Creato da sciffo il 27/09/2005

noeasywayout

Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

VENTIDUE ANNI (2.a parte)

Post n°696 pubblicato il 16 Luglio 2013 da sciffo


Blood brothers in a stormy night

With a vow to defend

No retreat, baby, no surrender

 

(...)

 

Nel frattempo le ore passano, le maglie bianche stanno debordando per tutta la piazza.

Non è possibile trattenere il sorriso nel trovarsi di fronte, magari senza preavviso, alcune grinte a dir poco spettacolari, sembrano i componenti invecchiati della banda della Magliana in un documentario su History Channel, altri degli evasi da un manicomio - forse lo sono.
Un poco di pazzia, d’altronde, era necessaria per giocare, per mettere a rischio ginocchia e vertebre per pura passione, per stare con gli amici, per il gusto primordiale di assestare qualche bella cannonata. Playing for pizza, così ha definito il nostro football nientemeno che uno stupito John Ghisham: una definizione che però mi permetto di confutare dato che, almeno nel nostro caso, spesso la pizza ce la dovevamo pagare da soli.

Qua e là, spunta anche qualche viso da bravo “ragazzo”, un po’ in soggezione davanti alla  torma di cinghiali. Hanno la stessa espressione esterrefatta di quando si presentarono al loro primo allenamento. Per dirla tutta, vedo la jersey anche addosso a qualcuno che so bene non essere mai sceso in campo, neppure in panchina: qualcuno di loro è visibilmente a disagio, altri meno, ma tutti sono fuori contesto, come degli imbucati ad un compleanno dove non conoscono il festeggiato.
La cosa che mi colpisce di più, comunque, non sono tanto i cornerback di un tempo letteralmente raddoppiati, tanto che oggi potrebbero giocare offensive tackle, e nemmeno i linemen fuori controllo, che stazzano ormai come dei cacciatorpedinieri atlantici, quanto piuttosto gli ex-grassi che sono notevolemente dimagriti. Addirittura alcuni, pochi, sembrano molto più in forma fisica – e psichica – rispetto a quando giocavano…

 

Ma proprio mentre sto per addentare un provvidenziale panino, arriva il momento della foto di gruppo, e devo così abbandonare ogni speranza di mettere nello stomaco qualcosa che contrasti i montanti effetti dell’alcool.
Paltro e il Biondo, policeman dentro, a prezzo di enormi sforzi e con l’aiuto di un fischietto, cercano di radunare l’immensa mandria sullo scalone dell’Acquedotto.
Siamo, credo, quasi trecento, ammassati da due ore sotto il sole di luglio, fasciati dalle maglie in tessuto sintetico, già semipieni di birra, e l’odore di ascella impropria è notevole. Persino questo, però, apporta una dose di ricordi,: spalliere rancide mai lavate, caschi di quarta mano oleosi per l’infame mix di sudori, i temibili spogliatoi del Motovelodromo, quasi impraticabili dopo un allenamento nel fango, con il Lanzo (dov’è oggi ‘sto somaro?) che tira sogghignando bicchierate di piscio a quelli che stanno facendo la doccia.

E soprattutto di quelle mischie terrificanti che si creavano ad ogni placcaggio sulla linea di scrimmage, in quel nostro football old style, dove risalivi il backfield solo per trovarti disperatamente sepolto sotto un cumulo di triceratopi sprigionanti eau da toilette ”Chanel 4° quarto”.
La foto alla fine (per fortuna) viene scattata, e sarà bellissima, un ricordo da mostrare ai figli e per qualcuno anche ai nipoti, sicuramente unico: è bello esserci stati.
Parenti, amici e passanti sorridono, anche loro un pò commossi nel vedere questi  ex ragazzi, ingrigiti, ma anche sorridenti e orgogliosi, mentre intonano l’ennesimo coro, forse l’ultimo.

