Creato da sciffo il 27/09/2005

noeasywayout

Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

CHE BOTTE SE ARRIVANO GLI ORSI

Post n°711 pubblicato il 02 Febbraio 2016 da sciffo


1. Film del 1976 sul baseball delle Little League col grande Walter Matthau.
2. Assoluta certezza per tutte le squadre che dovevano scendere in campo con i Grizzlies Roma negli anni 80


1982

Le Aquile Ferrara disputano il secondo campionato italiano di football americano, inserite nel girone Centro, nel quale debutta la squadra della Capitale, i Grizzlies appunto. Il nostro sport vive la vigilia di un inaspettato boom nel nostro paese, che esploderà del tutto un anno più tardi, ma  già si intravedono le prime avvisaglie di questo successo.
I capitolini infatti hanno come presidente nientemeno che Nicola Pietrangeli, grandissimo tennista degli anni 50-60 e figura indubbiamente molto importante, sia mediaticamente che per le tante conoscenze nei salotti romani. Ma se questo dovesse farvi pensare ad una squadra di gentiluomini pronti per Wimbledon, con giacca di cachemire e fazzoletto di seta nel taschino, beh, sareste fuori strada. E di parecchio.

Il football di quei tempi pionieristici è stato efficacemente descritto come “venti persone che si menano, uno che corre con la palla e un altro che cerca di prenderlo e staccargli la testa”. E’ difficile, per chi pratica o segue solo da poco questa disciplina, comprendere appieno il salto evolutivo compiuto dal gioco in questi trent’anni. Le squadre della nostra preistoria erano composte da tribù di giovani energumeni, reclutati tra i più “vivaci” delle rispettive città, selezionati secondo criteri rigorosamente darwiniani e, per forza di cose, quasi totalmente privi di esperienza e di basi tecniche.

In una realtà come quella romana, appena uscita dagli anni bui del terrorismo e con un sottobosco un pelino più frizzante di quello ferrarese (avete visto “Romanzo Criminale”? Ecco…), non è difficile immaginare come nei Grizzlies militassero anche personaggi dall’indole non proprio francescana…
Diciamo la verità, per molti di loro, e qualcuno di noi, il football non era altro che una scusa per potersele dare di santa ragione e in allegria, per una volta senza timore di finire nei guai.

Si aggiunga poi che nessun team disponeva di un coaching staff ma di un solo allenatore, quasi sempre un sottoufficiale americano di stanza in una base NATO e reduce del Vietnam, e quindi con nessuna possibilità – o conoscenza – per poter insegnare veramente i fondamentali dei singoli ruoli. Ogni allenamento ed ogni singolo esercizio erano full pads e soprattutto full contact, e più le condizioni meteorologiche erano difficili, più qualche pazzo trovava modo di esaltarsi. In sostanza si veniva addestrati come battaglioni di marines, con continue prove di forza e resistenza, e le partite di conseguenza erano vissute con lo spirito da carnaio di uno sbarco nel Sud Pacifico nel 1944.

Oltre all’indottrinamento dei nostri coach, non avevamo alcun altro modo di reperire informazioni sul football. Altro che Youtube o Nfl.com, non c’era nemmeno uno straccio di libro o rivista, nessun filmato (ancora non c’erano nemmeno i videoregistratori VHS!) e tantomeno partite per televisione, insomma il buio più assoluto.
La nostra unica fonte esogena d’ispirazione era un pugno di film dal doppiaggio demenziale, nei quali il nostro sport veniva chiamato “rugby” e le traduzioni delle chiamate negli huddle qualcosa tipo “allora ragazzi, al mio via tutti a destra, poi tutti a sinistra e mi raccomando spaccate più teste possibile”.
Ma c’era solo questo, e ciascuno di noi vecchiacci ha visto questi film centinaia di volte, cercando di estrapolare qualche minimo dettaglio che potesse far luce sui nostri tanti dubbi… “Il paradiso può attendere” con Warren Beatty, che piaceva tanto anche alle mamme e alle fidanzate, “Quella sporca ultima meta” con Burt Reynolds ed il testosterone alle stelle, ed il raro ma molto apprezzato “I mastini del Dallas”, con un giovanissimo Nick Nolte.
Ma più di tutti, forse, ci piaceva quello che parlava di una realtà simile alla nostra, un'autentico spaghetti-football, “Lo chiamavano Bulldozer” interpretato dal nostro idolo incontrastato Bud Spencer. Era la storia improbabile di un monumentale ex giocatore professionista che, trasferitosi non si sa bene perché in Toscana a pilotare uno scassato rimorchiatore, finiva per guidare una squadra di ragazzotti italiani alle prime armi in una partita contro i marines americani di Camp Darby. Il film naturalmente era costellato di scazzottate, rutti e gare di braccio di ferro e si può facilmente immaginare che anche la partita finale finiva a completo schifìo, e cioè a pugni e sberloni nella nuca.

Era questo il nostro background nella palla lunga un piede, forse ingenuo ma anche molto esaltante quando, una domenica di primavera, un pullman targato Roma e carico di una centuria di autentici legionari si presentò per la prima volta al vecchio Motovelodromo.

I ragazzi di Pietrangeli erano al campionato d’esordio, ma avevano già vinto molte delle loro prime partite. Si presentavano con la fama di squadra rissaiola, dal gioco durissimo e al limite del regolamento, che pure ai tempi era piuttosto permissivo.

Il primo a scendere nel parcheggio fu un nero gigantesco, con braccia come tronchi d’albero che spuntavano da una canottiera bianca undersize e una barba da mangiafuoco.  Unico particolare fuori posto era un paio d’occhiali da vista da professore di Harvard, dotati di lenti spesse quanto fondi di bottiglia. Sulla spalla destra reggeva un’enorme “portoricana”, alias un mangiacassette stereo, da cui usciva a tutto volume il riff di “Dance on the Groove and do the Funk”, e il gigante avanzava con passo elastico e leggermente danzato verso il campo, senza degnare del minimo sguardo nessuno dei molti ferraresi presenti.

Dopo di lui, con abbondante profusione di caciara, fecero capolino dal pullman una serie di facce che definire “da galera” sarebbe un eccesso di educazione. I giocatori delle Aquile, salvo alcune eccezioni, a confronto dei romani parevano tutti dei cantori dello Zecchino d’Oro. Una ciurma di pirati, ecco cosa ricordavano i famigerati Grizzlies. Grossi, agitati e minacciosi, ma soprattutto con delle ghigne che John Wayne al pol andèr a spazèr la Muntagnola, per dirla con le parole del poeta Andrea Mingardi from Bologna.
Tutto il pre-partita fu costellato da una serie di intimidazioni più o meno esplicite, dagli sputi sulle scarpe a inequivocabili gesti di minaccia di gola tagliata, il tutto condito con cori da stadio che promettevano una prossima iniziazione ai piaceri della sodomìa.

Al fischio d’inizio, l’Inferno. Mediamente dotati di stazza fisica superiore, i romani mettevano in pratica un gioco forse elementare ma di potenza terrificante, con in evidenza l’enorme  funky-man (il mitico Carl Mobley), impiegato sia in attacco che in difesa a bastonare tutti senza pietà.
Ma come se non bastasse, ogni mischia – e ce n’erano davvero tante - veniva trasformata dai Grizzlies in una rissa senza esclusione di colpi, tra i quali i preferiti erano dita negli occhi, calci nelle palle e ovviamente sputazzi di ogni forma e colore. Intendiamoci, roba del genere capitava con tutte le squadre, solo che i romani avevano portato le consuete gentilezze della domenica davvero a un altro livello. Se solo si potesse avere una registrazione audio degli insulti che volavano in campo… una creatività del genere, accentuata dagli accenti laziali, potrebbe valere oggi una certa somma.

