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IL SETTIMO SIGILLO

Post n°15 pubblicato il 30 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

Questa è la mia mano, posso muoverla e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo ed io Antonius Bloch gioco a scacchi con la morte”.

Il settimo sigillo è un film diretto da Ingmar Bergman del 1957, trasposizione cinematografica di Pittura su legno, dramma in atto unico scritto dallo stesso Bergman per i suoi allievi dell’accademia di Malmö.
Siamo nel XIV secolo in Svezia, il cavaliere Antonius Bloch ed il suo fidato scudiere Jons tornano in patria, dopo aver passato gli ultimi dieci anni della loro vita a combattere una crociata (guerra probabilmente suggerita da qualcuno che poi ha pensato bene di non combatterla, come suggerito nello stesso film). Al loro ritorno la Svezia è assediata dalla Peste, che seminava terrore negli occhi del popolo arricchendo così, sempre più, le fila religiose attendenti l’apocalisse. Non a caso infatti il film inizierà proprio con una frase tratta dall’Apocalisse di Giovanni: “Quando l'agnello aperse il settimo sigillo nel cielo si fece un silenzio di circa mezz'ora e vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio e furono loro date sette trombe”.
La tematica è quindi evidente e persino personificata.
La morte gira il mondo con una scopa, lambisce il suolo in cerca di morti, disse Neruda. Nel film la morte si trascina accompagniandosi ad una falce ed incorniciando il volto pallido in veste nera. Soltanto i morenti possono vederla, escluso un individio alquanto bizarro: un attore che si diletta a comporre canzoni con la lira e che continuamente dice alla moglie di avere delle visioni, per le quali non è creduto, anzi beffeggiato. Così è delicatamente trasposta l’ironia del vedere ciò che gli altri non vedono.
Uno dei personaggi principali, il cavaliere, incontrerà invece la Morte alla quale chiederà di prolungare l’evento invitandola ad una partita a scacchi.
Chi sei tu?
Sono la morte.
Sei venuta a prendermi?
E' già da molto che ti cammino a fianco.
Me ne ero accorto.
Sei pronto?
Il mio spirito lo è, non il mio corpo
”.
La speranza è quella di dare un senso ultimo ad una vita spesa “a far la guerra, andare a caccia, ad agitarmi, a parlare senza senno, senza ragione. Un vuoto... e lo dico senza amarezza e senza vergognarmi perché lo so che la vita della maggior parte della gente è tale, ma ora voglio utilizzare il respiro che mi sarà concesso per un'azione utile”. Tale motivazione l’ho estratta da un dialogo molto interessante che il cavaliere crede di fare con un prete in un confessionale, mentre, invece, era ancora lei, la Morte, ad ascoltarlo ed a rispondergli.
Ripercorrerò il dialogo delineando alcuni tratti fondamentali per celebrare in maniera adeguata la tematica del film.

Cavaliere: Vorrei confessarmi ma non sono capace perché il mio cuore è vuoto ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini di incubo date dai miei sogni e dalle mie fantasie.
La Morte: Non credi che sarebbe meglio morire?


E’ necessario che la Morte possieda questa prospettiva, senta il suo compito come la scelta più adeguata, il supremo compimento; laddove il cavaliere rappresenta l’atterrimento umano di fronte l’autocoscienza rivelatasi nel suo essere nulla, o meglio vuota amenità, spazio in cui non trovano posto alcuno i sentimenti ed i valori che le conferirebbero senso e pregnanza.


C: E' vero.
M: Perché non smetti di lottare?
C: E' l'ignoto che m'atterrisce.
M: Il terrore è figlio del buio.


Eppure di fronte a quella consapevolezza, l’uomo non puo’ nulla, non riesce a liberarsi del ni-ente, se la prospettiva che si eleverebbe dinanzi è quella dell’ignoto.


C: Che sia impossibile sapere... Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli. Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci, né vogliono avere fede. Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me in modo vergognoso ed umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore. E perché nonostante tutto egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?


In pochi minuti si condensano la maggior parte delle domande che assillano l’uomo quando rivolge il pensiero a Dio.


M: Il suo silenzio non ti parla?
C: Lo chiamo e lo invoco e se egli non risponde io penso non esiste.
M: Forse è così. Forse non esiste.
C: Allora la vita non è che un vuoto senza fine. Nessuno puo' vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza.


La possibilità che il vuoto non sia dimora di niente, che ogni singolo gesto si perda inesorabilmente, è una prospettiva che non si puo’ accogliere.