Dopodichè, con fatica organizzativa notevole, veniamo inquadrati in file di sei, rigorosamente (o quasi) in ordine per numero di maglia.
A destra mi ritrovo Caba, leggo la sua espressione sorniona, e vengo fulminato da un dubbio improvviso: il maledetto avrà compensato i costi per la produzione delle maglie rivendendo il database con i dati dei partecipanti alla divisione marketing del Betlem?

A sinistra invece mi compare all’improvviso Donato il Giaguaro, che non avevo ancora incontrato, e mi tornano in mente alcune serate selvagge che iniziavano a casa sua, con una grigliata a base di salsicce semicarbonizzate e pasteggiando con oscene vodke alla pesca, i cui nefasti effetti sul fegato sono avvertibili ancora oggi.
Tra urla e risate, la colonna si avvia infine verso lo stadio, distante poche centinaia di metri, e sarà una passeggiata magica. Siamo tutti insieme, un fiume di maglie e cappellini bianchi, ma anche di sorrisi finalmente senza se e senza ma, di sguardi velati di meraviglia e consapevolezza che sta stiamo vivendo, assieme, un momento unico, emozionante oltre ogni aspettativa.


Nei dieci, frizzantissimi, minuti di attesa davanti ai cancelli, in attesa del segnale per entrare in campo, si avvera anche il mio ultimo desiderio per questa serata: compare, proprio sul filo di lana, Lorenzo Greghi, uno dei compagni di merende con cui, ai bei tempi, mi sentivo più in sintonia. Secondo me, è stato uno dei più forti giocatori italiani di sempre, e sono almeno quindici anni che non lo vedo ma, a parte i capelli grigi, per fortuna è sempre lo stesso.
Finalmente arriva l’ora del nostro ingresso sul terreno di gioco, ed è trionfale oltre ogni aspettativa: la musica esce rombando dagli altoparlanti, un “povero” rookie, là davanti, corre per il campo sventolando un’enorme bandiera con l’effigie dell’Aquila.
Siamo tutti commossi, forse anche un po’ impreparati alla solennità del momento, i cuori gonfi che premono verso la gola. Le voci si smorzano, qualche occhietto di fa lucido, e ci sta tutto.
Sono sicuro che, non solo per noi ma anche per molti tra il pubblico, questo si rivelerà il momento più emozionante della serata, anche più della partita.

Ci schieriamo allineati in formazione dog’s dick sul centro del campo, e vengono posate sul prato, perfettamente tirato, le maglie dei giocatori e dei dirigenti che non sono più tra noi. Sono undici, maledizione, mica pochi.
Per un attimo, mi passano davanti le immagini di alcuni di loro in tenuta di gioco, il casco in mano, che corrono verso la sideline lato tribuna, la nostra, del Motovelodromo.
Tutto lo stadio azzittisce per un minuto di raccoglimento nel loro ricordo, poi parte un applauso che, di sicuro, arriva fino al cielo estivo che inizia a imbrunire.
Peraltro, appena ricomincia la musica, vedo partire alcuni notevoli coppini, e due o tre calci nel culo a quelli in prima fila. Sono sicuro che avranno fatto sorridere anche quelli lassù.
Poi è il momento degli inni nazionali, statunitense ed italiano, e quindi per un saluto ai giocatori delle due squadre finaliste. Scorgo il fisico possente di Bellora, un giocatore dei Seamen, uno dei miei tempi ma che ancora calca il campo, incredibile!
Avrà giocato duemila partite, eppure scommetterei che si ricorda ancora benissimo di quell’altro masofante in bianco davanti a me, quello con una schiena simile alla poppa di una petroliera denominata “NOCE”, e che gli fece vedere un bel po’ di sorci verdi durante un match a Busto Arsizio.

Ma è quasi ora di kickoff.
Sloggiamo dal campo per prendere posto su una sezione di tribuna dedicata. Mi ritrovo tra Maci e Poldo, e mi sembra di stare tra gli ZZ Top: li vedrei benissimo su un Harley con manubrio ape hanger, elmetto della Wehrmacht e smanicato con effigie porcina degli Aldamar’s Angels.
Guardo qualche play della partita e, sinceramente, mi annoio in fretta.

