Creato da sciffo il 27/09/2005

noeasywayout

Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

IT'S ONLY ROCK AND ROLL

Post n°701 pubblicato il 24 Giugno 2014 da sciffo

 

The King is gone
but he's not forgotten
...
Hey, hey, my my

La notte del 22 giugno, nel catino del Circo Massimo, dopo duemila anni dalle corse delle bighe, è tornata a passare la storia, ma quella del rock, e noi c'eravamo.

Lo scenario era a dir poco maestoso, con la luce calda del tramonto romano che arrossava le maestose rovine dei Fori, e più in là la statua del Vittoriale, più alta di tutto e tutti, che ci dava le spalle, divertita dagli strani riti degli uomini.
E’ stata una prova impegnativa, accompagnato da tutta la famiglia, il sole ed il caldo, la lunghissima attesa che sembrava non potesse mai finire.
Sei ore sulla sponda di prato in forte pendenza, la stessa un tempo calpestata dai sandali di patrizi e plebei che assistevano alle corse, e noi puoi non ripensare al ghigno triste di Charlton Heston/Ben Hur. 
Il tempo che non passa mai, specie quando i tuoi figli ti chiedono che ore sono ogni tre minuti.
E intanto il palco è là davanti, immoto e nero come un astronave misteriosa, davanti ad una folla che si ingrossa ogni minuto. Mi chiedo come possono resistere là sotto nel catino, tutti col culo per terra sulla ghiaia, sotto un sole implacabile. Ma è sofferenza cercata, con uno scopo e comune a tutti, e avvicina gli spiriti.

Alle otto in punto il sollievo infine arriva. Sale sul palco John Meyer e noi, finalmente, possiamo gioire per la meta ormai vicina, e sgranchire ballucchiando le gambe anchilosate. Il ragazzo del Connecticut è un guitar hero, un talento che seguo non da ieri, ed ora le lancette si muovono più rapide.
Ma sulle ripe erbose, dopo qualche pezzo, la plebe torna a sedersi.
Le teste continuano ad ondeggiare a ritmo, ma si chiacchiera, si sbadiglia, si fotografa coi telefonini. John produce musica di grande qualità, ma stasera stranamente suona a vuoto, poco più di un sottofondo da ascensore.
Perchè onore agli eroi, sempre, ma dentro il Circo tutti sanno che questa notte appartiene solo agli antichi dèi.

Quante generazioni stanno là nell’anello imperiale: vedo padri, figli, nipoti.
Di anzianotti ce ne sono, ma nemmeno tanti, in un raggio di dieci metri forse il più vecchio sono io. E mentre fingo di dormire ascolto compiaciuto un gruppo di ventenni dissertare di musica, e non dicono mica cazzate. Ne sanno e ne capiscono, ciò che siamo verrà tramandato.
Davvero qui nessuno può definirsi vecchio, non stanotte. 
E' l'esercito del rock and roll, fanteria di veterani segnati dalla vita e novellini ansiosi di conquistarsi cicatrici di battaglia; non ci conosciamo, ma combattiamo ogni giorno la stessa guerra.
Mentre ascolto sorridendo sotto i baffi quei ragazzi, mi chiedo quale imprinting può restare nella mente e nell'anima dei miei figli, nel vedere un simile spettacolo.

John finisce, saluta e ringrazia come da rituale, e si spengono le luci.
La folla freme, adesso nessuno riesce più a rimanere seduto, vedo sorrisi estatici ovunque, come fossimo a Fatima. l’attesa che è a fusione nucleare.
E poi the Bigger Bang, o Band, arriva.

Ho quasi cinquant’anni, porca puttana, qualche concerto l'ho visto, un pò di musica l'ho ascoltata, ma non avevo mai visto gli Stones, e loro sono di un'altra.
Come il Boss. Forse gli U2. Nessun altro, tra quelli ancora in attività.
Inizia lo show e tutti impazziscono.
Jumpin’ Jack Flash a 120.000 watt, mica pugnette.
Cosa può passare nella testa di gente come Mick, Ronnie, Keith e Charlie. Beh, in quella di Charlie niente, probabilmente.
Li osservo, cerco di capirne la magia.
Jagger live che intona Simpathy for the Devil, vestito di rosso fiammante, e capisci subito che la vecchia liaison tra lui e Lucifero non è un luogo comune, è tutto vero, cazzo.
Wood sorride sempre e suona come un ragazzino, godendosi apparentemente ogni singola nota, in fondo è un miracolato. Sembra il più simpatico dei quattro ed è magro come un chiodo, lo sono tutti del resto.
Richards con la perenne paglia sulle labbra, come il suo antesignano portoghese Yanez de Gomera. Suona tenendo la chitarra quasi verticale, sembra a tratti un pò distante, per poi esaltarsi nei suoi assoli privati, quelli che verranno tramandati, anche loro, nei secoli a venire. Lo guardi e non puoi non pensare a quanti palchi - e paglie, e bottiglie, e supergnocche - ci sono stati nella sua vita.
Watts è uno spettacolo: una vecchia tartaruga impassibile, l'espressione marmorea di un ex pugile assillato dal Parkinson. Eppure, questo vecchietto più simile ad un pensionato del catasto che ad una rockstar, tiene ancora su la ritmica del più grande gruppo del mondo. E quindi possiamo tutti fargli solo delle seghe, e a due mani possibilmente.

