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Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

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LA SPIDER (racconto per TRACCE), prima parte

Post n°673 pubblicato il 18 Aprile 2012 da sciffo


Meet you on the other side.



"Questo è il racconto di un viaggio che non è mai accaduto. Una sorta di sogno ad occhi aperti, un desiderio  impossibile . Perché i sogni, quando danno il meglio di sé, altro non sono che l’espressione di un anelito che non può essere appagato nella vita reale.
Beh, questo sogno impossibile lo è di certo, perché uno dei due protagonisti, semplicemente, non c’è più.

Siamo in un crepaccio del tempo ipotetico, ma che somiglia tanto, tantissimo, alla seconda metà degli anni settanta. Diciamo che potrebbe benissimo essere il 1978.
Se ci muovessimo nel passato, dovrei avere appena dodici anni, ma come ho già detto ci troviamo in una dimensione onirica, ed io qui sono un uomo adulto, sulla trentina.
Invece mio padre, che mi siede a fianco, guidando distrattamente con solo tre dita appoggiate al volante di legno, ha proprio l’età che dovrebbe avere, che aveva, nel 1978, e cioè trentasette anni - a detta di tutti, specie delle signore, molto ben portati.
Siamo quasi coetanei, ma ci somigliamo poco.
Lui abbronzato, capelli neri e crespi come quelli di un batterista cubano, invidiabili baffi da mammasantissima, a complementare in modo impeccabile un paio di Rayban a goccia con lenti gialle.
E’ compatto ma snello, porta una camicia azzurra con le iniziali ricamate su un fianco, pantaloni di velluto leggero beige, vagamente scampanati, mocassini allacciati e il suo Rolex acciaio con il quadrante bianco, quello che non ho mai ritrovato.
Io sono come sono, o meglio com’ero nell’estate dei miei trent’anni: capello lunghetto biondo scuro, viso da bravo bambino e un perenne mezzo sorrisetto ironico. Molto diverso da lui, insomma.
In questo sogno, che somiglia tanto ad un film girato in uno splendido Technicolor à la Zabriskie Point,  porto una Lacoste bianca, jeans chiari, delle vissute Adidas Country bianche a righe verdi ed un paio di Wayfarer, forse un po’ troppo grandi perché mi scendono spesso sul naso.
Fossimo ritratti in una classica inquadratura di studio, con una gigantografia della strana coppia Sassolungo e Sassopiatto come fondale, nessuno potrebbe immaginare che siamo padre e figlio, piuttosto due amici che si stanno facendo un bel giro in macchina. Perché è così che voglio che sia, nel mio sogno.