E’ un tipo di football molto diverso dal nostro,  molto più spettacolare, per carità, ma anche molto meno fisico, e il ritmo delle segnature è talmente elevato che sembra di assistere ad una partita di basket. Ma la verità è anche che non me ne frega assolutamente niente, stasera sono qui per vedere gli amici, il resto è puro contorno.

E così, un minuto dopo sono al bar con Lorenzo, e in un walzer di birre a stomaco vuoto, ricostruiamo il vuoto di informazioni su quel che abbiamo combinato negli ultimi vent’anni.
Incrociamo Ale Magri, che sfoggia un insolito pizzetto e sento qualcuno che commenta “Maial Bongo at pari un di Kraftwerk!”: ora, credo che il gruppo tedesco sia stato in classifica non oltre il 1980… a momenti mi affogo dal ridere.
Passiamo da un bar dello stadio all’altro, in questa calda sera d’estate, parlando di figli, football, lavoro, football, birra e ancora football. Passano due ore, forse tre, bevendo con gli  amici che si fermano per una media fresca, come Bob, Zano e tanti altri, disseppellendo con ciascuno qualche specifico ricordo.

Il tempo vola letteralmente e la partita dev’essere finita, perché con gli occhi ormai velati vedo apparire sullo schermo gigante il presidentissimo Giulio Felloni, sempre impeccabile, che premia i vincitori con un trofeo intitolato al povero Angelo Spalluto.
Incontro anche Paltro e mi complimento doverosamente per come è stato organizzato l’evento, soprattutto per aver regalato a noi vecchiardi una serata che difficilmente potrà essere replicata. E’ stanco, e lo aspetta anche la fatica delle sistemazioni post-partita, ma ha quel suo sorriso sornione e soddisfatto, lo stesso di quando segnava un touchdown.
Torno con Lorenzo allo stand delle Aquile nei giardini dell’Acquedotto, dove se ricordiamo bene, c’è un’altra, e già ben rodata, spina di birra fresca. Molti in maglia bianca li troviamo ancora qui, a scambiarsi cazzate e fette di salame alte un dito.
Francamente, a questo punto, dopo almeno una quindicina di bicchieri, i ricordi cominciano a sfumare, ed anche gli sguardi che vedo in giro sono, comprensibilmente, piuttosto appannati.


D’altronde, a ben pensarci, non riuscivo a tenere il ritmo alcoolico di “Ule” nemmeno ventidue anni fa: a ben vedere, in fondo, non è mica cambiato niente d’importante...


Grazie a tutti

Zuck #35

 
 
 

VENTIDUE ANNI (1.a parte)

Post n°695 pubblicato il 15 Luglio 2013 da sciffo

 

 

 

Well, now young faces grow sad an'old

And hearts of fire grow cold

We swore blood brothers against the wind

Now I'm ready to grow young again

 

Ventidue anni.

 

Faccio il conto del maledetto tempo che passa, sempre più subdolo e bastardo, mentre guido verso l’appuntamento fissato ai giardini dell’Acquedotto. Ebbene si, sono già passati ventidue anni da quando sono uscito dal giro della squadra.  Sono tanti, cazzo.

Sono pochi minuti di auto, ma il tempo si fa adesso relativo, mentre  con la mente ripercorro con precisione il roster della “mia” squadra, quella di metà anni ’80, ruolo per ruolo.
Saranno anche passati i ventidue fottuti anni, ma ricordo benissimo tutti, dal quarterback al punter, ricordo nomi, cognomi, posizioni, numeri di maglia, altezza, peso.
Di alcuni persino il tempo sulle 40 e il massimale alla panca. Può suonare incredibile, lo so: sarà la mia vocazione da coach, o forse da Rain Man, ma è assolutamente vero.
Mentre i volti mi passano uno dopo l’altro sullo schermo della mente, sorridenti e giovani come nelle foto di uno yearbook ideale, mi chiedo chi di loro troverò all’appuntamento, e soprattutto che sensazioni proverò nell’incontrarli.
Mi accorgo che sto sudando, anche nell’abitacolo climatizzato: è l’effetto di una vaga inquietudine, la paura che niente sia come allora, che ricordi per me importanti si disintegrino, cadendo rovinosamente nel fossato scavato da quei ventidue anni.
Preoccupazioni stupide da uomo di mezz’età, forse, ma anche l’eco di delusioni che, in altri contesti, ho già vissuto sulla mia pelle.