Ma, più di tutto, sto pensando a quanto adoro quei loro pezzi nei quali echeggiano più evidenti gli accordi immortali tramandati nel loro Dna da Chuck Berry e Buddy Holly, quelli che hanno partorito la musica degli Stones come Kronos e Rea partorirono Zeus.
Rivedo per un attimo quei ragazzini inglesi in una soffitta umida, ascoltare fino a consumarlo un 45 giri dai solchi gracchianti, in trance davanti al suono proveniente dalla vulva della musica, quella linea umida e fertile tra Chicago e New Orleans, là dove è nato più o meno tutto quello che ascoltiamo ancora oggi. Salvo Gigi D'Alessio, magari.

E ripensi al viaggio infinito di quei ragazzini troppo magri, figli della guerra, che li ha portati oltre le generazioni, i confini delle nazioni, le tendenze, persino oltre la musica. Gli Stones sono la nostra memoria, lo spirito di un secolo maledetto ma nostro, il ventesimo. Sono la dimostrazione che con tutte le nostre cazzate da occidentali viziati, viziosi e corrotti, senza più Dio né vera legge, oltre a tutta quella merda e quel sangue, qualcosa di buono l’abbiamo pure fatto, cazzo, e lo possiamo fare ancora.
E si, saranno pure il passato.
Le ultime vestigia di un’Era leggendaria, così come le rovine romane che ci accolgono stanotte.
Ma anche un radiofaro che ci segnala la rotta da seguire nel futuro. Perché la memoria è per sua natura selettiva, e lungimirante. E la nostra, se per un attimo taci e ascolti attentamente, ha il suono di una Les Paul Supreme, le cui corde sudate piangono piano, in un honky tonk sul Mississipi.

E capisci infine che gli Stones sono un viaggio che non si ripeterà mai più, sublimazione di quello di tutti noi, e che tu, almeno per una volta, prima che sia troppo tardi, hai cantato Gimme Shelter sotto la loro stessa Luna.

E' stato bello, anzi bellissimo.

 
 
 

TWILIGHT ZONE - Parte III

Post n°700 pubblicato il 19 Novembre 2013 da sciffo

 

 

And did we tell you the name of the game, boy?
We call it Riding the Gravy Train
 

"Beh, ti dirò io qualcosa che con l’esperienza ho scoperto su di te, anzi di noi. Partiamo dal nocciolo, anche se la cosa non soddisferà il tuo ego.
Ebbene: tu, come la maggior parte delle persone, sei buono. Buono.
Lo so che migliaia di film, libri, riviste e tv del cazzo e di perversi percorsi professionali ti hanno portato a credere che, in fondo, la bontà sia una cosa sbagliata, da perdenti cronici, una sorta di zucchero filato, inutile e troppo dolce. Ma non è così, e comunque, se anche lo fosse, non puoi farci niente, tu sei fatto così punto. 

La parola ‘bontà’ suona un pò male, quasi falsa, vero? Infantile e fuori luogo, se riferita ad una persona adulta. Invece dovresti urlare davanti a tutti, magari anche di fronte allo specchio 'Io sono BUONO! BUONO, CAZZO!!!'.
Non devi pensare che sia necessario presentarsi come una specie di Gandhi, con una corona di fiori al collo o passare le giornate agli incroci, in attesa di vecchiette bisognose di una mano per attraversare la strada.
La vera bontà si esprime nel mondo reale, senza ostentazione. Regalando il proprio tempo e la propria esperienza a chi ne ha bisogno, aiutando un amico in difficoltà, evitando di trarre vantaggio dai problemi del prossimo.

E, soprattutto, con il perdono.
Essere buoni, in definitiva, altro non è che l’amore a trecentosessanta gradi: non solo per i propri cari, ma per la natura, la vita, le persone.
In origine è dentro ognuno di noi, salvo poche eccezioni, ma purtroppo possono accadere esperienze terribili, subdole, tali da distruggere per sempre ogni purezza d’animo.

Ma a te, nonostante tutto, questo non è accaduto, per cui, fattene una ragione: non sei capace di provare rancore nè rabbia, ed anche se qualcuno ti fa un torto, sei sempre pronto a dimenticare ed a passare oltre.
Sto parlando di qualcosa che somiglia molto all'ideale cristiano, ma non si tratta di dottrina o una scelta più o meno forzosa, quanto di un'inclinazione naturale. Ed è' per questo che funziona davvero. Se uno è stronzo, può frequentare profeti e nutrirsi di ostie, ma stronzo rimane.

Infatti, d’istinto, non ti sei mai fidato delle religioni e delle istituzioni di fede, che non possono cambiare le persone, piuttosto sfuttarne un assurdo desiderio d'immortalità, quando non di potere sugli altri.”

"Va bene, dentro sono dolce come un pezzo di pandoro e pazienza, me ne farò una ragione. Ma che me ne faccio di saperlo?" 

"Il passaggio fondamentale viene adesso. Se tu apri gli occhi sul cuore, perdonami il gioco di parole, e ne accetti il contenuto, rimuovendo ogni ostacolo all'autocoscienza, toglierai ogni limitazione ad una forza immensa, quella di un animo capace di comprendere il fluire del mondo.

Mio giovane jedi, tu sottovaluti il potere del lato illuminato.

La bontà non è cosa da beghine o fatine delle favole.
Qui non si tratta del moderno ‘buono e coglione’ quanto di un più umanista ‘buono e giusto’. Liberati dal pregiudizio e accenderai l’empatia per il mondo. E’  una tua responsabilità, alla quale però non puoi e non devi sottrarti, o ti autodistruggerai.