M: Molta gente non pensa, né alla morte, né alla vanità delle cose.
Anche volendo accogliere come motivo il divertissement, la distrazione dalle domande fondamentali, quella posticipazione dalla scelta che Kierkegaard tanto condannava; anche in questo caso arriverà il giorno...


C: Ma verrà il giorno in cui si troveranno all'estremo limite della vita.
M: Sì, sull'orlo dell'abisso.


E quale mai potrebbe essere la risposta dell’uomo alle sue paure improvvise, colte tutte in un lampo, nel breve spazio fuggente prima dell’ignoto.


C: Lo so, lo so ciò che dovrebbero fare. Dovrebbero intagliare nella loro paura un'immagine alla quale dare poi il nome di Dio.


Nel film sono rappresentate le diverse prospettive di reazione umana di fronte al paradigma della Morte. Dagli atti di fustigazione di coloro i quali credevano nella Peste come punizione di Dio per i peccati dell’uomo, alla fede vacillante ed interrogativa del Cavaliere (che forse è quella dello stesso autore)ed alla prospettiva disincatata dello scudiere.
Propio lo scudiere Jons sarà il protagonista di un altro importante dialogo. Mentre il cavaliere si reca al confessionale, Jons si ferma a parlare con un pittore. Splendida l’immagine della porta semichiusa, il cui fascio di luce ricorda una falce.


Jons: Che cosa dipingi?
Pittore: La danza della morte.
J: E quella è la morte?
P: Si, che prima o dopo danza con tutti.
J: Che argomento triste hai scelto.
P: Voglio ricordare alla gente che tutti quanti dobbiamo morire.
J: Non servirà a rallegrarli.
P: E chi ha detto che ho intenzione di rallegrare la gente, che guardino e piangano.
J: Invece di guardare chiuderanno gli occhi.
P: Ed io ti dico che li apriranno. Un teschio spesso interessa molto di più di una donna nuda.
J: Se li spaventi però...
P: ... li fai pensare
J: E se pensano si spaventano ancora di più e corrono a buttarsi in braccio ai preti.
P: O questo non mi riguarda.
J: Tu non pensi che al tuo lavoro eh?
P: Faccio vedere come stanno le cose, poi che ognuno decida.
J: Molti però ti copriranno di maledizioni.
P: Sicuro e se saranno in troppi passerò ad un argomento divertente,
devo pur vivere, fino a che non mi uccide la peste.


Al di là di alcune anticipazioni circa il punto di vista dello scudiere, è importante che l’Arte sia concepita come portatrice di Verità, la danza della morte sarà infatti il compimento effettivo della pellicola. Questa verità, anche se dura da digerire, è il compito dell’artista ed egli non puo’ esimersene.
Non proseguirò oltre, altrimenti vi svelerei fin troppo la trama.


Voglio solo concludere quest’analisi tenendo conto ancora una volta di quelle che, in linea di massima, sono le prospettive maggiormente assumibili nei confronti della morte: la fede ed il nulla. Il terrore del nulla si pone come crocevia che scandalizza l’uomo, una strada che spesso egli non vuole percorrere, alla quale rinuncia.
Assumendo la distrazione come unico scopo, però, l’uomo finirà per destituire la vita di qualsiasi senso, finché non gli resteranno che secondi per compiere qualcosa alla quale avrebbe dovuto dedicare l’intera vita. E’ abbastanza ovvio, infatti, che la metafora del giocare a scacchi con la morte, ci indica proprio l’impossibilità di rimandare l’evento a nostro piacimento, laddove, invece, possiamo (e dobbiamo?) assumere tale impresa come costante del nostro tempo.
Per l’uomo che sceglie la riflessione, sceglie di abrogare la superficialità, la strada della fede è difficile, scoscesa ed impervia. “La fede è una pena così dolorosa, è come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai per quanto si invochi”. Molti, come lo scudiero, la guarderanno con gli occhi di un adulto che vede le fantasticherie del bambino. Altri considereranno la fede la risposta più facile al terrore del nulla, qualcosa che possa lenire la paura negli animi.
Eppure, quel che sembra certo per l’autore, è proprio che dobbiamo esercitarci a morire, richiamando in quest’espressione il pensiero di molti filosofi.

Da non trascurare l'anticipazione di un tema che troverà largo spazio ne "Il Posto delle fragole": le fragole, la serenità di un momento, il ricordo. In questo film l'attimo di pace è vissuto al presente ed è il protagonisa che, mangiando le fragole, immagina un tempo in cui il presente sarà piacevole ricordo, assaporando così anzitempo l'intensa nostalgia che accompagna la memoria.

 
 
 
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