 

Comunque sia, ormai ci sono: troppo tardi per ogni ripensamento, se mai ce n’è stato davvero uno.
Scendo dalla macchina, in questo pomeriggio d’estate luminoso e bollente, e dopo pochi metri scorgo da lontano tre strani personaggi, che vestono una jersey bianca da gioco e un cappellino dello stesso colore.
Vengono verso di me, leggo i numeri sulle maglie e li distinguo ben prima di poterli vedere in volto. Nessun sorriso a doppio fondo, ridono veramente, come raramente capita ad un cinquantenne, in mano una birra che, in questa afa, sembra un miraggio.
Appena mi vedono mi riconoscono, ci scambiamo un abbraccio e qualche reciproca presa per il culo. Non c’è traccia di freddezza, non c’è alcuna distanza. In un attimo, tra noi è tutto come ventidue anni fa, e ogni mia preoccupazione è scomparsa, sostituita da un’inconsueta anticipazione positiva, una sensazione che non provo da tempo.
Voglio ritirare anch’io la maglia, buttarmi nella festa e incontrarli tutti, anzi, abbracciarli come fratelli che vivono lontani.
E voglio anch’io una birra, la nostra vecchia bevanda magica.
Mi avvicino allo stand della squadra, dove un eroico Paltro , con gli occhi vetrizzati per il caldo e lo stress, sta cercando di tenere a bada decine di vecchi animali da tiro, da soma e da caccia. Tutti reclamano urlacchiando la propria jersey, forse un po’ imbolsiti ma vivaci (quasi) come un tempo. Dappertutto vedo sguardi allegri, forse un po’ commossi, di sicuro stupiti che una cosa bella come questa ci stia succedendo davvero.
Mentre attendo il mio turno, fioccano pacche sulle spalle, abbracci e bonari calci nel culo.  Come in un gigantesco Bar Sport, tutt’attorno si offrono bicchieri di birra e soprattutto commenti sarcastici su ventri prominenti (“pettorali discesi”), teste pelate come ginocchia o capigliature più sale che pepe, barbe e baffi a dir poco improbabili.
All’improvviso mi trovo di fronte Guio e lo abbraccio con affetto, lo stesso che lui mi dimostrò quando ero l’ultimo dei rookie e lui il QB titolare e nazionale, e che non ho mai dimenticato.
Adesso le maglie bianche in giro sono ormai centinaia, e ci sono quasi tutti, quelli della mia generazione: ne abbiamo passate tante assieme, e nei nostri anni migliori; non potrebbero mancare, come non posso mancare io.

Essendo l’invito esteso a trentatre anni di giocatori, ci sono anche quelli delle generazioni successive. Alcuni li conosco altrettanto bene per averli allenati, altri invece, più giovani, non li ho mai incontrati prima, ma quella maglia ci accomuna tutti, e provo un’empatia per me insolita anche per i volti che non conosco.


Volontariamente, non cedo alla tentazione di radunare un gruppetto con gli amici più stretti, quelli che, anche se di rado, ho continuato a vedere anche nei miei anni senza football.
Al contrario, voglio vedere tutto, tutti, perdere il meno possibile di questi momenti così unici.
E mi rendo conto di essere particolarmente fortunato, perché tra prima squadra, giovanile, anni da giocatore e poi da allenatore, ho incrociato il mio cammino con quello di molti dei presenti.
Certo, quando incontro lo sguardo di quelli con cui condiviso la trincea, avverto un qualcosa di particolarmente profondo.
Perché se è vero che l’essenza del football, come della vita, è la lotta per pochi maledetti centimetri, proprio come nel famoso speech di Al Pacino/Tony D’Amato, è anche vero che l’essenza dell’amicizia sta in quell’huddle difensivo, dieci secondi prima di giocarsi un quarto e goal, nel guardare gli occhi dei compagni con cui hai giù condiviso tante battaglie, e sapere che nessuno di loro tirerà indietro il casco.