L'esistenza umana non è uno sport di potenza o di velocità, non dura un secondo e nemmeno un'ora, ma anni. E’ una fottuta ultramaratona, pura resistenza, dove lottare ogni metro, ogni giorno, fino alla fine.
Le qualità che servono per tagliare la finish linesenza troppi rimpianti le hai sotto gli occhi da sempre. Un esempio per tutti: la miracolosa potenza della maternità. Guardi una donna, un essere proverbialmente delicato e gentile, e magari pensi che non valga neppure una puntata da un dollaro. E invece una qualsiasi mamma dispone di una forza interiore incredibile, che le porta a superare cento tempeste e mille terremoti, roba che distruggerebbe un titano, ma lei tiene duro come un fighter di razza, spinta solo dall’amore.

Un fiore dai petali di velluto, ma dal gambo d'acciaio."

Mentre riflettevo che, effettivamente, il sistema nervoso di mia madre è forgiato in puro adamantio wakandiano, mi accorsi che la pelle del mio alter ego sembrava cambiare colore, virando verso un pallore quasi spettrale. Anche lui se ne rese conto, e si fissò le mani ormai diafane per un paio di secondi.
"Che sta succedendo?" chiesi.

"L'operatore... temo che si stia svegliando.
Ma devo dirti ancora una cosa molto importante, la più importante di tutte.

Se riuscirai a liberare questa forza, potrà servirti soprattutto per due scopi.

Il primo è quello di controbilanciare la paura, e magari di soverchiarla. Gli uomini di questo mondo ne vivono avviluppati, letteralmente dominati. Paura della morte, della malattia, di perdere il lavoro, i soldi, gli affetti. Per non parlare di altri timori meno comuni ma comunque patologici.
La maledetta dirige ogni loro azione, impedendogli di utilizzare qualsiasi potenzialità, e così la vita scivola via giorno dopo giorno, insignificante, paralizzata, inutile.
Il cuore si restringe come una spugna senz’acqua, e alla fine ne resta solo polvere, che la prima folata di vento si porta via.
Tutti noi, chi più, chi meno, ne siamo influenzati.

Ma bontà e amore sono l’unica, potente medicina: ti faranno accettare ed apprezzare il mondo per quello che è, con le sue bellezze ed i suoi limiti.
Sarà come essere sposati con la vita: assieme nella buona e nella cattiva sorte.
E allora la paura, come bloccante, non avrà più senso."

"E il secondo scopo?" 

"Aprire le porte del cuore può spalancarti quelle del mondo, che oggi tieni spesso socchiuse, condannando me, il tuo futuro, a un’esistenza da esule.
Hai tante persone che ti vogliono bene, forse perchè riescono a vedere dentro di te più di quanto non sia in grado di fare tu stesso.
Ma, a volte, tendi ad allontanarti da loro, apparendo scostante, senza esplorare fino in fondo le potenzialità degli affetti.
Credo dipenda dal fatto che molte delle persone a te più care non ci siano più, ed al vuoto che questo ti ha lasciato. E' quella sensazione sorda e violacea, di aver perso un pezzo di te stesso che, a livello subliminale, non ti abbandona mai.
Sembra che tu non voglia concederti totalmente, preferendo mantenere un margine di distacco, tale da limitare i danni qualora venissi deluso o abbandonato di nuovo.

Hai la guardia sempre alta, che in effetti ti protegge, ma dove non entrano i pugni non può passare nemmeno la felicità.
Se riuscirai a toglierti le catene, a lasciale fluire le emozioni, le scorie radioattive verranno eliminate come i postumi di una brutta sbronza. E sarà la cura più efficace anche per le mie merdosissime rughe, meglio di qualsiasi puntura del cazzo." 

Lo guardai ma i suoi contorni, adesso si erano come liquefatti e amalgamati con lo sfondo, divenendo indistinti. Il tempo stava finendo, e lo sapevamo entrambi.
C’erano ancora tante cose di cui parlare, e allo stesso tempo nessuna.
Ci abbracciammo per qualche attimo, con la foga disperata di due naufraghi cui la tempesta sta schiantando la zattera, poi il vecchio si allontanò di un passo.
Mi fissò, sapevo che voleva imprimersi bene in mente quell’aspetto ancora forte e intatto che, un tempo, era stato il suo. Non l’avrebbe più rivisto, se non su qualche foto dal formato assurdamente piccolo.
Vidi davvero lo spillare di una piccola lacrima di nostalgia, o di rimpianto? Non potrei giurarci. Forse era solo un riflesso dello specchio che mi trovavo davanti come ogni giorno, ma ora silente ed innaturalmente vuoto, come una finestra aperta verso una notte stellata. 

 

 
 
 

TWILIGHT ZONE - Parte II

Post n°699 pubblicato il 17 Novembre 2013 da sciffo

Hey you! Out there in the cold
Getting lonely, getting old, can you feel me?

Riflettei un istante. 
Tutta la faccenda era semplicemente pazzesca, tanto da farmi davvero credere di essere in un sogno. Ma, se lo era, tanto valeva vedere come andava a finire.
E poi mi stavo divertendo.  

"Ammettiamo che sia come dici tu ...non posso farti domande senza paura delle risposte. Potrei scoprire cose terribili, e preferisco non saperle. A dire il vero, mi basta guardarti in faccia per averne quasi la certezza.
Facciamo così, visto che rappresenti la metà senziente, parla tu. Tralascia le brutte notizie, e pure le cazzate, e limitiamoci alle indicazioni di massima che pensi possano essermi, esserci, utili. Che ne dici?"

