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Un blog creato da sara_1971 il 13/07/2007

S_CAROGNE

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Sara

 

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Vecchio Paz

Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...

 

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« La NevrosiSan Paolo »

Un bicchiere di vino con un panino

Post n°118 pubblicato il 07 Novembre 2007 da erbavoglio_70

Se siete di Bari conoscete “Vini e cucina”, e immaginate che sia uno dei pochi locali pubblici frequentato da Sara e Erba.

Trattasi di un ristorante per gente senza troppe pretese e con una sviluppata capacità di adattamento.

Se per uno strano caso non arrivate al momento sbagliato, eviterete di sostare a lungo nei pressi della Piazza del Ferrarese bestemmiando per la difficoltà di parcheggio e la scarsa puntualità dei vostri amici. Entrerete e, senza alcun riguardo e falso servilismo, uno degli omini che lavora nel posto (sono molti, sembrano moltiplicarsi nel vano cucina nonostante l'assenza di cellule femminili) vi guarderà e senza proferire verbo vi comunicherà il seguente concetto “e cosa sei deficiente? Sembra a te che il locale è vuoto, ma qui è tutto prenotato. Ma sei di Bari? E non lo sai che qui non si trova mai posto?”. Voi, essendo di Bari, risponderete con la gestualità tramandatavi dai vostri avi “e lo so, ma che cazzo, non vedi che ho pure i bambini? Mena, dai, non fare il coglione e trovami un posto, altrimenti oggi va a finire che mi rovini la giornata”. Lui dismetterà i panni di Marcel Marceau e vi dirà “Ficcati là” aggiungendo, a gesti, le motivazioni: “i bambini non occupano molto spazio, tu sei magrolina, tutto sommato mi stai simpatica, in genere quelli con figli piccoli vanno via presto per picchiare i figli lontano da occhi indiscreti”. Guarderete vostro marito con lo sguardo fiero di chi ha concluso un affare o ha organizzato una crociera e vi dirigerete nell'angolo acuto a voi destinato. Il primo pensiero sarà : “per fortuna non sono uscita con Claudia altrimenti qui non sarebbe mai entrata”. Il secondo “vorrei proprio vedere mia suocera in un simile contesto”. Il terzo: “vediamo con chi mangeremo oggi”. Sì, perché, come alla mensa, si condividono angoli del tavolo con perfetti sconosciuti.

Oggi a noi sono capitati gli unici tre spagnoli astemi e tristi presenti sul globo. Roba che avrei imbavagliato mia figlia quando ha detto “mamma quando balleranno sui tavoli?”, se non fossi stata certa che quelli non pensavano ad altro che alla Virgen di casa loro.

Ci siamo sistemati alla meno peggio, pensando che tutto sommato anche il nostro bagno di servizio potrebbe contenerci per un picnic (soprattutto quando la porta sarà arricchita dei versi di JJ – vedi post N.113). Arrivato il momento delle ordinazioni, i miei figli hanno accennato timidamente qualche richiesta, che io ho ignorato conquistandomi la stima del maître, il quale ha proclamato, con l'aria di chi sta dicendo ovvietà, per i più distratti: “in questo posto non si decide, si mangia quello che c'è, vi diamo solo cose buone”. In realtà esiste una forma, sia pure primordiale, di democrazia: gli antipasti sono gli stessi per tutti, ma poi si può scegliere tra una rosa di tre sia il primo che il secondo. A quel punto d'ufficio frutta di stagione, dolcetto, caffè ai maggiorenni e poi fuori dai coglioni. Esatto: nessuna chiacchiera da ristorante, anche perché, se non sono le vostre gambe a chiedere a gran voce pietà e la conseguente possibilità di stiracchiarsi, sono i gestori del posto a sbattervi silenziosamente fuori. Avvertenze:

  • non portate giubbotti o cappotti ingombranti perché non esiterebbero a chiedervi di lasciarli fuori

  • chi ha passeggini si rilassi: un posto lo trovano sempre

  • portate contanti perché non hanno il bancomat (15 euro a testa)

  • non fatevi ingannare dalla gazzosa: il vinello della casa vi prenderà comunque, anche perché pranzare in un contesto poco chic vi indurrà inevitabilmente a pensare alla vostra giovinezza

  • non vedrete l'ora di uscire, per accendere una sigaretta, e sarà bellissimo trovarsi a passeggiare per la città vecchia, senza nessuno che vi abbia chiesto “tutto a posto?” dieci volte e vi abbia costretto a scegliere dal menù la pietanza più costosa

  • ideale per comitive di nanetti che pagano alla romana e vogliono respirare aria barese.