E nel fondo di quegli stessi sguardi, potranno passare anche cent’anni, ma saranno conservati per sempre quei momenti, e la stilla di quella fiducia. Perché anche nel vivo della battaglia, le debolezze di ciascuno messe inesorabilmente a nudo, abbiamo continuato a combattere insieme, fidandoci e sostenendoci l’un l’altro. A volte abbiamo vinto, altre perso, ma senza mai nascondersi: non c’era alcun posto dove farlo, sul gridiron.

Sono stati anni passati ad alternare allenamenti in campo a pomeriggi in palestra, sempre assieme, a litigarsi i dischi di ghisa da 20 kg per gli stacchi, le estati sul campo d’atletica, le sbronze, le partite a touch football spaccandosi le ossa, cose che non si possono dimenticare.
Ciascuno di noi porta per sempre nel cuore le persone con cui ha diviso quelle esperienze.

E infatti lo stesso affetto provo per i compagni dell’attacco, ci si menava come fabbri in allenamento, ma con il sorriso dietro la mascherina, e sapevamo bene che, al momento giusto, avrebbero dato tutto per segnare, anche perché nessuno li avrebbe mai picchiati forte quanto noi, e viceversa.

Li guardo e, come già mi è successo, mi chiedo se il nostro ruolo in campo, attaccante o difensore, non si  sia riflessa poi anche nelle scelte di vita successive di ciascuno di noi.
E mi rendo conto che, della vita attuale di molti di questi vecchi compagni d’arme, non so in fondo nulla. Di alcuni non conosco nemmeno l’occupazione, né lo stato di famiglia.
Non si tratta di vecchi compagni di scuola, o di un semplici amici di cui si sono perdute per anni le tracce. Non provo alcun interesse nel sapere se Tizio o Caio hanno avuto o meno successo, se sono diventati milionari o se faticano a sbarcare il lunario.
Ed il motivo è semplice: là, sul campo, eravamo tutti uguali. Ricchi o poveri, patrizi o plebei, a nessuno fregava un cazzo. Si era valutati solo per il coraggio, la grinta e la voglia di sacrificarsi. Un imprinting di questo tipo non cambia nel tempo, perlomeno non nel rapporto con quelle stesse persone.

Partono i primi cori di “aldamar!” alla volta, credo, come al solito, del mitico Caba, trent’anni di oscuro lavoro dietro le quinte per far quadrare i conti della società, un compito credo assai arduo, di sicuro fonte inesauribile di prese per il culo a suo (bonario) danno. Ma tutti sappiamo che se non ci fosse stato lui, l’ultima sentinella contabile, oggi non saremmo qui a festeggiare.
I canti e le risate mi lanciano, in un attimo, indietro nel tempo, a bordo di una corriera nel buio su qualche autostrada, a bordo cinquanta postadolescenti scatenati e pieni di birra, pronti al saccheggio di un autogrill o a praticare una poco dignitosa cerimonia di iniziazione per un malcapitato rookie.
Sento la forza del gruppo, del branco, dell’esercito in marcia. Smorzata dall’età, ma da qualche parte c’è ancora.

 
 
 

IL CROLLO DELLA GALASSIA CENTRALE

Post n°694 pubblicato il 23 Febbraio 2013 da sciffo


Sono tempi davvero strani.

Non so come li ricorderò a dieci, forse vent'anni da oggi - ammesso di esserci ancora.
Probabilmente, a ripensarci, rivivrò solo la vaga sensazione di aver vissuto un grande casino, con poco o niente costrutto.