"Si, forse hai ragione. Mmmh ...da dove cominciare?"
Flettè un paio di volte le dita, come un pianista che vuole eliminare ogni rigidità prima del concerto, poi si portò una mano al mento e volse gli occhi al cielo.
"Dunque, vediamo: innanzitutto, non stare troppo a preoccuparti. E' vero, la mia faccia è quella di un reduce, e pure di una guerra sanguinosa, ma non è proprio così.
La guerra c'è, ma è per tutti, e siamo tutti veterani, sia quelli che attaccano alla baionetta le trincee nemiche, sotto il fuoco delle mitragliatrici, sia quelli che stanno in fureria a compilare ordini di munizioni.
L'importante è non credersi mai gli unici a portare la croce perchè, se succede, quello è il momento in cui siamo perduti.
Tu hai sempre apprezzato un leale confronto fisico, quindi dovresti capire facilmente  che se ho questo ghigno, così diverso dal tuo sorriso sfrontato, è perchè ci troviamo in due fasi diverse del combattimento: tu sei quello ancora fresco e aggressivo dei primi round, convinto di poter mettere ko l'avversario in pochi minuti.
Io, invece, sono quello della parte finale del match, che si è reso conto che il maledetto che ha di fronte è un osso duro, molto duro. E che, se proprio gli andrà bene, potrà sperare in una risicatissima vittoria ai punti. Anche se temo che, quando arriverà l’ultima ripresa, sarà già un bel risultato riuscire a reggersi in piedi fino alla campana."

Lo vidi rabbrividire, come se un vento gelido gli avesse attraversato le ossa, mentre io invece stavo sudando come un grizzly perso nel deserto.
Continuò.
"C'è una cosa che devi finalmente interiorizzare, e sarebbe proprio ora. E cioè che, anche se ti sembrerà incredibile, tutti noi abbiamo un cammino di massima segnato, chiamalo come cazzo vuoi, se ti piace anche destino. Non si tratta di qualche frase scritta con caratteri gotici da un astrologo mezzo finocchio, in un libro polveroso.
Ciascuno di noi è fatto a modo suo, e questo nostro modo d'essere ci porta inevitabilmente a compiere determinate azioni e scelte. Tutto qui, semplice e intuitivo, e nessuno può farci un bel niente, men che meno noi stessi. Nessuno può cambiare nessuno.
Ricordi quando da ragazzo, con gli amici, passavate quasi ogni pomeriggio d'inverno a giocare a Monopoli?"

Me lo ricordavo bene, anzi il pensiero di quei bambini, con maglioni a rombi anni 70, mi scaldò per un attimo il petto …ma che c'azzeccava?
Il mio doppio rise, nel vedere il mio sguardo interrogativo, poi riprese.

"Prova a ricordare davvero: c'era chi di solito vinceva, chi invariabilmente finiva spolpato dopo pochi giri, chi era sempre in prigione, chi si accontentava di vivacchiare in attesa della merenda. I giocatori erano sempre gli stessi, e ciascuno di loro giocava sempre nello stesso modo, con esiti quasi sempre uguali.
C'era quello che pescava la carta degli Imprevisti e trovava immancabilmente una rendita fortunata, e quello che invece ogni volta ci trovava una multa o una condanna a tre giri in prigione senza nemmeno passare dal Via.
La vita è molto più complessa di una partita a Monopoli, ma in fondo è sempre la pasta di cui siamo fatti che determina le nostre azioni, e cercare di contrastare questa tendenza, di essere qualcun altro, può portare solo disastri.
Invece, occorre imparare a cavalcare queste correnti neurali, ad assecondarle ed a cercare di trarne quando possibile vantaggio, e negli altri casi, a limitare i danni."

Lo interruppi: "In altre parole, a vedere la bottiglia mezza piena."

"Si, ed anche a farsi piacere il liquido che c’è dentro, fosse pure piscio. Certo, se qualche volta ci trovi una birra fresca, è meglio."

"Beh. francamente non mi pare chissà quale rivelazione."

"Infatti, hai ragione. Questa è solo la premessa. Il vero problema è capire chi siamo: quello che a Monopoli vince sempre, quello che insegue il sogno di un hotel a Parco della Vittoria o quello felice con una sola casa in Viale Monterosa?
Se riusciamo a svelare l'enigma, e ad accettare la verità, la nostra vita avrà una direzione chiara ed una destinazione alla quale, se non altro, tendere. Noi ci autodistruggiamo quando pensiamo, o speriamo, di essere diversi da quella che è la nostra vera natura. Ma qual è questa essenza, la nostra fibra elementare?
Purtroppo, la risposta quasi mai è quella che vorremmo scoprire. Eppure, dobbiamo farla nostra per riuscire a vivere davvero". 

"Mi sembra di averla già sentita, questa. Socrate l'ho studiato in terza liceo. Non mi pare niente di rivoluzionario..."

"Mai detto che lo fosse, ciccio. Però prova a pensare a te stesso, o alle persone che hai vicino. Secondo te c'è qualcuno di voi che davvero si conosce, si accetta per quello che è, e si comporta di conseguenza? Solo i bambini più piccoli, nei quali tutto è istinto, sanno chi sono o, se preferisci, cosa vogliono.
E più la vita avanza, di solito, più si perde la direzione e la consapevolezza di sè. Le crisi dell'adolescenza, non a caso, arrivano quando inizia l'età adulta e l'istintività, la semplicità d'intenti lasciano spazio alle prime e artificiose responsabilità di contesto.
Per non parlare poi della mezza età, quando diviene evidente e irreversibile il disallineamento tra l'immagine ideale che si ha di sè ed una realtà quasi sempre ben diversa.
I più sfasati, poi, sono certi anziani, che si considerano magari dei saggi, ma nei quali invece il disallineamento spesso si è solo incancrenito, distruggendo ogni capacità di ragionamento critico. E così diventano quasi sempre dei gran rompicoglioni, altro che oracoli di Delfi, al più possono esibire le loro ferite e raccontare come se le sono fatte. 