 
Rispondi al commento:
panglos
panglos il 08/11/07 alle 17:11 via WEB
[Per Animalepazzo: scusa, ma ti rispondo sul post del giorno per evitare reazioni isteriche da parte delle autrici]
La mancanza di chiarezza non credo ti sia (o mi sia) imputabile, sono i limiti imposti da un commento, si è sintetici e talvolta è difficile sintetizzare, soprattutto quando il tema trattato è di quelli cosmici, siamo qui per rimediare.
Bisogna intendersi per cosa si intende per “nevrosi”. Se diamo alla parola “nevrosi” il significato didattico, ossia conflitto (irrisolto) fra materiale rimosso e Superio, allora siamo in sintonia. Ma in questo caso dire che “ogni artista è nevrotico” ha la stessa originalità dell’affermazione “ogni artista ha un cervello”. Mi spiego: la nevrosi, didatticamente definita, è un bagaglio che ogni encefalo porta con se fino dalla nascita (?), credo che nessuno psicanalista (freudiano) dissentirebbe da questa affermazione (lascio agli amanti delle filosofie orientali l’illustrazione del cammino che conduce al Nirvana).
Ogni essere umano ha delle pulsioni inenarrabili che la propria coscienza rifiuta (definizione paraletteraria di rimosso), ogni essere umano è quindi didatticamente nevrotico.
Mi troverei in disaccordo con te se tu affermassi che ogni artista (ossia persona capace di creare opere di alto contenuto emozionale) è “clinicamente” nevrotico. La differenza che passa fra la nevrosi “fisiologica” (lo so ha il sapore dell’ossimoro) e quella “clinica” è che, la seconda, è incompatibile con una vita normale. Una vita viene definita normale quando il soggetto è in grado di amare e lavorare.
Io credo, in accordo con la scuola freudiana, che la creazione artistica rappresenti la capacità del soggetto di sublimare la propria libido. La sublimazione è il processo chimico-fisico per il quale una sostanza passa dallo stato solido a quello di vapore senza stazionare da quello liquido. Nel nostro caso, le energie associate alla libido vengono investite non in un rapporto sessuale comunque inteso, ma in un’opera d’arte.
Ricordo un pianista famoso (attualissimo) del quale non ricordo il nome, universalmente ritenuto un artista. Racconta che la sua passione per il piano si manifestò (praticamente) fin dalla nascita: bambino piccolissimo, si sedette ad un pianoforte e cominciò a strimpellare; nel giro di poco lo strimpellare diventò musica. Questa, se non ricordo male, è anche l’esperienza di Mozart. Ecco quello che intendo: quel pianista dimostra col la sua biografia, che la capacità di creare è antecedente a qualunque esperienza di sofferenza. C’è chi nasce con la predisposizione alla matematica, c’è chi nasce con la predisposizione a creare. La sofferenza può vestire la capacità di creare, ma questa deve già albergare nel soggetto. Come vedi, nulla di romantico, mero meccanicismo.
Non ho letto nulla di specifico in relazione a Freud e la fellatio, ma non mi stupirei se fosse vista come una regressione verso una fase orale e quindi in questo senso una deviazione. Ricordo solo che Freud mai esprime un giudizio morale: definire una pratica deviata (ossia che non va nella direzione che per sua natura dovrebbe seguire) non equivale a condannarla.
La mia visione dell’umanità non è sprezzante, è semplicemente disincantata. Il dire che viviamo al solo scopo di riprodurci, non significa non riconoscere la grandezza che talvolta raggiunge l’Uomo. Il fatto che alcuni non procreino non smentisce il fatto che siamo nati per procreare. Se la natura ha reso il rapporto sessuale il massimo dei piaceri è solo per garantire una irresistibile spinta verso la procreazione, credimi non vi è altra spiegazione possibile e scientificamente accettabile e (spero) accettata. Ciò che interessa alla natura non è la sopravvivenza del singolo, ma quella della specie.
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