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Il diario di Nancy

Pensieri e storie tra il vero, il verosimile e l'inganno.

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Il sogno

Post n°159 pubblicato il 04 Giugno 2007 da bimbadepoca
 

Non ricordo mai i sogni che faccio durante la notte, fragili creature della mente che svaniscono alla luce del sole.
O meglio, non li ricordo in maniera cosciente, ma restano sospesi in qualche parte. Ed inaspettatamente tornano a galla da chissà quali abissi del cervello, come ricordi di cose già vissute, ombre della vita reale.
E mi confondo.

Sì, perché spesso mi è capitato di confondere il sogno con la realtà, abituata come sono a stare in bilico sulla corda della fantasia.
E qualche volta ho anche fatto delle figuracce da antologia.
Come quella volta che cercavo un ponte, una scorciatoia che doveva unire due quartieri diversi. Non trovandolo, non ho riflettuto un momento e ho avuto la bella pensata di domandare ad un passante, giurando che io avevo già percorso quella via.
Napoli è una città strana e carnale, la sua gente è pronta ad aiutarti anche cercando cose che non ci sono. Ed il signore in questione s'infervorò a tal punto nella ricerca da coinvolgere una decina di altre persone. Discutevano tra loro, mischiando ricordi, politica, teatro e calore e azzardavano ipotesi e suggestioni.
Solo quando cercai di dare una spiegazione più dettagliata, mi resi bruscamente conto che si trattava di un barlume di sogno.

Era un ponte in plexiglass quello che cercavo. Un ponte in plexiglass azzurro.
Rossa in viso, balbettai che in fondo non era importante, che non andavo di fretta, che avrei fatto la solita strada. E m'allontanai velocemente, lasciandoli a discutere di strade, vicoli e soluzioni ardite e fantasiose.


Ma questa mattina ricordo perfettamente ciò che ho sognato stanotte. Sono già alcune ore che riavvolgo e riassumo la labile trama.

Era notte ed aspettavo qualcuno nei pressi della stazione centrale. Avevo con me due biglietti d'aereo, non ricordo, non so di quale destinazione.
Aspettavo un uomo che non era mio marito, non so chi fosse, non era una presenza ma un'assenza ingombrante.
Vagavo per un dedalo di strade popolate da mendicanti deformi, deliquenti luridi, prostitute sguaiate, bancarelle e vetrine. Stavo cercando un barattolo di pesche sciroppate, ma non sono riuscita a trovarlo.

Controllavo i miei biglietti ripetendomi che ero in ritardo. Sapevo che lui non sarebbe arrivato, ma ancora aspettavo per non ammettere la sconfitta di non essere stata scelta.

Tutto il sogno era denso di un'atmosfera gotica che mi ricordava la claustrofobica Gotham city di Frank Miller, cupa e piovosa.
E c'erano folle di personaggi deliranti, un popolo di freak che viveva ai margini della società e che pretendeva la mia attenzione con richiami inferociti simili a suppliche.

Poi d'improvviso mi sono sentita chiamare, ma non con il mio nome, ma con il cognome da nubile di mia madre.
Io non somiglio a mia madre, non ho i suoi colori mediterranei, non ho i suoi lineamenti né la sua corporatura . E quindi non capivo come qualcuno avesse potuto mettermi in relazione con lei.
Mi sono voltata verso la voce ed era un uomo che sembrava un angelo, irradiava una luce particolare ed aveva occhi di un incredibile azzurro, nei quali mi sono persa.

Ci siamo ritrovati ai tavolini di un bar. Squallidi tavolini di plastica e sedie di ferro arrugginite.
Non eravamo soli, sedute al nostro fianco c'erano due donne, due ragazze giovani. Mostravo loro i biglietti del mio volo e dagli sguardi avidi, dai sospiri vogliosi, ho compreso che si trattava di una meta succulenta. Un paese della cuccagna che avevo solo annusato, perché lui non sarebbe mai venuto, perché quell'assenza era un abbandono vigliacco.

Ho cominciato a correre e le due donne mi hanno inseguito, avevano un'aria minacciosa e cattiva.
Correvo nei cunicoli della metropolitana. Correvo sulle scale mobili ferme. Correvo tra bottiglie vuote e cartoni sui quali dormivano dei vagabondi ubriachi. Correvo nella stazione spettrale, dove solo il tabellone dell'orario era l'unico oggetto in movimento.
Correvo e sentivo l'angoscia, quella sensazione terribile di quando nei sogni t'accorgi di precipitare.

Ma poi mi sono fermata, ero davanti ad una farmacia. Sono entrata e dentro c'era una folla di uomini repellenti che compravano profilattici, si sono voltati a guardarmi in un silenzio carico d'aspettative.
Ho chiesto loro se qualcuno potesse accompagnare i miei figli a casa, perché io dovevo partire ed ero in ritardo.
E mostravo i biglietti.
Allora loro hanno cominciato a sghignazzare sempre più forte. Ed io ho avvertito perfettamente la ridicolaggine di quella situazione.
Ridevano di me.
Ridevano anche le due ragazze che m'avevano raggiunto e nella smorfia delle  risate avevano perso la loro aria minacciosa.
Ridevano della mia illusione di partire ancora. Ridevano della mia inconfessata speranza di vederlo arrivare all'ultimo momento, per smentire con la sua presenza il mio cinico realismo.
Ridevano a crepapelle senza più contenersi.

Ed io mi sono avvicinata al banco della farmacia, lentissimamente, e senza scompormi ho ordinato un barattolo di pesche sciroppate.

 
 
 
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