Anche questo l'avrai studiato in terza liceo, è un elaborazione postmoderna del mito della caverna. Ma il conoscere la filosofia classica e il riuscire ad evitare gli ostacoli dell'esistenza sono due capacità affatto complementari. Anzi, direi quasi  antitetiche, perchè spesso sono proprio le persone meno istruite e più semplici, quelle ancora vicine all'io-bambino, a portare a casa la pellaccia in battaglia."

La mia mente fece scorrere alla velocità della luce i volti dei miei amici, e dovetti convenire che, in effetti, le loro strade, per quanto potessi giudicare, si erano spesso evolute in direzioni del tutto congrue con quanto avevo appena sentito enunciare.

"E quindi veniamo al nostro caso: tu pensi di conoscere te stesso, di sapere dove vuoi andare?" mi chiese dopo una breve pausa, ogni parola che pesava come un masso dolomitico.

Non mi ci volle molto per trovare dentro di me la risposta, e scuotere lentamente la testa. Si, forse qualche elemento ce l'avevo, ma per lo più ero un aggregato di tracotanza (ancora il maledetto Socrate!), come chiunque altro del resto.
D'un tratto mi sentivo privo di consistenza, bidimensionale come un personaggio dei fumetti.

(Continua)

 
 
 

TWILIGHT ZONE - Parte I

Post n°698 pubblicato il 16 Novembre 2013 da sciffo

Running over the same old ground
What have you found?

Da qualche tempo, più o meno due mesi, ogni mattina incontravo un tipo un pò strambo.
All'inizio mi faceva un pò pena, con quella faccia sempre troppo seria, come se avesse appena pestato una merda con le suole tassellate, ma dopo un pò iniziava a starmi proprio sulle palle.
Si, lo odiavo quasi, perchè la vita è già troppo complicata anche senza avere di fronte qualcuno che te lo ricordi tutti i santi giorni.

Era un tipo di mezza età, con i capelli brizzolati e la pelle delle guance che iniziava a cedere alla forza di gravità. Quando lo incontravo, spesso si trovava impegnato a leggere un romanzo, lo sguardo assorto, al limite dell'assente, e un paio di occhiali da miope sul naso che lo facevano sembrare un vero coglione.

Eppure, tutte le maledette mattine eccolo lì, sempre apparentemente impegnato in qualche pigra faccenda, tipo leggere il suo fottuto libro, anche se non perdeva mai l'occasione per alzare gli occhi verso di me e scoccarmi un'occhiata stanca e di vaga di sfida, come se avesse voglia di attaccare briga. 

Il fastidio si accumulava giorno dopo giorno e alla fine, in una giornata in cui mi ero svegliato un pò storto, mi feci avanti.

"Scusi, sta cercando qualcosa? Posso aiutarla?", gli chiesi all'improvviso, con un tono quasi aggressivo, sperando di coglierlo almeno un pò di sorpresa.

Il coglione se n'è rimase in silenzio per dieci secondi buoni, fissandomi come se mi avesse visto pisciare in un bicchiere.
"No, grazie." rispose alla fine, facendomi sentire per la prima volta la sua voce nasale, venata di qualcosa di indefinibilmente familiare "Perchè me lo chiede?"

"Mah, mi dava l'impressione che avesse perso la strada e stesse cercando aiuto, tutto qui" - a questo punto avrei dovuto salutare, girargli le spalle e andarmene, ma purtroppo, preda di un alieno raggio traente, non ci riuscii.

Il tipo continuava a fissarmi, ed io me ne stavo lì immobile, ma per qualche ragione la mia aggressività stava svanendo rapidamente come nebbia in giugno, lasciando spazio ad un principio di curiosità quasi morbosa.

"In effetti, qualcosa l'ho persa, ma dubito che lei o chiunque altro possiate aiutarmi a ritrovarla" mi disse dopo un'altra pausa, affatto imbarazzante per quanto prolungata, come tra due amici impegnati in un lungo viaggio. 
"...l'ho persa e non tornerà più. Ma lei se n'è comunque accorto. Allora dev'essere più evidente di quanto pensassi!" Una specie di sorriso amaro, o forse soltanto ironico, stava emergendo sulle sue labbra sottili. 

"Mi dispiace. Quel che è evidente è che lei doveva tenerci molto, qualsiasi cosa fosse." Non è da me mettermi a fare conversazione con gli estranei, eppure cominciavo a sentire che la cosa poteva anche farsi interessante, che nonostante lo sguardo idiota forse quel poveraccio poteva avere una storia interessante da raccontare. E da parte mia, per qualche ragione, ero ansioso di ascoltarla.

"Non mi hai ancora riconosciuto, vero?" mi chiese, passando con naturalezza a darmi del tu, mentre spostava lentamente il suo mezzo sorriso verso un angolo della bocca.

Lo guardai meglio: i tratti del viso mi erano in effetti familiari, ma nello stesso tempo mi apparivano sfumati, artefatti, come se stessi fissando Fantomas e la sua maschera di gomma.
"Mmmhh ...no. Ci conosciamo? Forse lei era un amico dei miei genitori", abbozzai.

Rise, e scosse la testa, fissando per un istante lo spazio vuoto tra di noi. "No, non proprio. No." Si passò il palmo di entrambe le mani sul volto, come per riprendersi da un sonnellino. O da una brutta notizia. "Avrei dovuto immaginarlo ...forse era meglio che noi due non ci fossimo mai visti, ma sei sempre stato molto curioso, ho sempre saputo prima o poi poveva succedere" - scosse la testa, spostando lo sguardo verso un punto imprecisato alla sua sinistra. 