In qualche modo comunque la partita finì senza essere sospesa dagli arbitri, per i quali pure non fu certo una passeggiata di salute, e si arrivò al momento del saluto tra le squadre al centro del campo.
Reduci da una battaglia di due ore senza esclusione di colpi, una certa tensione elettrica scorreva tra i giocatori ferraresi, i più esperti dei quali pensarono bene di tenersi in testa il casco, e non certo per evitare un colpo di sole. Al momento del “cinque” tra il  nostro defensive end italo-canadese Victor Visentin, soprannominato con buona ragione “Uomo di Ferro”, e il tackle romano con cui si era scambiato botte e minacce di orrenda morte per tutto il pomeriggio, scoppiò finalmente la scintilla che tutti aspettavano. Qualche parola poco gentile, l’ennesimo sputo in mezzo agli occhi e in pochi attimi ecco scatenarsi un “Free-for-all” da saloon di Abilene.
Bud Spencer sarebbe stato molto orgoglioso di questi ragazzi, evidentemente avevano studiato a fondo i suoi film.

La scenografia era divertente e terrificante al tempo stesso, un centinaio di energumeni che se le davano di santa ragione in uno spazio totalmente sgombro, con arbitri, allenatori e dirigenti che, dopo aver provato di sedare i combattimenti, preferivano saggiamente ritirarsi al coperto prima di venire pestati come tamburi indiani. 
Il dubbio del momento era: tenere il casco in testa a protezione della stessa (soluzione preponderante tra i ferraresi) o sfilarlo per utilizzarlo come una mazza ferrata (soluzione preferita dai romani)?
In quella partita tra l’altro erano stati invitati – piuttosto improvvidamente - a roster delle Aquile alcuni ancora imberbi ragazzi della giovanile.
Tra di essi il grande Nox, che qualche anno dopo si tramuterà in un carro armato umano, ma qui battezzato da un casco lanciatogli nel teschio a mach 3, che finiva ko tecnico nel suo match d'esordio.

Ma quel che tutti ricordano è una scena classica, che si ritrova in ogni film del nostro amato Bud: mentre il gargantuesco Mobley cercava di separare due che si menavano senza pietà, uno dei nostri OL, che qui chiameremo Mayo, si avvicinò alle sue spalle per tirargli un’inutile botta nella schiena. Mobley si girò lentamente, fece uscire un getto di vapore dalle narici taurine, e iniziò a inseguire il povero Maini per tutto il prato. Era uno spettacolo vedere con quale insospettabile agilità slalomava tra i tafferugli…
Altri due rookie, Paltro e John, non essendo entrati in campo, avevano pensato bene di andare a farsi una doccia anticipata, evitando il saluto finale. Per cui erano del tutto ignari della battaglia in corso, quando videro irrompere Mayo nello spogliatoio urlando: “Aiuto! Qui ci ammazzano tutti!”. Resisi parzialmente conto della situazione, anche per le urla di guerra vichinghe che provenivano dall’esterno, i tre si rifugiarono in uno sgabuzzino imbracciando delle scope e attendendo la fine.
Nel frattempo la rissa non accennava a placarsi, con parecchi ferraresi ridotti a mal partito e altri che si difendevano come il generale Custer a Little Big Horn. Era evidente che i romani si divertivano un mondo, e che non si sarebbero fermati fino a che tutti i giocatori delle Aquile non fossero stati sufficientemente caricati di legnate. Per fortuna, dopo almeno venti minuti di pestaggio generale, con i numerosi spettatori ormai fuggiti dall’impianto, arrivarono con stridore di freni alcune volanti della Polizia, chiamate da un ignoto quanto provvidenziale samaritano.
Ci volle comunque parecchio per calmare tutti i duellanti, e soprattutto per convincere John, Paltro e il traumatizzato Mayo a uscire da quello sgabuzzino.
Probabilmente quest'ultimo, quando a cena ha mangiato pesante, ancora oggi sogna Mobley che lo insegue incazzato coe un toro da corrida per tutto il vecchio Motovelodromo.
Con in sottofondo “Dance on the Groove and do the Funk”, s’intende.

p.s.: quello nella foto è proprio Lui, l'unico e inimitabile Carl Mobley ...con lui erano cazzi!

 
 
 

ULTIMO CHILOMETRO A KLAG

Post n°710 pubblicato il 13 Gennaio 2016 da sciffo

Running over the same old ground,
what have we found?
The same old fears.
Wish you were here.

E’ stata una lunga giornata, oggi.

Mi sono svegliato all’alba, dopo una notte quasi insonne, posseduto da una strana e potente magìa, io come altri duemila mezzi matti provenienti da tutto il mondo. Ci siamo tuffati tutti assieme in un lago la cui acqua ha un incredibile color turchese, e nel quale si specchiano montagne maestose, che abbiamo poi scalato pedalando tra gli abeti, in un radioso mattino di inizio estate. Infine, il pomeriggio è trascorso lento e caldo, correndo per le strade e i sentieri attorno al lago, punteggiato dai mille sorrisi e dal tifo allegro di passanti e familiari.

Per la prima volta, e già so che non sarà l’ultima, ho percorso quasi quattro chilometri a nuoto, centottanta in bicicletta e quarantuno di corsa. Tutti di seguito, senza mai fermarmi. Duecentoventicinque chilometri tutti con le mie sole forze.

Me ne manca ancora uno. E’ l’ultimo, ed ho tutta l’intenzione di godermelo a fondo.
Ma il percorso che mi ha portato fino qui non è iniziato stamattina, è stato più lungo, molto più lungo.

Inizia quasi trent’anni prima.

 

E’ una domenica d’inverno, uno di quei classici inverni padani, umido e insipido come quell’albume d’uovo che mia nonna mi dice sempre di scartare, quando prepariamo assieme le tagliatelle.

Ho dodici anni, sono un ragazzino un po’ robusto e che non ama particolarmente lo sport, anzi che non capisce proprio che gusto ci sia, a faticare come schiavi nubiani. Preferisco leggere un romanzo di Salgari dopo l’altro, anziché affannarmi dietro un pallone. In palestra ci vado ma, diciamo la verità, solo perchè costretto a calci nel sedere dai miei genitori, preoccupati che “da grande” io possa diventare una sorta di palla di lardo.

La verità è che mia madre cucina benissimo, le mie nonne pure, e a me mangiare piace proprio. Non che sia un ciccione, avrò massimo due o tre chili addosso di troppo. Ma, oltre a dover frequentare il corso di judo, vengo a volte sottoposto a sedute extra di ginnastica fantozziana, certe svogliatissime sudate in mutande e canottiera a coste sul terrazzo di casa.

Mio padre invece è uno sportivo, come dice sempre mia mamma con un piccolo lampo d’orgoglio, che da ragazzo faceva lotta libera e adesso gioca a tennis praticamente tutti i giorni. Come se non bastasse, da qualche tempo si è convertito ad una nuova, stranissima religione, che chiama con grande enfasi footing, e pare venga addirittura dall’America. Non ho mica capito bene di cosa si tratta. So solo che lo vedo uscire di casa con la tuta da ginnastica e le Superga bianche (che presto verranno sostituite da stupende Adidas Achill), colorate senza rimedio dalla terra rossa del circolo Marfisa, per poi partire correndo lentamente verso la Mura.