Ah, la macchina, giusto.
Perché non è solo un’automobile, ma La Macchina di mio padre, e se lui ne è orgoglioso, io forse lo sono ancora di più, com’è giusto che sia.
E’ una Fiat 124 Spider bianca con tappezzeria in pelle color cuoio e cruscotto in legno, un piccolo capolavoro di design firmato Pininfarina, motore a quattro cilindri da 1800 cc per 118 cavalli, retrotreno irrigidito e cambio a 5 marce.  Un’automobile semplice, pulita e bellissima, come una nuvola che passa veloce in uno scintillante cielo di montagna, come quello che vedete lassù.
Un’autoradio Voxon Stereo 8 diffonde, o forse è più corretto dire infonde, I’ll never fall in love again di Burt Bacharach. O, se la si preferisce, More than a woman, nella versione cantata dai Tavares.
Lui la guida leggero ma non distratto, la mano sinistra appoggiata al montante cromato del deflettore e la destra che si alterna veloce tra il volante e la leva del cambio. Uno stile forse poco prudente, indubbiamente però  di gran classe, e soprattutto così tanto anni Settanta.
La capote nera, ca va sans dire, è abbassata, e sopra di noi splende un sole di fine estate spettacolare, uno di quelli che a lui, piacevano così tanto. E infatti, ogni volta che la guida appena glielo consente, alza il più possibile il viso verso l’alto, per assorbire ogni possibile ione di calore e luce da quei raggi vitali.
Io per un po’ provo ad imitarlo ma, come ogni gesto di accoglienza, a me non viene naturale, e così me ne dimentico quasi subito e tengo lo sguardo ostentatamente saldo sulla strada.
Lui è rilassato, la schiena ben premuta contro lo schienale, le gambe allungate verso i comandi a pedale sportivi in metallo traforato; io quasi rannicchiato, le spalle un po’ curve in avanti, quasi a volermi scusare in sua vece col mondo per una gioia di vivere così troppo esibita, e provando a compensarla con il mio continuo e fottuto lavorìo di introspezione.
Ora che ci penso, c’è forse qualcosa de Il Sorpasso, in questo sogno. Però Gassman e Trintignant non erano padre e figlio, il che, se permettete, non è una differenza da poco.
Seconda marcia per le curve e terza per i brevi rettilinei, e avanti sempre così, come in una danza tranquilla e leggermente ipnotica, che la Spider asseconda senza la minima sbavatura. Il motore, ben poco silenziato, canta la sua libertà, con qualche sordo scoppiettìo in rilascio che rimbomba, con indistinta armonia, sulla grigia roccia dolomitica.

Stiamo percorrendo una delle strade più belle del mondo, di sicuro la nostra preferita, la Statale 242, quella che dal passo Sella porta verso il passo Gardena. Alla nostra destra incombe il massiccio che rende unico  questo percorso; sembra di essere dentro un immensa cattedrale gotica, le possenti pareti a picco che osservano in silenzio il transito insignificante di queste formiche umane, ricordandoci con la loro indifferenza che noi siamo lì solo di passaggio, tollerati a malapena.
Ma non oggi. Oggi è tutto perfetto, come dev’essere in un sogno che si rispetti, il cielo di un blu quasi metalizzato, la temperatura gradevolissima, i prati che sembrano pettinati come campi da golf e invitano a fermarsi per una pennica da manuale.
Ma noi non ci fermeremo, non tanto presto almeno, e il tempo si dilaterà fino a rendere questo giro in macchina praticamente senza fine, perché ci sono tante cose di cui dobbiamo parlare.

Sapremo mai veramente chi sono, o erano, i nostri genitori?
Li conosciamo quando siamo bambini e loro invece  già adulti, quindi il rapporto si sviluppa seguendo linee più o meno gerarchiche e, a seconda di come gira la giostra, nel tempo di loro ci costruiamo un’immagine che può essere eroica o odiosa, allegra o triste, ma comunque resta sempre e solo un’immagine, dunque artefatta. Che tipo di uomini o donne fossero, come li vedevano gli altri, gli amici ed i conoscenti, e soprattutto com’erano davvero fatti dentro, noi non riusciamo mai a saperlo del tutto.
Perché con noi si comportano in modo forzato, e c’è poco da fare. Potremo solo tentare, una volta adulti, di decodificare i loro atteggiamenti, di rielaborare mezze frasi, sguardi, presenze ed assenze, raccogliere episodi su di loro raccontati da terzi. Ma sarà un lavoro sfiancante, fatto con la prospettiva quasi certa di ricadere comunque nell’elaborazione di un’icona ideale, in positivo o in negativo che sia, ma comunque non reale.
E’ come leggere una notizia riportata da un giornale, e magari pure in maniera strumentale: non sapremo mai veramente come sono andate le cose. Occorreva essere presenti al verificarsi dei fatti e dei loro retroscena, poterli osservare direttamente e senza filtri, per formarsi una propria opinione indipendente.
Eppure, dopo tutto questo tempo, grazie a questo sogno dai colori che gridano “vita sia!”, a me oggi sara’ concesso di conoscere finalmente mio padre."

Continua...

 
 
 
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