A quel punto, ero curioso davvero.
Lo fissai, cercando di sforzare al massimo vista e memoria, ma senza risultato. 
"Dunque ci conosciamo! Magari quando ero bambino... forse a casa dei miei nonni? Mi aiuti, per favore. In qualche modo lei mi è familiare, ma non riesco proprio a ricordare"  

Si voltò per un momento, come se temesse di essere spiato, poi prese un respiro profondo e mi guardò con un'intensità d'un tratto terribile, mostrandomi profonde ragnatele di rughe attorno agli occhi. Infine, si decise a parlare. 
"...io ...io sono quello dell'altra metà. Della seconda metà."

Se questa rivelazione doveva colpirmi in qualche modo, beh, non fu così. Al contrario, per un istante pensai che il tipo fosse un matto, uno di quelli da camicia di forza e stanze imbottite. Avrei dovuto pronunciare qualche parola di circostanza e passare oltre, eppure, sentii la mia voce chiedergli: "Scusi ma ...che cosa sarebbe questa seconda metà?"

Rise. "La seconda metà è ...la seconda metà della tua vita. Capisci?"

Non capivo, non volevo capire. Doveva trattarsi di un brutto sogno, da lì a poco mi sarei svegliato, un pò sudato forse, ma nella mia solita, solida realtà.

Vedendo che mi trovavo in una sorta di limbo cognitivo, riprese: "Io e te viviamo nello stesso posto, cioè nella coscienza del nostro alter ego.  Se la sua vita fosse un film, tu saresti il primo tempo, ed io il secondo." si interruppe per un attimo, per consentirmi di elaborare l'informazione "La tua sorpresa è normale.
Di solito, il primo ed il secondo tempo non si sovrappongono mai, anzi, nel mezzo c'è un intervallo per consentire all'operatore di sostituire la bobina ed agli spettatori di prendere una pausa da tutte quelle emozioni, riguadagnando un sano distacco dalla trama.
Ma alcune volte, più frequenti di quanto si possa pensare, accade che l'operatore si addormenti o faccia casino con la pellicola, e allora... beh, allora sono cazzi".

"Cioè ...fammi capire: tu saresti me anziano ed io me stesso ...noi, giovane? Se qualcuno mi sta facendo uno scherzo, beh, mi fa proprio cagare." Sentivo la pelle d'oca persino sulle spalle, e il battito del cuore rimbombarmi nel cranio. A tutta forza.

Si guardò di nuovo furtivamente alle spalle. "Ascolta. So che per te è difficile. Tu sei quello per cui il mondo fila sempre dritto per i binari della logica elementare, quello per cui tutto è bianco o è nero. Le mie parole non possono che sembrarti pazzesche. Ma, almeno per un istante, ammettiamo che che le cose stiano come dico io. In fondo la fantascienza ti è sempre piaciuta, no?"
Prese fiato come se stesse correndo, poi proseguì - "Ok, questo non dovrebbe mai succedere, noi due non dovremmo mai avere avuto alcuna occasione di incontro. Eppure qualcosa, da qualche parte, è andato storto, e adesso siamo qui.
Intendiamoci, non durerà: sono sicuro che l'operatore sta per svegliarsi, o magari l'ha già fatto. Presto si affannerà per rimettere tutto a posto e noi due torneremo a respingerci come poli a carica opposta, forse la pellicola verrà riavvolta e non potremo nemmeno ricordare di esserci incontrati.
Ma può anche darsi che non vada proprio così, e in quel caso per noi, per il nostro intero - il film - questa è anche una grande occasione. Ragiona: io conosco il tuo futuro, e tu adesso puoi chiedermi quello che vuoi. Se mi poni le domande giuste, se scopri le carte importanti, puoi imparare molte cose di te stesso che nemmeno immagini, e non sono poche, credimi sulla parola. E magari, chissà, il fatto di conoscerle potrebbe cambiare il tuo futuro. E migliorare il mio presente".

(Continua)

 
 
 

CLARKSDALE, MIS

Post n°697 pubblicato il 06 Ottobre 2013 da sciffo


Every day, every day I have the blues
When you see me worried, baby, because it's you I hate to lose 


Esistono luoghi che si imprimono a fuoco nella nostra anima.

Fascinazioni eterne, che scaturiscono in genere da immagini di abbacinante bellezza scansionate dagli occhi, ma poi filtrate da un'emozione, un momento irripetibile, un singolare stato dello spirito.

Il Sasslongher in un limpido mattino di settembre, ad esempio.
La lingua di sabbia che porta all'Isola dei Gabbiani vista dalla collina, con Spargi e Budelli arrossate dal tramonto, e il mare che sembra diamante liquido.

Uno sguardo e ogni nube della mente svanisce, improvvisamente ti è tutto chiaro, ma proprio tutto. Ed è fatta: ti sei innamorato di quel luogo, e sarà per tutta la vita. E forse anche oltre, chissà.

Ma ci sono anche posti che, da vedere, non hanno niente di speciale.
Magari ci passi solo una volta nella vita.
E senza aspettarti niente di grandioso.
Ma poi succede qualcosa, qualcosa che non puoi vedere, e la fascinazione nasce direttamente nel nocciolo del tuo essere. 

'Cause what you see is not always what you get, bro.

Siamo arrivati a Clarksdale aspettandoci di trovare la solita cittadina americana, sperduta in mezzo ai campi senza fine del Mississippi, un brufolo schiacciato di civiltà ai bordi della solita highway di cemento dritto e grigio, con il serbatoio dell'acquedotto scrostato e la gente che vive in roulotte o baracche di lamiera.