Io sulla Mura ci vado d’estate per fare le discese in bici con gli amici, ma quando ero piccolo non mi ci lasciavano andare, perché dicevano che era un posto un po’ pericoloso. In effetti ci vedevo girare certi ragazzi grandi con i baffi e le moto da cross, che mi intimorivano abbastanza, e pare anche i pedali, che non capivo bene cosa fossero e nessuno me lo voleva spiegare, ma di sicuro non c’entrava mica il ciclismo.

Ma adesso sono cresciuto, mi lasciano andare in palestra da solo in bicicletta e così, senza dirlo a mia madre, ci vado percorrendo la Mura dalla farmacia di Porta Mare al Palazzetto dello Sport. All’andata non sono tanto contento, al pensiero che mi attendono due ore di urla e scapaccioni del Maestro di judo, ma al ritorno ho il cuore più leggero. Me la pedalo cantando i pezzi di Battisti e pensando agli occhi celestiali di Silvia, una ragazzina bionda che sta già in terza, e che non sa nemmeno che io esisto. Però ho anche notato un numero crescente di adulti che corre ciabattando sotto i tigli. Sono ancora pochi, quando passano sbanfando la gente normale ride e fischia, e fanno un po’ ridere anche me, perché non capisco proprio cosa ci sia di divertente nel sudare come somari. Però sembrano felici. Probabilmente anche mio padre è uno di loro, quando arriva a casa è fradicio come se avesse preso un acquazzone e spande ovunque un odore dolciastro di fatica e dopobarba. La mamma gli dice sempre di stare attento agli infarti, ha letto su una rivista che in America sono morti in tanti con ‘sta manìa del footing, e lo spedisce sotto la doccia, ma poi la vedo che sorride un po’ sognante. Gli adulti sono proprio strani, si sa.

Oggi è domenica, sono le nove di mattina e mio padre come di consueto si sta preparando per andare a correre. La mia mente registra distrattamente i suoi movimenti al piano di sopra, mentre faccio colazione con caffellatte e Oro Saiwa, ancora mezzo addormentato in pigiama di flanellina. Sto pensando con orrore che devo ancora fare i compiti di francese, quando mi si para davanti in tuta con le Superga sabbiate alla terra rossa e mi dice “oggi vieni anche tu a correre”. Non è una mica domanda, a quei tempi i papà non chiedevano, emettevano ordinanze come sindaci leghisti. Come sarebbe a correre? Mi sento male al pensiero, fino a un momento fa inconcepibile, di trovarmi sulla Mura sudato nell’aria gelida, distrutto dalla fatica. Magari con qualche pedale, qualunque cosa sia, nascosto dalla nebbia che attende paziente il momento in cui non sarò più in grado di stare al passo di mio padre, come uno squalo che fa la posta a un naufrago.

Non solo dire di no è impensabile, ma ci si mette pure mia madre che rincara la dose “ecco si, vacci anche tu che così è la volta buona che butti giù un po’ di quella ciccia”. Insomma, sono fregato, e i compiti di francese, a confronto di ciò che mi aspetta, mi sembrano ora una meravigliosa alternativa.

E così, eccomi pronto per affrontare questa nuova sventura: tuta da ginnastica di lanaccia con ricamato il nome della scuola media “T. Bonati”, giubbottino di carta cerata Wrangler, berrettone con pon-pon da almeno mezzo chilo, fastidiosissimi calzettoni tubolari con la banda elastica irrimediabilmente compromessa. Ai piedi, naturalmente, le Superga blu e bianche, lo stato d’animo quello di un condannato alla sedia elettrica per un delitto mai commesso.

Per fortuna, almeno, abitiamo a cinquanta metri dalla Mura, fatto che mi evita se non altro la possibile umiliazione di farmi vedere in questo stato da amici o conoscenti della parrocchia che potrebbero incrociare nei dintorni. Se poi fossi visto correre così bardato da qualcuno dei ragazzi più grandi, quei maledetti che passano i pomeriggi a inventarsi nuove torture da sperimentare su di noi, sarei un uomo morto. Per un attimo immagino me stesso in una foto in bianco e nero, sulla prima pagina del Carlino, giustiziato e abbandonato nel bagagliaio di una Renault 4 come quel signor Aldo Moro.

Ma sono fortunato, raggiungiamo la Mura senza danni collaterali, e vi saliamo per uno stretto sentierino che non avevo mai notato, proprio di fronte all’ospedale. Una volta sopra, con nessuno in vista e la nebbia che ci avvolge come fumo di un incendio, mio padre si ferma, mi osserva con un ghigno misto tra il divertito e il nazista, e mi dice:
“Va bene, adesso partiamo, andremo molto piano, tu cerca di inspirare con il naso ed espirare con la bocca. Se senti che non ce la fai più, cerca comunque di non fermarti.” Quest’ultima frase mi si imprime tragicamente nel cervello: in sostanza vuol dire “Ok, ti ho portato a correre ma non devi rompere troppo le scatole. Io devo allenarmi e non ho nessuna voglia di interrompere la corsa per assicurarmi che tu non muoia”. Dopodichè, si cimenta in un paio di piegamenti delle gambe e qualche saltello, poi parte in direzione della Farmacia Comunale, con un ghigno di pietra che ho visto fare tante volte a John Wayne al cinema parrocchiale. Un attimo di esitazione, e inizio a correre come un cagnolino un metro dietro di lui. “Stammi di fianco, dai!” – grida – costringendomi ad una breve ma estenuante accelerazione.

Dopo circa duecento metri, complice anche un tratto in discesa, inizio a sentirmi un più sciolto, vuoi vedere che questa roba del footing non è poi così male? Ma poi ci attende la salitella che porta sulla Mura degli Angeli, e il mio ottimismo si scioglie rapido come un ghiacciolo all’orzata nel deserto. Io ci provo a rispettare il rigido ritmo respiratorio che mi è stato raccomandato, ma comincio a sentire una fatica mortale, che sembra formarsi da qualche parte nel torace per poi irradiarsi verso il basso, iniettandomi gelatina nelle gambe. Non ho mai provato nulla di simile e la paura di lasciarci la pelle, cosa che mi sembra piuttosto probabile, è più forte di quella di contravvenire agli ordini ricevuti: “Papà non ce la faccio mica, sono stanco”. Mi aspetto una reazione violenta, invece mio padre non fa una piega, mi osserva per un momento come un contadino osserverebbe una vacca al mercato, poi mi dice “Va bene, tu vai pure avanti camminando. Io arrivo alla pesa di Porta Po e torno indietro. Se ci riesci ogni tanto corri per un po’ e quando ti ritrovo torniamo a casa assieme di corsa”. Non ho mai sentito parole così belle.

E così rimango solo. E mi guardo attorno per la prima volta. La nebbia si è un po’ alzata, adesso, ma i pochi rumori giungono comunque ovattati. Ci sono alcune persone in vista: un anziano con la bicicletta sul cavalletto che legge il giornale su una panchina, una giovane coppia con un bimbo piccolo che sgambetta ridendo e due o tre corridori isolati, che mi passano accanto con lo sguardo serio da carabinieri.

Dai tigli cade una leggerissima guazza, e posso vedere un cane da caccia solitario che corre come impazzito nei prati dietro il cimitero ebreo. Sarà lo scampato pericolo, ma inizio a sentire un piacevole senso di pace. Il mondo del resto non si può vedere da qui, è rimasto indietro con le mie paure, a una distanza rassicurante, non misurabile in metri.