Il mondo intorno sta cambiando, è un processo iniziato già da tempo ma forse iniziamo a rendercene conto davvero solo di recente.
Io me ne accorgo soprattutto se ripenso a come vivevano le persone a me vicine fino a qualche anno fa, ed a come viviamo oggi.
Di base, c'era una prospettiva favorevole di medio-lungo periodo, orizzonte che oggi è ben difficile mantenere vivido. Era un'illusione, o forse è solo un'epidemia di pessimismo? Possibile che il rating sia passato così repentinamente da "buy" a "sell", senza neppure una breve fase di "hold"?
Mi sa che nessuno, oggi, abbia una vera risposta.

L'unica cosa sicura è che possiamo solo cercare di mantenere la barra del timone il più salda possibile.
Conosciamo solo una rotta, inutile illudersi che esistano scorciatoie, e non ci avevano detto che saremmo passati tra scogli veramente pericolosi.
O riportiamo la nave in acque sicure, o affonderemo tutti insieme come topi.

Se preferite, è come quando Al Pacino fa il discorso nello spogliatoio in Any Given Sunday.
E' l'intervallo, gli Sharks stanno perdendo di brutto, sono pesti e senza speranza, con gli animi ormai sotto i tacchetti. 
O risorgerete, come collettivo, o verrete annientati, individualmente. Non ho voglia di verificare su youtube, ma mi pare che le parole fossero più o meno queste.
Certo, per risorgere ci vuole una squadra con una buona percentuale di sangue giovane e seriamente preparata, caratteristiche che sono scarsamente reperibili nel nostro paese.
E ci serve anche Al Pacino, cazzo.

Ci occorre anche un'idea di futuro, un obiettivo.
Ammesso di uscire dalle secche, dove vogliamo e possiamo arrivare?
Non credo sia realistico, e forse nemmeno auspicabile, pensare di tornare alla nostra società fatta di Volvo station wagon, Natale a New York e ristoranti da 200 euro a coperto.
E allora, dove? 

Quando ascolto uno dei tanti leader politici europei, mi faccio l'idea che loro pensino a un mondo di soldatini di piombo, impiegati di banca o dipendenti pubblici, buoni consumatori di prodotti delle multinazionali, diligentemente tassati, la cui grigia vita sia dedicata al mantenimento dei privilegi cardinalizi di pochi, pseudo-illuminati oligarchi.
Tu lavora, anche poco, e soprattutto non rompere i coglioni, noi ti daremo da mangiare, due settimane di ferie al mare e qualche bel programma in tv. Morirai di vecchiaia o di cancro, senza mai aver faticato veramente, e poi sarà il turno dei tuoi figli.

E' questo che vogliamo, a cui aspiriamo?
E poi, e soprattutto: può davvero stare in piedi un mondo così strutturato? 
Un mondo senza iniziativa privata, senza esplorazione dell'essere, senza che nessuno si sogni di spezzare le regole?
Somiglia tanto alla predizione orwelliana, o magari alla società di Rollerball (quello vero con James Caan, non quel remake di merda).

Perchè se questa è la vostra prospettiva, io mi dissocio. Sarò sbagliato, ma non sono fatto così, non ce la faccio mica.
Io ho il mio timone da tenere, non il vostro.
Voglio navigare in una regata di piccole barche a vela, in una giornata di sole, guardandomi attorno vedo i miei amici che timonano i loro scafi sorridendo, in mezzo a milioni di altre vele che giocano con il vento e le onde.
Non voglio essere incatenato su una triremi come Ben Hur, a vogare e morire per la gloria dell'Impero Romano.

Si, di persone con il sogno di essere soldatini di piombo ce ne sono tante, ma non abbastanza. 
Gli Imperi crollano sempre, alla fine, basta un barbaro incazzoso o l'ultimo vecchio Jedi, e vengon giù come castelli di carte.
Non ci son cazzi, cari miei. 

