui due geni possono, nello stesso momento storico, calcare il medesimo suolo: sono rari, ma pur sempre possibili, non si poteva quindi escludere che effettivamente "Il mio virus sei tu" fosse un'opera degna del riconoscimento ottenuto.
Quella sera andò a dormire deluso, ma con animo tutto sommato sereno: il giorno dopo il quotidiano locale avrebbe pubblicato il racconto vincitore e solo allora avrebbe emesso la sua personale sentenza. Niente però avrebbe scalfito la sua idea che solo un'opera di luminosa bellezza avrebbe potuto offuscare in qualche modo la sua.
Il mattino seguente, un lunedì di un gennaio nevoso, Julius Belli sedeva al tavolo della colazione, in una stanza illuminata da una luce grigiastra e pallida.
Da una parte il caffè, i toast con marmellata di ribes e il consueto succo d'arancia, dall'altra il giornale, aperto alla pagina dell'inserto culturale.
Il professore era in quella posizione ormai da mezz'ora. Il caffè era diventato gelido e i toast mollicci, ma ormai non avrebbe avuto importanza: Julius Belli aveva perso completamente l'appetito.
L'uomo non avrebbe saputo dire che cosa l'avesse congelato, se fosse stato lo stile, che riecheggiava cose già lette mille volte, o l'argomento trito o ritrito, di un infelice amore adolescenziale: c'era una sola cosa che brillava, a metà pagina, come se fosse illuminata da sfolgoranti luci al neon, puntate nei suoi occhi ancora cisposi di sonno, la parola "moccio".
Julius Belli lesse e rilesse la pagina, la imparò quasi a memoria: sì, c'era scritto proprio "moccio".
Il protagonista di "Il mio virus sei tu" piangeva per l'amore non ricambiato di una compagna di classe e perdeva copiosamente "moccio" dal naso.
No, questo Julius Belli non poteva accettarlo.
Il suo capolavoro, l'opera degna di Carver, Poe, Dickens e Verga, battuto da un racconto che conteneva la parola moccio. Amore e moccio: era questa l'idea di romanticismo dei curatori del premio Parvus?
Il professore guardò il caffè freddo e decise che dopo un simile oltraggio avrebbe avuto bisogno almeno della consolazione di qualcosa di caldo e di parlare con chi potesse capirlo, quindi si alzò, si infilò il cappotto e disse: "Io esco, vado al bar".
Sul marciapiede i passi del professore vennero attutiti dalla neve fresca, già parzialmente calpestata da altri passanti, certamente meno feriti nell'orgoglio di Julius Belli.
L'uomo camminava lentamente, su quell'ammasso molliccio, lucido e ormai sporco che sembrava, santo cielo, sì, sembrava proprio una lucida distesa di moccio.
Una sensazione di fastidio crescente lo assalì e fu felice quando si accorse di essere ormai giunto davanti al bar. Si infilò nel locale caldo, si sedette al banco e chiese un cappuccino ed un cornetto.
"Ecco a lei professore, una giornata fredda eh?" fece allegro il giovane barista, porgendogli la tazzina.
Julius Belli rispose con grugnito e stava quasi per portare alle labbra il cappuccino, quando la bianca spuma lattea, venata di caffè, gli apparve come una ammasso di candido moccio tremolante, appena depositato da una qualche malvagia entità di passaggio. Tentò di farsi forza, ma non ci riuscì. Lasciò il cappuccino intatto e mangiò solo il cornetto, "insapore come moccio" pensò e poi, più triste di prima, uscì di nuovo nell'aria gelida.
Decise di schiarirsi le idee passeggiando, ma il pensiero della sconfitta ora lo torturava, non poteva fare a meno di dirsi: "Shakespeare, l'uomo che ha usato il maggior numero di termini in letteratura, ha forse mai usato la parola moccio? Lo ha fatto forse Dante? Inferno, Purgatorio e Paradiso: né nel mondo infero e né in quello supero c'è traccia alcuna di moccio! Omero ha fatto mai smoccolare Ulisse?
La letteratura è piena di lacrime, ma chi, dico, chi ha mai osato smoccolare sui lettori?" non si accorse di aver detto quest'ultima frase a voce alta, rivolto ad una vecchina che vendeva fiori per strada. Abituata alla stranezza degli avventori la donna non si scompose "Queste sono calle" disse, "Nel linguaggio dei fiori significano lacrime" e gli porse un mazzetto ben confezionato.
Come se finalmente sentisse una voce amica a confortarlo, il professore la guardò meglio e mise a fuoco i suoi contorni, chiedendole con tono estremamente serio: "Ha qualche fiore che simboleggia il moccio, per caso?". La donna sembrò riflettere un attimo, poi disse: "No, non mi sembra". "Vada per le calle" disse il professore e pagò il mazzo di fiori.
Accortosi che l'aria fresca non gli era di alcun giovamento, Julius Belli decise di tornare a casa, ma mocciosi pensieri continuavano ad affliggerlo: moccio scuro era la terra che si affacciava tra la gelida materia sciolta, mocciose le urla gioiose dei bambini che si tiravano palle di neve, gigantesche masse di moccio erano le auto parcheggiate ai lati della strada.
Infine, il professore si ritrovò davanti alla propria casa. Si accorse di aver scordato le chiavi e suonò il campanello.
La moglie aprì la porta e vedendolo con il mazzo di fiori in mano disse "Oh, non ci posso credere. Per una volta ti sei ricordato del nostro anniversario!" e felice gli stampò un bacio a schiocco sulla faccia gelida.
Per risposta Julius Belli fece un grosso starnuto e, come se il bacio affettuoso fosse stato la dose di un potentissimo mucolitico, si liberò in un sol colpo di tutto il moccio che, dalla sera prima, gli aveva oppresso la mente e il cuore.
"Entra in casa, hai già preso troppo freddo" disse la signora Belli.
Il professore ubbidì silenzioso. Finalmente soddisfatto disse a se stesso "Al diavolo, che si tengano pure il moccio! Io ho tutto il resto".
Finalmente di nuovo di buon umore, andò nel suo studio e si mise a scrivere un altro racconto.

Su questo racconto vale il seguente copyright: "Tutti i diritti riservati"
P:S.: mi sembra perfino superfluo scriverlo, ma visto che ho usato nomi e cognomi, del tutto inventati sia chiaro, aggiungo il famoso disclaimer: Tutti i personaggi di questo racconto sono immaginari e ogni rassomiglianza a persone reali, realmente esistite o esistenti, è puramente casuale.

 
 
 
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- perchè se il "Giornale del Grande Fratello" èuna testata giornalistica, va a finire che io sarei la CNN! (questa l'ho quasi copiata da un altro blogger!).
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