Dopo aver raggiunto il torrione e svoltato verso la casa del Boia, prendo ancora più coraggio e mi rimetto brevemente a correre. Per la prima volta in vita mia, non affronto una fatica sportiva perché forzato da qualcuno, ma per mia sola volontà e per il gusto, o forse la curiosità, di farlo. La cosa strana è che adesso che nessuno mi costringe, e che mi sono dimenticato di respirare come un mantice, la fatica sembra molto meno terribile. Riesco persino a corricchiare senza grossi affanni fino all’altezza del Poligono di tiro, dal quale proviene il rumore secco e incredibilmente fuori luogo degli spari.

Un piccolo gruppo di podisti mi supera, e tutti si girano a guardarmi incuriositi, uno di loro mi strizza addirittura l’occhio, che sia un amico di mio padre? Comunque sia, provo una strana sensazione, come se fossi stato ammesso a far parte di una specie di club, i cui membri sono addirittura degli adulti. Sono un po’ orgoglioso, magari pensano che io sia davvero un corridore. Dopo un altro tratto camminando, mi tornano in mente quei podisti e mi rimetto a correre, fino a rivedere lontana la sagoma di mio padre che si avvicina.

Quando mi raggiunge, sembra piacevolmente stupito di vedermi in relativa forma, sorride e mi dice “Beh, dai, sei stato bravo ad arrivare fino qui. Adesso cerchiamo di tornare fino a casa insieme”.

Questo luogo, questo giorno: ancora non ne sono ben cosciente, ma sarà un evento spazio-temporale cruciale. Ho scoperto un luogo magico, la Mura, e che fintanto che sono qui, e corro, le mie tante insicurezze non possono toccarmi.

Di corsa fino a casa. E so che ce la farò.

 

L’ultimo chilometro di Klagenfurt è una via crucis di emozioni.

Sto per imboccare la parte transennata, dove i duemila finisher sono attesi da centinaia di persone che urlano e suonano trombe e fischietti, quando ai bordi del percorso, noto un tavolino rosa molto basso, su cui spiccano sottili fette di anguria. Mi avvicino e una bimbetta castana, che avrà al massimo cinque anni, si fa avanti e mi porge con un sorriso timido una di quelle fette fresche. Sono stanco morto, è vero, ma non è una visione. Legge il mio nome sul pettorale e pronuncia, con accento teutonico e a bassa voce, le parole che mi sento gridare dietro da stamattina “Stefano, Sùper”.

Mi chino, la bacio in fronte e accetto con un “Dankeschoen” quella indimenticabile fetta d’anguria. I suoi occhi celesti sono come il catalizzatore finale, e inizio piano a piangere. Questa gente è meravigliosa, negli anni seguenti correrò altri Ironman, ma in nessun luogo ritroverò un simile calore.

Sono un uomo adulto di quarant’anni, e le lacrime mi scendono silenziose, un nodo sempre più grosso mi serra la gola. Gli spettatori allungano le braccia verso di me e tocco decine di mani, mentre in lontananza inizio ad intravedere il gigantesco arco gonfiabile azzurro che segnala la finish line.

Rivedo come un film tutta la lunga strada che mi ha portato fino qui: le uscite a correre nel gelo delle albe invernali, le mille salite in bici sull’appennino, la maledetta riga nera sul fondo della piscina.

E sento il peso e il conforto delle migliaia e migliaia di chilometri di corsa, che ho percorso dovunque sia stato, dopo quel giorno sulla Mura di trent’anni prima.

Mio padre se n’è andato all’improvviso, sei mesi prima di questa giornata spettacolare.

E se oggi sono qui, questa è la sua vera eredità.

Penso a quel giorno lontano in cui correvamo fianco a fianco. Se temevo di averlo un po’ deluso, ora che sono padre anch’io, so quanto doveva essere orgoglioso di correre sulla Mura con suo figlio.

Il papà è ancora qui con me e questo istante mi si incide nell’anima: non odo più alcun rumore e avverto invece il suo sguardo, che mi osserva da quel cielo azzurro senza fine.

Gli mando un bacio fin lassù, e lo vedo sorridere sotto i baffi.

 



 
 
 

IO, CORRIDORE

Post n°709 pubblicato il 06 Gennaio 2016 da sciffo

 

'Cause tramps like us,
baby, we were born to run 

 

Il boom del fitness iniziò circa trent’anni fa.
Io già correvo e mi allenavo con i pesi da almeno un lustro.
Oggi, nell’epoca di google e youtube, è difficile immaginare quanto fosse difficile allora reperire informazioni in materia. La principale fonte disponibile nel nostro paese erano i libri editi dalle mitiche Edizioni Mediterranee di Roma, ogni appassionato che abbia vissuto quei tempi pionieristici lo ricorderà bene. Ma anche questi non erano disponibili ovunque, anzi.
Li si trovava solo per colpi di fortuna, dopo lunghe ricerche negli scaffali più remoti e nascosti di qualche immensa libreria metropolitana, dove giacevano impolverati all’insaputa degli stessi addetti del negozio.
Tra i titoli che ero riuscito faticosamente a collezionare, c’era una copia de “Il libro completo della corsa” di Jeff Galloway, un volume piuttosto corposo scritto da questo ex-atleta americano di livello olimpico, considerato nel suo paese a quei tempi un guru del footing (incredibile quanto suoni strano oggi questo termine!).

Questo libro, per inciso, è ancora oggi qui con me.

Galloway, come promesso dal titolo, trattava ogni aspetto della corsa, ovviamente secondo i concetti scientifici e pratici del tempo, ma posso assicurare che ancora oggi ha una sua intrinseca validità. Una delle cose che mi avevano più stupito, ricordo bene, era la sua classificazione dei livelli evolutivi del corridore, che erano cinque: principiante, jogger, agonista, sportivo, corridore.
Mi sembrava strano che dopo agonista e sportivo (in sostanza un agonista più evoluto), ci fosse un ulteriore step: cosa poteva esserci di più elevato di un atleta perfettamente allenato e al massimo delle proprie capacità atletiche?

Sono passate molte primavere da allora e, per quanto solo da poco tempo, sono convinto di avere infine raggiunto questo livello finale o qualcosa che gli somiglia.
E vorrei condividerne il significato, e qualche consiglio pratico.

 

Prima di tutto, proverò a fornire un significato al termine “Corridore”, utilizzando le definizioni di quel vecchio libro e declinandole in base alla mia personale esperienza.
Per Galloway “…in quanto corridori, l’obiettivo primario della vostra vita non è correre”.
Questa può sembrare forse un’esagerata banalità, ma quanti Runner  (termine che a mio modo di vedere riassume il terzo o quarto stadio) ho conosciuto che invece ponevano la corsa al centro della loro esistenza? Tantissimi, anche se magari non lo riconoscerebbero mai, nemmeno con sé stessi!
Per il Corridore, invece, la corsa non è un obiettivo, ma una compagna di viaggio, come un familiare o un amico. E proprio come per una persona per la quale prova affetto, il corridore potrà non frequentare la corsa per settimane o mesi, la vita a volte può portarci lontano, ma la sua amica sarà sempre lì per lui quando ne avrà bisogno, e sentirà che è il momento giusto per allacciarsi le scarpe e uscire per una bella sudata.
Per il Corridore, correre è divenuto un fatto istintivo, naturale, non un vincolo psicologico o un impegno tabellare.
Io corro solo quando mi va e so che proverò gioia sincera nel farlo.
Questo è il punto fondamentale dell’essere un Corridore.