 

 
 
 

FORMA, RISULTATO, SOSTANZA

Post n°693 pubblicato il 26 Gennaio 2013 da sciffo


La pratica di un arte marziale è profondamente diversa da quella di uno sport di combattimento.

Certo, si possono praticare gli sport di combattimento con un approccio da artista marziale, ma questo è un altro discorso.

Questa differenza fondamentale risiede nel valore relativo dato a forma, risultato e sostanza.

La preparazione per il ring, la materassina o la gabbia ha come scopo finale il risultato sportivo, e la forma è curata unicamente come funzionale a tale scopo, spesso in modo sintetico e subordinato alla ricerca della massima efficienza fisica.
Al contario, in un'arte marziale moderna, in un'epoca in cui i duelli mortali fortunatamente sono una remotissima possibilità, e qualora non si persegua il successo agonistico, non c'è un risultato "finale", in senso stretto, da perseguire.

Il judo, in particolare, è un'arte marziale apparentemente un pò distante da questo concetto, perchè è anche uno sport con dignità olimpica consolidata, e come tale molto praticato nel mondo.
La stragrande maggioranza dei praticanti è costituita da bambini e giovani, come ero io 35 anni fa e sono oggi i miei figli, ormai entrambi orgoliose cinture marroni, che si allenano con finalità agonistiche o, più in generale, formative (riecco il termine 'forma').

Non ha neppure una fama, nè una pratica, specifica come sistema di difesa personale, che è un'altra della motivazioni (per lo più illusorie, ma tant'è) che possono spingere un adulto non agonista a cimentarsi in un dojo.
Ci sono miriadi di arti marziali - più o meno serie - che promettono l'invincibilità in poche lezioni, e che su questo hanno costruito un successo commerciale.
Soddisfano un bisogno psicologico di sicurezza, fortunatamente ben di rado messo alla prova in situazioni reali.
 
Infine, al contrario di queste discipline così cinematografiche, la pratica del judo è dura, fatta di fatica, sudore, dolore, violente cadute sul tatami e costante contatto, spesso schiacciati al suolo, con altri corpi altrettanto sudati.
Se qualcuno pensa a immagini di vecchi maestri impegnati in un kata su una scogliera a picco, con il tramonto che tinge il mare di rosso, è lontano dalla realtà quanto un parlamentare laziale.

Perchè, allora, un adulto di mezz'età dovrebbe avvicinare il judo?
Non ho una risposta a questa domanda, a dire la verità.
Forse non dovrebbe.
Il mio punto di partenza è molto particolare, e quindi non mi sento di dare suggerimenti in merito.

Voglio solo dire che io ho scoperto in questa disciplina un approccio che mi soddisfa e mi avvince, ed è la pratica del kata.
I kata del judo hanno una particolarità fondamentale, unica: si praticano in coppia, e sono pertanto il frutto della raggiunta armonia psico-fisica tra Tori (colui che applica le tecniche) ed Uke (chi le "subisce").
Non si creda che vi sia una gerarchia in questo, in cui tori ha un ruolo predominante, anzi, per la riuscita del kata è altrettanto importante il corretto lavoro di uke. 

Yin e Yang, luce ed ombra, giorno e notte, bene e male, vuoto e materia. L'universo. 

E' difficile spiegare appieno lo stato mentale (e/o spirituale) che si vive mentre si pratica il kata del judo.
E' tanta la concentrazione su ogni singolo movimento, sullo spazio e sul tempo che il resto del mondo svanisce istantaneamente.
Ma non basta che il proprio corpo assuma posizioni aliene mantenendo equilibri perfetti, è necessario che anche quello del compagno faccia altrettanto, e che la forma dell'uno e dell'altro si fondano, fluendo armoniosamente.