E c'era tutto, cazzo.
Anche il serbatoio degli anni 40 e le tipiche catapecchie del Sud rurale, con il rottame di un'automobile appoggiata sui mattoni nel cortile. 

Non c'è nessuno, in giro, eppure il pittoresco motel consigliato dalla guida risulta al completo, e le telefonate di ricerca del gentilissimo gestore, che vanta antenati piemontesi, non hanno esito positivo.
Troviamo posto solo in un marcio Rodeway Inn da camionisti, senza neanche la solita piscinetta di 5 metri quadri per far rinfrescare i bimbi. Moquette marrone, copriletti marrone, la ragazza nera alla reception che tiene gli occhi bassi, molto bassi, e chiama mia moglie 'Madam', come se avesse appena finito di raccogliere tabacco nella nostra piantagione.

Gli unici ospiti sembriamo essere noi quattro, una coppia di sessantenni rivestiti in pelle con le loro Harley, e una famiglia di messicani con duecento valigie.

Prendiamo la Charger e torniamo verso il paese, col V8 che borbotta, implorandomi inutilmente di schiacciare a tavoletta.
Lentamente, perchè qui è tutto lento, e la lentezza, piano piano, si fa strada nelle sinapsi come una malattia. O come una medicina.
All'unico semaforo, quasi ci perdiamo il minuscolo 'monumento' delle Crossroads (highway 49 e 61), dove Robert Johnson vendette la sua anima al diavolo in cambio di una soprannaturale abilità con la chitarra. A vedere 'sto posto, nel lurido parcheggio di un'area di servizio, ti vien da credere che sia tutto vero. Perchè il diavolo, da queste parti, ci è passato di sicuro, e magari ogni tanto ci ritorna pure.

I binari del treno preannunciano il quartiere dei neri, con le casette dai colori ormai morti da tempo, i bambini bellissimi e gli adulti seduti sui marciapiedi ad aspettare il prossimo assegno di sussidio.
Sono solo pochi blocks, tutti fottutamente uguali, eppure qui sono nati Sam Cooke, John Lee Hooker e Ike Turner. Solo per citarne alcuni. 

Poi c'è la zona dei bianchi, con i prati più curati ma le case ormai perlopiù marcescenti, i pickup d'ordinanza e i cappellini da baseball con il logo Jack Daniel's.
It's The South, come non l'ho trovato da nessun altra parte. 

O forse i nativi li ho solo immaginati, perchè c'era il caldo terrificante del primo pomeriggio, e per la strada solo un nero con la camicia di flanella a scacchi, chiaramente il matto del paese. Sui marciapiedi roventi solo noi e lui, e dopo che ci siamo incrociati almeno tre volte, mi ha fermato e mi ha cantato due pezzi blues in cambio di un dollaro.

Perchè c'è un dettaglio di cui non ho ancora parlato, ed è importante: il blues è nato qui, proprio qui, in mezzo a questo umido nulla.

Infatti la Lonely Planet diceva di visitare il museo del Delta Blues, e noi l'abbiamo fatto, religiosamente. Non so se avete presente un museo di provincia, in Mississippi. Due stanze con la chitarra di Muddy Waters, uno spartito sgualcito e le sue mutande, usate. Un pò di tee-shirt commemorative a $ 9,99. Un custode con il berrettino di Ole Miss e i denti marci come un pontile dimenticato in un'ansa dimenticata lungo il big river.
Qui dicono che Billy Gibbons ha finanziato un ampliamento del museo, c'è pure una sua foto, ma con ogni probabilità in quel momento era ubriaco fradicio.

All'uscita, sono le quattro del pomeriggio, ci aspettano in agguato i maledetti quaranta gradi all'ombra, e ci guardiamo pensando "che cazzo ci stiamo facendo, qui?".
Non è facile trovare una risposta sensata.

Ci avventuriamo per le quattro strade incrociate che dovrebbero disegnare la griglia di downtown.
Negozi chiusi, sbarrati da anni con assi di legno, casette a due piani di mattoni, molte evidentemente abbandonate, un murales gigantesco di Clint Eastwood con il poncho che sembra sibilare "fate molto male a ridere..."

Improvvisamente, mi trovo davanti al cinema, o meglio, a quello che ne resta.
Ho già visto questa immagine in uno dei miei film preferiti,
L'ultimo spettacolo. Lì era il Texas, qui è il Mississippi, ma che cazzo cambia? 
E' sempre un cinema, che ti immagini affollato di ragazzi degli anni 50, che strillano nel vedere sullo schermo formiche giganti o un maniaco che accoltella una bionda sotto la doccia, con le Buick e le Oldsmobile di papà parcheggiate fuori, i popcorn e uno shake al malto, dolce come l'abbraccio di ogni veniale peccato. 
E adesso è vuoto, sbarrato, con le lettere adesive che penzolano come impiccati dall'insegna. 
E' il simbolo di un'America, di un'epoca, che non esistono più, e che non torneranno mai.
Quel cinema mi smuove qualcosa, nel cuore.
Forse comincio a capire che cazzo ci sto facendo, qui. 