Mi ritrovo anche nelle parole di Galloway “in quanto corridori, vi fa piacere correre in compagnia… ma la maggior parte delle vostre corse sarà solitaria. Apprezzate la pace e la riflessione interiore”.
Per me è esattamente lo stesso. Mi piace andare a correre con un amico e parlare, dico davvero, ma in fondo mi capita abbastanza raramente.
Quando corro in compagnia, dato che ognuno ha la sua andatura ottimale, va da sé che almeno uno dei due si deve adattare alla corsa dell’altro.
A volte le circostanze o la voglia di stare in compagnia possono farmi accettare questo adattamento, ma di solito preferisco vivere il momento della corsa come una comunione tra il mio corpo e la natura che lo circonda, ascoltarne i segnali. La mia sensibilità, dopo diversi decenni, si è fatta finissima. Non so quanti possano veramente comprendere di che livello di autocoscienza fisica sto parlando, credo pochi, perché occorre un’esperienza altrettanto lunga.
Correre diventa veramente esperienza di benessere, senza alcuna forzatura di ritmo o distanza.
Corro come mi sento di correre, in quella particolare giornata e in quello specifico momento. Lento, veloce, brevemente o a lungo. Non lo decido a tavolino, ma  in base alle sensazioni che provo durante la corsa.
Anche questo è un aspetto fondamentale dell’essere un Corridore.


Vorrei estrapolare dal mio vissuto alcuni consigli pratici. Come tutte le cose che funzionano davvero, sono semplici e intuitivi,
Consigli per chi, però? Questo è il problema.
Un Corridore non ne ha bisogno, fanno già parte del suo bagaglio personale.
Quanto a Principianti e Jogger, la questione è se possano saltare gli stadi Agonista e Sportivo e arrivare direttamente al livello finale. No, non lo credo possibile.
Possono forse provarci, ma non ci riusciranno mai veramente. La fase runner dell’esperienza del correre è importante e necessaria per completare il cammino. Non si parla di competizioni o risultati di alto livello, ma dell’esperienza del tutto personale dello spingere il proprio corpo alla ricerca dei suoi limiti. Credo sia una fase fondamentale per raggiungere un certo grado di auto-consapevolezza.
In qualsiasi sport, c’è una netta differenza, ben tangibile, tra chi lo ha praticato a livello agonistico e chi solo da amatore. E su questo, mi dispiace, c’è poco da fare.

D’altro canto, i runner sono talmente presi dalle loro “carriere” che rideranno di qualsiasi consiglio che spinga alla moderazione e all’istintività.
Non serviranno pertanto nemmeno a loro. Non subito, almeno.
Più che suggerimenti, quindi, quelli che seguono sono da considerarsi in realtà delle cartine tornasole.
Se vi ritrovate in essi, anche in parte, significa a mio avviso che siete sulla buona strada.
Che avete abbandonato l’asfalto duro e bagnato di pioggia, per imboccare un sentiero che vi guiderà, morbido, tra abeti maestosi e profumati di rugiada.

 

1 – Frequenza
Non utilizzate nessuna tabella di allenamento, né scritta, né mentale. Correte solo se e quando ne avete veramente voglia. Una, due, tre volte a settimana, o anche nessuna se siete distratti da altro. In ogni caso, sconsiglio di correre due giorni di seguito o più. Il corpo fiorisce e sviluppa le proprie capacità durante il recupero, non durante l’allenamento. Correte al massimo a giorni alterni, un giorno si e uno no, vi sentirete meglio e terrete lontani gli infortuni. Il giorno di riposo vi darà modo di ricaricare le pile e di aggiustare eventuali piccoli danni fisici.
Se proprio non riuscite a stare fermi, il giorno successivo ad una corsa dedicatevi ad altri sport, scegliendoli tra quelli che prevedono gesti tecnici molto diversi, quali nuoto o bicicletta (lasciate perdere calcetto, tennis, ecc.).
Come ho già detto, il Corridore non ha alcun problema con se stesso se non corre, anche per lunghi periodi. Se non vi sentite di correre vuol dire che non siete predisposti a riceverne un beneficio, quindi non fatelo, chissenefrega!

 

2 – Durata
La durata ideale di una corsa va da 30 a 50 minuti. As simple as that.
Se correte meno di mezzora non raggiungerete lo stato di benessere che può darvi la corsa, e non parlo solo di endorfine. Se correte più di un’oretta (scarsa) andrete oltre la stessa soglia di benessere, per entrare in una zona dove vi attendono disturbi fisici e del comportamento.
La corsa ha sicuramente effetti benefici per il fisico, ma come tutte le cose buone della vita ha anche effetti collaterali, che consistono soprattutto in microtraumi articolari dovuti all’impatto col terreno. La sensazione di rigidità e i piccoli dolori che si avvertono dopo un lungo allenamento sono la tipica spia che avete superato la zona del benessere.
Questi piccoli danni inoltre sono cumulativi, cioè aumentano proporzionalmente alla durata dell’allenamento.
La buona notizia è che il nostro corpo è però in grado di ripararli efficacemente, purchè non si vada oltre un certo livello di lesione, da cui la necessità di limitare la durata della corsa, e purchè gli si dia il tempo necessario per recuperare, rispettando la regola di almeno un giorno di riposo dopo un giorno di corsa.
Rispettare le regole 1 e 2 è la migliore garanzia per restare sani.


3 – Stretching
Ho iniziato a praticare lo stretching nel 1984 seguendo il classico testo di Bob Anderson (Ed. Mediterranee, ovviamente), e non ho più smesso. Nei trent’anni successivi, ho avuto modo di provare ed approfondire diverse formule e concetti di esercizi di allungamento, insegnandole ai miei allievi in palestra oltre che a parenti ed amici che mi chiedevano consigli. Il mio consiglio è semplice: individuate una routine di 5-6 esercizi da praticare sempre, senza alcuna deroga al termine della vostra corsa. I muscoli da coccolare sono i gemelli (polpacci), il bicipite femorale, il quadricipite, gli adduttori, gli abduttori e la bassa schiena. Trovate con il tempo gli esercizi migliori per voi e praticateli regolarmente, mentre siete ben caldi, bastano 5-10 minuti. Ascoltate il vostro corpo, e lui vi guiderà nella scelta, sperimentate pure cose nuove, ma con giudizio, e state lontani da ciò che vi provoca dolore e posizioni innaturali.
Personalmente io seguo da molti anni due diverse routine: la prima consiste in esercizi in piedi, e la utilizzo quando corro lontano da casa, magari d’inverno. La seconda, ancora più rilassante, sono posizioni da eseguire a terra, il che richiede ovviamente che si possa utilizzare una superficie asciutta e pulita.
Non sono mai stato particolarmente sciolto, ma non mi sono mai infortunato correndo. Mai. Sono convinto che lo stretching sia il motivo principale di questo risultato.
Ah, per intenderci, ho provato di tutto, ma alla fine utilizzo ancora i concetti e gli esercizi del vecchio Bob…

 

4 – Abbigliamento
Utilizzate capi tecnici per la corsa. C’è stata negli ultimi dieci anni una rapida evoluzione dei materiali, e si sono compiuti passi da gigante. Non occorre spendere somme importanti, si trovano buoni prodotti a prezzi contenuti praticamente ovunque. Cercate capi confortevoli, che non intralcino durante la corsa. Coccolatevi. In una giornata grigia e fredda, indossare il giusto abbigliamento vi darà motivazione, oltre a proteggervi adeguatamente.
Copritevi il meno possibile. D’inverno, meglio uscire di casa con una leggera sensazione di freddo, questa scomparirà dopo pochi minuti. Se vi vestite troppo, correre sarà un’esperienza poco piacevole. Se il clima è veramente rigido, non infagottatevi il torso, che comunque produrrà correndo molto calore, ma indossate invece guanti leggeri e del caso un berretto.