Potrebbe essere la descrizione di un balletto, ma il kata è diverso, perchè ha una forte componente marziale
Tori ed Uke non devono dimenticare nemmeno per un istante che le tecniche che stanno eseguendo sono potenzialmente molto pericolose, e tale efficacia deve essere percepibile. Allo stesso tempo, devono dimostrarne il perfetto controllo, e salvaguardare assieme con maestria l'incolumità di Uke. 
Se il kata è ben eseguito, chi osserva percepirà che le forze e la posta in gioco sono notevoli (e vi assicuro che certe cadute del Nage-no-kata possono essere veramente rovinose), ma che tali forze sono pienamente assoggettate alla volontà dei praticanti.

Il miglioramento che si ottiene con la pratica assidua dei kata negli altri aspetti del judo, randori e combattimento, sia pur lento ed inizialmente non percepibile, è incredibilmente profondo, ed irragiungibile in altro modo.
Si può ben dire, credo, che i kata contengano l'essenza di quest'arte marziale, d'altronde è per questo che sono stati creati. 

Ma la verità ultima è che, oltre la ricerca della perfezione nella forma, il kata è un rifugio da tutto ciò che di spiacevole e inutile esiste nel mondo, un luogo spazio-temporale dove non esiste altro che il "qui ed ora", un respiro libero in armonia con il Creato, il che non è altro che il cuore della filosofia Zen.

La forma allora non è più funzionale al risultato, ma diviene essa stessa sostanza.
E il grande cerchio, dopo tanti anni, inizia finalmente a chiudersi.

 
 
 

L'ORA DELL'ORO

Post n°692 pubblicato il 19 Gennaio 2013 da sciffo

 

I live for my dream and a pocketful of gold


C'è meraviglia tutt'intorno a noi.
Ed è sempre stata lì, il punto è aprire abbastanza gli occhi per vederla.

O forse è solo l'età che avanza, non ti concentri più sull'urlo del motore che accelera, anche perchè l'accelerazione è finita.
E allora hai tempo di goderti il paesaggio; non puoi far altro, d'altronde, che sederti più comodo possibile e lasciar scorrere le ruote.

Tornavo dal mare, il 31 dicembre.
Primo pomeriggio di una fredda giornata di sole.

Poco prima avevo vissuto uno di quei momenti strani, o magari è strano tutto il resto, quando il rumore del mondo degli uomini svanisce d'un tratto, come nebbia di montagna.
E senti per qualche istante, indimenticabile, che nuoti in una bellezza troppo perfetta per essere casuale.

Ero lì sul portocanale deserto, i raggi di sole che colpivano con una vibrazione musicale i pennoni dei pescherecci, con centinaia di gabbiani che giocavano ad evitarne i rimbalzi lucenti.
Unico altro suono, le loro risate sguaiate da marinai volanti.

E non c'è altro da dire al riguardo.
Nessuna logica nascosta, nessun pensiero illuminante.
Sei solo lì che avverti, e non ti puoi sbagliare, la trama grezza delle cose.
Incredibilmente perfetta, davvero troppo per essere faccenda umana.

Venti minuti dopo, stavo guidando attraverso vere badlands, quella terra di nessuno tra Comacchio e Ostellato, dove il paesaggio perfettamente piatto è fatto di campi verdi senza apparente fine, e canali che li tagliano come cicatrici di un passato oscuro.

Ci passi tremila volte, più veloce che puoi, e ti trasmettono solo voglia di arrivare più in fretta in un altro luogo, uno qualsiasi.
Ma quel pomeriggio, coperte dal velo dorato del sole che iniziava a calare dietro gli argini e le chiuse arrugginite, anche le badlands mi sono apparse stupende.
Miliardi di fili d'erba medica, ciascuno dei quali perfetto, progettato da un ingegnere supremo ma, allo stesso tempo, spuntato da solo, per una propria singola volontà, altrettanto potente e necessaria.
I pioppeti beige dalla terra fradicia, un castagno solitario che interrompe la compattezza di velluto della campagna. 
Le increspature del vento sulla valle fredda, che riflette il cielo.

Un airone bianco, immobile.
Sembra sia là in mezzo al niente, ma se ti accomodi meglio sul sedile e passi un dito tra le basette brizzolate, ti accorgerai che invece quello è il Tutto.

 
 
 

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