Camminiamo ancora un pò e passiamo davanti ad una bottega di barbiere. Dentro un vecchio bianco allampanato con il grembiule, due vetuste poltrone di cuoio rosso e, ovviamente, nessun cliente.
Un impulso improvviso. Entro, e gli chiedo se può tagliarmi i capelli. "Sure, Sir!"
Parliamo del più e del meno, mentre lavora, mi racconta che è un maratoneta (avrà quasi ottant'anni!), tira un fuori un sacco da raccoglitore di cotone per i bimbi e intrattiene pure mia moglie, spiegandole il significato di
redneck, cioè di grezzo contadino del Sud. 
Ma le sue parole non potrebbero descrivere il concetto meglio del suo amico che entra nel negozio. Sulla sessantina, conciato come se avesse appena finito di smontare un trattore impantanato in una palude. Berretto da baseball e una mano priva di quattro dita, con la quale si presenta in allegria, insistendo per stringere anche quelle un pò schifate di Balboa e Barney.
Si siede sulla poltrona libera, ci da la sua versione sul tema
redneck, e dopo dieci secondi parliamo con la confidenza di vecchi amici e mi chiede se la mia signora non ha per caso una sorella. Rispondo di no, e che però, volendo, ha un fratello. Grasse risate e pacche sulle spalle. Potrebbe succedere anche in Italia? Mmhhh... credo proprio di no. 
It's the South: l'ospitalità di questa gente non è solo una leggenda.

Dopo il taglio di capelli usciamo di nuovo nella calura, ma ben presto ci rifugiamo in uno dei pochissimi negozi ancora aperti, dove una ragazzina bionda tenta di vendere, non si sa bene a chi, la sua collezione di abitini ed un pò di chincaglieria assortita.
Quando le diciamo che siamo italiani, quasi cade per terra: "Wow! Non ho mai visto un italiano in vita mia!".
Poi ci tempesta di domande con gli occhi di un bambino al circo, vuole sapere se è vero che in Europa le persone sono tutte magre come noi, se per andare da un posto all'altro di solito si cammina, se in Italia esiste veramente una città sull'acqua chiamata Venice come la spiaggia di LA.
Con sguardo e cuore candido da cucciolo ci racconta che il suo sogno sarebbe viaggiare e vedere il Vecchio Continente e tutte le sue stranezze, ma sa bene che l'attende un futuro ben diverso. Tra pochi mesi si sposerà con un ragazzo del posto, e si intristisce di colpo spiegandoci che il fidanzato già ogni sera torna dal lavoro e passa tutta la serata a bere birra sul divano.
"I'm just a country girl", i sogni spezzati sono il rosso seme del blues. 

Poi è la volta di un gallerista che ci invita a conoscere i suoi gatti. Nel vedere che nel negozio ci sono gli strumenti pronti per un concerto, gli chiediamo quale juke joint ci suggerisce per la serata. 
Pare che nel quartiere nero ce ne sia uno veramente grintoso, forse troppo dato che con noi ci sono i bimbi, e ci invita a provare invece il
Ground Zero Blues Club, il cui proprietario sarebbe nientemeno che Morgan Freeman. Mah... sembra sempre più di essere in un vecchio episodio di Twilight Zone...

Ci incamminiamo verso il locale, che dista si e no duecento metri come tutto il perimetro della città e, dopo una sosta in un incredibile negozio di chitarre, dove Balboa può strimpellare un pò su una Gibson stupenda, ci troviamo in una strada di magazzini abbandonati. In mezzo ad un parcheggio di cemento quasi totalmente sgretolato e deserto, fatto salvo una rugginosa Limo degli anni 80, si erge una sorta di fienile-saloon con un insegna al neon ed un divano scassato sul portico.
Un divano che mi resterà dentro per sempre.

Il Ground Zero, dentro, sembra anch'esso uscito da un film: i biliardi, il bancone enorme con le spine per la birra, i tavoli di legno, il palco per i concerti. Manca solo la rete dia pollaio a protezione dei musicisti.
Prenotiamo un tavolo per la serata, durante la quale, lo dico subito, ascolterò e ballerò con i miei figli il miglior blues che abbia mai sentito (Brandon Santini Band), mangiando pollo fritto e bevendo birra assieme a sconosciuti
redneck di mezza età.

Ma il nocciolo della questione, in fondo, è quel famoso divano.
Perchè è stato stando seduto lì, su quei cuscini sfondati, con la brezza calda del Sud che mi carezzava le gambe, che ho sentito Clarksdale, Mississippi, segnare una tacca profonda ed indelebile nella mia anima. 
Quel piccolo paese in sostanziale rovina, null'altro che disperazione con qualche granello di zucchero, colorato e neppure troppo dolce, come quello di una torta vinta al tirassegno del Luna Park. Eppure, quel luogo e la magia della sua musica, che è lì anche quando non la senti, mi hanno regalato qualche minuto di percezione del tutto, o perlomeno qualcosa che sembrava somigliarvi.
La consapevolezza limpida, eppur calda, di non essere altro che un granello infinitesimale, perso da qualche parte in un Universo senza limite conoscibile. 
Che il vero ed unico segreto è che non c'è nessun cazzo di segreto.
Che siamo noi e il nulla, e dobbiamo salvarci a soli, anche se sappiamo che in fondo è impossibile e che comunque non servirà a niente.

Ma anche che su quel divano, con la tua famiglia attorno, ci sei tu a
sentire che se davvero fossimo polvere, come potremmo provare tutto questo amore per loro, ed assieme il dolore di esser niente?

E questo è il blues, bellezza.
E' di questo che parla.

Se è nato qui, un motivo c'è, puoi scommetterci.

La mattina dopo, la possente prua della Dodge che fa rotta verso il Bayou, la pancia piena di uova e bacon, sintonizzo per caso la radio su una stazione locale che trasmette, senza pubblicità, alcuni pezzi che non ho mai sentito, ma che mi scavano dentro.
Non ho mai ascoltato, giuro, una selezione pià bella e struggente in vita mia.
E' Clarksdale che ci saluta, e infatti, dopo trenta miglia, il segnale si fa sempre più debole, e per quanto provi a cercarlo, si dissolve per sempre sulla striscia di asfalto nello specchietto retrovisore.
 

 
 
 

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