D’estate, se non avete paura di dare scandalo, correte a torso nudo, sudore e brezza calda sulla pelle sono una sensazione meravigliosa. Un cappellino con visiera e bordo interno in spugna è fortemente consigliato se correte sotto il sole.
Siate sicuri e soddisfatti della mise da corridore con cui vi presentate al mondo, evitando però l’ostentazione, quella lasciatela ai pivelli.

 

5 – Scarpe
Ecco un altro argomento importante. Indossate sempre calzature specifiche per la corsa e che si adeguino alle vostre caratteristiche. Trovate sperimentando una marca con la quale vi trovate bene, e se possibile proseguite nel tempo sostituendo le vecchie scarpe con modelli dello stesso produttore.
E’ importante avere un negozio di fiducia dove ci sia qualcuno di veramente esperto che possa indirizzarvi nella scelta. Lasciate comunque perdere le scarpe da gara o poco ammortizzate in genere, per il Corridore le cose più importanti sono il confort e l’eliminazione degli infortuni da stress.
Le scarpe da corsa hanno una durata. Esaminate le suole, e quando le trovate consumate in qualche punto è ora di sostituirle.

Come per l’abbigliamento, spendere tanto per delle scarpe è roba da miliardari o da pivelli. SI trovano facilmente in commercio i modelli (anche top) dell’anno precedente di tutte le marche, a prezzi di saldo. Andranno più che bene.

Ah, usate calze tecniche. Sarà un piccolo investimento del quale non vi pentirete.

 

6 – Itinerari
Ogni Corridore ha una cartella mentale di file contenenti diversi percorsi di cui, avendoli selezionati e percorsi centinaia di volte, conosce tutto: distanza, dislivello, eventuali ostacoli o pericoli, ecc. L’80% delle sue corse si svolge lungo questi itinerari.
Il restante 20% è però molto importante, perché comprende le corse più “avventurose” o di scoperta. Ci sono occasioni in cui si presenta l’occasione, o la voglia, di sperimentare nuovi tracciati: di norma sono gli allenamenti più belli.
Se siete in vacanza o in trasferta da qualche parte, uscite a correre e scoprirete veramente e senza filtri il territorio che vi circonda. Tutte le mie uscite più memorabili si sono svolte mentre ero lontano da casa. Non importa se correte per boschi, spiagge o strade, comunque sia ogni passo sarà una nuova esperienza. Nei casi più fortunati, a volte inaspettati, quella corsa vi si imprimerà nella mente per sempre.
Personalmente, in generale, preferisco i percorsi ad anello a quelli a bastone. Se però correte in trasferta, spesso dovrete accontentarvi per ragioni di opportunità di fare andata e ritorno sul medesimo percorso. In caso contrario, documentatevi bene prima, mi è capitato di ritrovarmi perso e dover correre per ore prima di ritrovare la porta di casa…

 

7 – Cardiofrequenzimetri, GPS, App e altre cagate
Un Corridore non li utilizza. Punto.

Ascoltate il vostro corpo, piuttosto. Potrà darvi informazioni molto più utili e precise sull’andamento della vostra corsa. Fatica, stato di muscoli e articolazioni, temperatura, umidità, rilascio di endorfine e soprattutto voglia di correre.
L’unico attrezzo che vi serve davvero è un orologio, specie quando correte in luoghi sconosciuti, che vi dia un’indicazione di quando sarà il momento di tornare indietro.
Per quanto riguarda i lettori musicali, se ne fate uso probabilmente non siete ancora Corridori diplomati. Non vi isolate, correte guardando, ascoltando e annusando il mondo che vi circonda. Ne vale la pena.

 

 8 – Competizioni
Il Corridore corre per il piacere che prova nel farlo, come ho già detto, e non per ottenere un determinato obiettivo sportivo. Quella fase, che ho definito Runner, è stata bella, ma ormai è dietro le sue spalle.
Eventuali partecipazioni ad eventi organizzati, ancorchè rare, sono vissute dal Corridore unicamente come occasione per rivedere vecchi amici, accompagnare un novizio, farsi qualche sana risata in compagnia.
Poiché non stiamo parlando di Olimpiadi, le normali podistiche della domenica possono essere vissute come occasione per cercare un risultato cronometrico, ma anche in modo totalmente rilassato, come un momento di condivisone di una cosa divertente. E’ in questa seconda modalità che, non più di due o tre volte all’anno mi piace prendervi parte.
Se poi un giorno, dopo qualche anno, dovessero tornarvi pruriti particolari, come ad esempio la partecipazione ad una corsa in montagna o altro, non c’è problema. Dedicatevi per un periodo più breve possibile alla preparazione, dopodichè, una volta gareggiato, tornate al vostro normale e sano regime. Ma sappiate che più state alla larga da questo genere di tentazioni, meglio vivrete.
Ho conosciuto molti Runner che non sono mai usciti da questa dimensione, almeno fintanto che si erano talmente usurati che correre era divenuto impossibile, e con l’avanzare degli anni sono stati costretti a smettere completamente. Non l’hanno presa bene. Uscite dalla smania agonistica prima che vi consumi, la corsa è molto di più di questo.

 

9 – Tabelle, ripetute e “qualità”
Se vi allenate con una finalità di risultato sportivo o cronometrico, dovete considerare di dedicare una buona parte del vostro tempo al cosiddetto “lavoro qualitativo”, cioè utilizzare metodi di allenamento che prevedano variazioni di intensità programmate.
In quanto Corridori, sono felice di assicurarvi che tutto ciò non vi servirà più.
Questo non vuol dire che correre diventa un’attività  da “tapascioni” (o forse si, ma non del tutto). Ci sono giorni, e momenti, in cui il nostro corpo non ha voglia di impegnarsi più di tanto, altri in cui è bello allungare un po’ il passo e far girare le gambe. Andate dove vi porta il cuore, non una tabella. Ma andateci.
Posso affermare empiricamente che, entro certi limiti, più lentamente correte più stressate il vostro apparato osseo e articolare. Ciabattare, magari per lunghe distanze, non vi farà bene. Quando vi sentite in forma, cercate di trovare un’andatura sciolta, con i piedi che carezzano il terreno invece di pestarlo con tutto il peso. Aumentate per un po’ la frequenza dei passi, poi se vi sentite stanchi rallentate. Ogni tanto fate qualche salita. Un allungo gridando sotto una pioggia d’estate. La corsa può farci tornare bambini, se solo lo vogliamo, per qualche prezioso istante.

 

10 – Alimentazione
Non molto tempo fa ho visto per tv un servizio su uno dei più importanti triathleti professionisti del mondo. Il giornalista lo intervistava mentre stava facendo colazione in hotel, divorando mezzo buffet. Uova, pane, salumi, marmellata, dolci, caffè, succhi di frutta …un autentico maiale, uno spettacolo. Alla conseguente domanda “ma un campione non deve osservare una dieta precisa?”, la risposta era “solo i dilettanti seguono una dieta”.
Invece che una regime alimentare imposto, provate a seguire basilari norme nutrizionali, mangiate bilanciato, senza farvi mancare nessun alimento fondamentale.
Se correte regolarmente ci sono altre buone notizie: potete concedervi parecchi strappi alle regole. Basta non esagerare.
Niente cinghiale in umido prima di un allenamento. Dopo un’abbuffata a pranzo, non rimpinzatevi anche a cena. Limitatevi con l’alcool.
Quel che serve non è un dietologo ma un po’ di buonsenso.

Un ultimo consiglio: non è sono i chilometri che si devono adattare alle calorie, casomai il contrario.

E così il decalogo è completo. Dieci è un numero perfetto per dei consigli, come per dei comandamenti.

Ma vorrei aggiungerne uno.

11 – Il miglior compagno di allenamento
Se mi guardo indietro a questi 35 anni abbondanti di corsa, mi è difficile visualizzare la mia immagine che corre senza il mio cane a fianco.
Anche se molte volte sono costretto a lasciare Wally a casa, per evitare pericoli stradali o di litigare con qualche rompicoglioni, è senza dubbio lui il mio compagno di uscite preferito. E prima di lui c’è stato Skip, mitico bastardino, anche lui era un grande atleta.
I cani non piacciono a tutti, soprattutto a chi ha avuto un’educazione carente, cioè è cresciuto senza un animale in casa. Mi dispiace per loro, a mio avviso la vita è più completa se condivisa con un amico a quattro zampe.
Altri non possono permettersi di tenere un cane per varie ragioni, la più sensata delle quali è che non avrebbero abbastanza tempo da dedicargli. Peccato.
Ma se non avete motivi ostativi, sappiate che un cane è veramente un compagno di vita, e se lo abituerete a correre con voi, sarà il miglior accompagnatore che potrete mai trovare.
Wally capisce che è il momento di uscire non appena mi vede prendere le scarpe da corsa, ed entra in uno stato di eccitazione contagiosa. E’ molto bravo, non ho mai utilizzato il guinzaglio se non quando qualche rincoglionito ha mostrato fastidio.
Tutte le mie corse negli itinerari intorno a casa le faccio con lui, dato che vado per campagne dove non si incontra praticamente nessuno. Se vado in posti affollati da podisti, approfitto del buio e cerco di evitare problemi utilizzando del caso in guinzaglio.
Negli anni queste corse assieme hanno contribuito a rendere speciale il legame tra di noi.
Vi  consiglio caldamente di fare altrettanto.


Buona corsa!

 
 
 

A UN'AQUILA SALITA IN CIELO

Post n°708 pubblicato il 26 Marzo 2015 da sciffo

 

WE PLAYED FOR EACH OTHER

(a Tene)

E poi, nostre vite sono andate avanti.

 

Ognuno con i propri successi, le proprie delusioni, le gioie e i problemi di tutti i giorni.

Saremmo anche “normali”, se non fosse per quel pezzettino della nostra anima, quel folletto ribelle, che è rimasto laggiù.
E non se ne vuole proprio andare.
E’ passato molto tempo, ormai è chiaro che non ci raggiungerà mai, dovunque siamo adesso.
Ciascuno di noi ha provato ad ignorarlo, a soffocare il suo richiamo, ma lui è sempre là.
E ci guarda sorridendo.

Da quel campo verde, segnato da una griglia di gesso candido, posata da mani appassionate.
Ubriaco del profumo dell’erba appena tagliata, dal piacere tattile dei tacchetti che fan presa sul terreno.
Quel soffio d’anima vivrà sempre per correre nel sole, col cuore che martella nel petto, o per tuffarsi nel fango e nella neve, quando il cielo è freddo, e sembra cadere sulla terra.

La palla lunga un piede, certo.
Ma sono gli amici.
I compagni di trincea.
Sono loro che contavano davvero, più dell’erba, più del sole, più delle ossa che abbiamo sacrificato.

Non giocavamo per la gloria, che non c’è mai stata, né per i soldi, che da queste parti nessuno li ha mai visti.
Diciamolo chiaro, pure la vittoria era uno sfizio, quel che davvero contava era la fiducia dell’uomo al nostro fianco.
Perché noi giocavamo l’uno per l’altro.

Per quei visi giovani e pesti, ciascuno chiuso, con tante paure e un solo coraggio, dietro una maschera di ferro.
Per i venti occhi che scrutavano nell’huddle, chiedendoci  in silenzio di tenere duro per un altro down.
Non potevamo fingere.
Sotto il sole o nel fango, dovevamo invece scegliere: fare la nostra parte o mollare, e deludere quegli occhi.

Ebbene, abbiamo scelto.
Quando il centro ha sollevato la palla, abbiamo dato tutto quello che avevamo e anche di più.
Fu quel giorno, che divenimmo fratelli.

 
 
 

IL PASSO - 2.a parte

Post n°707 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da sciffo

 

Se sugli hotel siamo di gusti semplici, ci difendiamo ben più seriamente in tema di ristoranti. Il gestore dell’hotel, un ex torturatore della Bundesbank, ci ha consigliato questa stube ristrutturata di recente, con il pavimento ed i tavoli  di abete chiarissimo, tovaglie di lino candide e un interessante assortimento di calici, pronti per essere colmati di blauburgunder ad alto numero di ottani.
Non ci sono molti clienti, anche perché le truppe della
 Wehrmacht in zona a quest’ora hanno già consumato il rancio, e mentre attendiamo vedo passare piatti ben curati e porzioni luculliane.
L’unica cameriera reperibile è possente e di bassa statura,
 praticamente un credenzino ricoperto di loden, una stagionata veterana di mille stagioni turistiche, vistosamente smaronata mentre l’ennesima lunga estate volge al termine. Così, quando il Raudo, che è l’uomo più gentile d’Europa, l’apostrofa con un cortese “Se non le dispiace, vorremmo accostare due tavoli. Possiamo?” Lei risponde semplicemente “No”, col tono asettico di un casellante westfalico, dopodichè si allontana rapida verso la cucina, lasciandolo marmorizzato.  
Non ci resta che sistemarci da soli in qualche modo. Dopo un pò la vichinga ritorna, ci guarda ostentando un profondo odio razziale, e lancia i menu bilingue sul nostro tavolo, facendo quasi morire d’infarto il Pardo, che si era leggermente assopito. Ognuno di noi, facendo finta di nulla, estrae di tasca i necessari occhiali da presbite. Che la troia ci scatarrerà nei piatti è quasi certo: mi appunto di evitare gli schlutzkrapfen verdi, che renderebbero impossibile distinguere eventuali grumi bronchiali.

Immagino me stesso trentenne, seduto in un tavolo della stessa sala, mentre guardo questo gruppo di signori di mezz’età. Capelli ormai quasi interamente grigi, maglioncini con scollo a V e camicia azzurra o bianca,  rughe accentuate dal sole e dalla stanchezza (il Castro ha anche la pelle della pappagorgia un po’ cascante, ben gli sta).
Gli sguardi forse sono un po’ ebeti, qualche frase si perde perché non udita, ma non c’è dubbio che quei “signori”, perlomeno stasera, ridono molto. Quasi quasi viene da invidiarli un po’. Chissà chi saranno, da dove vengono. Gli accenti dialettali non sono troppo marcati, e diversi tra loro, non riesco a distinguerli. Forse sono escursionisti di lungo corso, più probabilmente colleghi di lavoro o puttanieri. Ma cazzo, come ridono,
 e io sono qui seduto con un'altra stronza che viene a letto col pigiama di peluche, vaffanculo.

Le pietanze si susseguono, e così i vini e le cazzate. La cameriera, che senza dubbio vorrebbe andarsene a casa a spaccare legna con lo sventurato marito, è sempre più scontrosa, credo le farebbe bene il Trattamento
 Targetti Brothers.
Spiego.
Codesta particolare procedura, inventata e comunemente praticata dagli omonimi geni creativi fiorentini, un tempo assidui del nostro gruppo, consiste nel richiamare con gesto nobile e noncurante l’attenzione del
 maitre di sala. Quando questi si sarà appropinquato, giungendo a distanza di ordinazione, si sollevi mollemente una chiappa dalla sedia e quindi si molli (guardandolo negli occhi e con espressione immutata di superiorità) un pèto crepitante di almeno venti secondi.
Datemi retta, comunque, fatelo sempre dopo che vi hanno portato il conto.
 
Ma stasera i fratelli Targetti non sono con noi, purtroppo, e ci comportiamo quasi da gentiluomini. Paghiamo il conto, e ci viene inaspettatamente offerto un ultimo bicchiere di oscena grappa locale. Noto che la virago sembra sorridere sotto i baffi (foltissimi!), e sul fondo della bottiglia giace un dubbio reperto organico. Potrebbe essere un rametto di pino, ma anche un alveolo polmonare. Questo giro mi sa che lo salto.

Solo una volta per strada, mentre torniamo lentamente verso l’hotel, inizia finalmente il concerto sinfonico di rutti. Il paese sembra del tutto deserto ma, dopo l’ennesimo boato di potenza inaudita, noto un montanaro intento a fumarsi una sigaretta sul balcone di casa, che ci guarda con occhi di fuoco.   
Abbiamo tutti nasi 
e orecchie ben arrossati, più per l’effetto corroborante della grappa al polmone che per il freddo quasi invernale. Il cielo è limpidissimo, la main street totalmente immobile, nell’aria un familiare olezzo di legna bruciata e letame fresco. O forse è solo l’ennesima flatulenza del Castro che, con una piccola rincorsa e una risata, si porta davanti al gruppo prima di sganciare il suo orrendo metano.
Mi sento satollo, il leggero annebbiamento
 alcoolico si è dissolto a contatto con la notte di montagna, lasciando spazio ad una primitiva soddisfazione, da uomo delle caverne che ha appena divorato la sua preda, e si appresta a stendersi di fianco al fuoco, per qualche ora al sicuro dalle belve. Anche gli altri sono stanchi, le risate sono inframmezzate da lunghi sbadigli, il dottor Gattopardo non dice una parola da almeno mezz’ora, limitandosi a un sorriso degno del Joker. Forse, nel dormiveglia, sta pensando a quel famoso stronzo nel bicchiere.

Camminiamo senza fretta, gustandoci quella quiete assoluta, mentre il Raudo si fuma la centesima sigaretta della giornata.

C’e’ stato un tempo in cui, a questo punto, saremmo andati in cerca di un altro locale per finire la serata, possibilmente rumoroso, rimbombante di disco music austro-ungarica, e dotato di numerose spinatrici di birra, oltre che di un assortimento omicida di liquori montanari. Negli ultimi anni ci ritiriamo invece come vecchi froci in una delle due camere d’albergo, per una semplice partita a carte, seduti sul pavimento di moquette incrostata di liquidi corporei.
L’aria diviene ben presto irrespirabile e, se il Castro è in forma,
 ti può anche capitare che ti ritrovi a lacrimare come un vitello.
E’ a questo punto della serata, quando ormai sono pronto per la tumulazione, che il Tedesco riprende misteriosamente vita, inizia a straparlare come un posseduto, mentre il Gattopardo gli fa da sfondo, con delle risate registrate da telefilm americano anni 70.
Il
 Raudo frattanto gioca una mano di carte, esce sul balcone a fumare una paglia (lasciando la portafinestra aperta e facendo subito crollare la temperatura interna a livelli artici), mangia un sacchetto di lupini che ha trovato chissà dove, beve un mignon di grappa Libarna, lancia un’altra mano di carte, di nuovo paglia sul balcone …insomma diventa pericolosissimo, e potrebbe andare avanti così tutta la notte, come un terminator.
Il suo opposto è il Castro, distrutto, d’altronde è l’unico che non partecipa, per sua scelta, alla partita. Siede con la schiena appoggiata al muro, gli occhi quasi completamente chiusi, non articola verbo
 ed il suo unico segno di vita, ad intervalli regolari, è il sollevare una chiappa dal pavimento per emettere sinistri crepitìi intestinali.

Gioco ad minchiam l’ultima carta (commettendo una troiata clamorosa che in altri momenti mi costerebbe un cazziatone), e annuncio un liberatorio “Beh ragazzuoli, io me ne vado a dormire con Rombo di Tuono, che è lì che sembra il cadavere di Aldo Moro nella Renault 4”.
Il
 Raudo è un po’ deluso “Ma non facciamo un’ultima partita? Io non ho mica sonno” – è in buona fede, come sempre, non si rende conto che ha gli occhi che sembrano due murrine.
“Beh, mi sa che vado in branda anch’io” chiosa
 Ted, che finalmente si spegne, emettendo strani scricchiolii di raffreddamento, come un vecchio televisore a valvole.
Raccatto Aldo Moro e siamo già in corridoio, diretti verso la nostra oscena stanza matrimoniale, quando sentiamo il Gattopardo scappare fuori dal bagno in preda a conati di vomito. Deve aver scoperto che “qualcuno” gli ha cacato nel bidet.

(...)

E’ una giornata di festa, sulle rive del Gange. I lebbrosi e tutti i portatori di malattie dell’India si sono dati appuntamento qui, oggi, per la rituale immersione degli arti feriti nelle sacre acque. Giungono qui dopo centinaia di km a piedi sotto il sole implacabile, senz’acqua per lavarsi, con le ferite ormai putrescenti. I loro visi sono gioiosi, ma l’odore dell’aria è terrificante, stagnante, indescrivibile.
Ma io che ci faccio qui?
Poi mi sveglio.
Lentamente riprendo contatto con la realtà.
La stanza è invasa di sole, ma quasi non riesco a distinguere il soffitto per la presenza di una specie di foschia interna.
La schiena mi fa male per il materasso di merda. Il collo mi fa male per il cuscino di merda. Mi rendo subito conto che devo aprire rapidamente una finestra. Sto per morire asfissiato, l’odore di pus marcio mi ha seguito non so come dal Gange a Corvara di Badia.
Scendo da quel letto fottuto e quasi mi mancano le ginocchia, ma riesco ad aprire i vetri e a far entrare ossigeno puro e gelato. Un attimo ancora e sarei svenuto.
Tutte le volte che dormo col Castro è la stessa storia. Lui è lì che se la dorme beato, con un sorrisetto ebete e non si è accorto di nulla. Sembra incredibile, eppure anche i raggi del sole e l’aria potente di montagna faticano a sconfiggere quel fetore infame, che si è accumulato durante la notte nella stanza. Tremo dal freddo, ma mi guardo bene dall’allontanarmi dal supporto vitale della finestra.
Recupero uno dei miei stivali e lo lancio al Castro, sperando di colpirlo nei coglioni “Svegliati stronzo!”
Quello manco apre gli occhi, annusa l’atmosfera e ride come una jena “hi, hi, hi”.
“Cazzo ridi, merda? Stavo per morire con tutto il gas che hai fatto stanotte!” e gli tiro anche l’altro stivale, mirando alla bocca.

 

 
 
 
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