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Il Sole di Stagno - Romanzo

 

Il Sole di Stagno - Vincenzo Aiello - con-fine ed. - Bologna, 2006

C'è qualcosa che accomuna questo racconto di Aiello al grandioso romanzo di Walter Siti, Troppi paradisi. Così lontani e tra di loro diversi, entrambi si sono proposti di tematizzare il tempo, fissandolo alla svolta del secolo e del millennio. Per narrare come storia la contemporaneità e la propria stessa esperienza, senza consegnarsi all'autobiografia, bisogna scegliere una lingua e giova inoltre (secondo me) una cornice esplicita di referenti cronologici. Che annunci subito il carattere del testo, di selettiva ricostruzione. Distante dal testo soggettivo della semplice memoria. È il problema che Aiello, nella sua prova d'esordio, ha in parte eluso, affidandosi ai soli dati interni. Quanto alla lingua invece, o meglio alla voce di scrittore, ha usato felicemente, la sua, che nella nuova generazione è una delle più personali.

Lidia De Federicis (L'Indice dei Libri) 

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"L'inventiva del Popolo"

Post n°1156 pubblicato il 27 Aprile 2014 da VincenzoAiello68
 
Foto di VincenzoAiello68

Costituisce motivo di grande interesse per gli studiosi la stampa del volume “XII facezie e motti (Franco Di Mauro edizioni)” dell’etnografo campano Gaetano Amalfi (1855-1928) contemporaneo del palermitano Giuseppe Pitrè, fondatore della disciplina medesima, antesignana della moderna antropologia. Dodici cunti trascritti in dialetto con un apparato di note e di varianti interessantissimo che spaziano dal 1400 al 1800 – passando per Basile – e che raccontano “il valore del rispetto della tradizione, anche in considerazione del frequente atteggiamento di spregio per le norme instaurate in tempi trascorsi” , come chiosa nell’introduzione il curatore del libriccino l’avvocato Renato De Angelis, pronipote dell’Amalfi e referente del legato librario nella Biblioteca di Piano di Sorrento. Come mai il cunto “Fateme ‘a caretà, ca se no!” raccolto dal magistrato carottese nel 1800 si ritrova in un testo del 1486  -“Facezie e Motti dei secoli XV e XVI codice inedito magliabechiano” – e viene attribuito anche al conte di Tondiglia ambasciatore del re Spagna presso Innocenzio VIII? Perché quell’altro motto – “Avimmo ditto doje buscie” – attribuito già a Dante si ritrova anche in una raccolta veneziana – ed in veneziano - raccolta nel 1571 da M. Ludovico Domenichi?  Perché, un tempo, anche la persona dotta non aveva paura del dialetto ed anzi le persone più colte raccoglievano – e formalizzavano – le tradizione orali popolari. Fu solo durante il Ventennio fascista che i dialetti furono aboliti per decreto (sigh)… La recente produzione narrativa con Andrea Camilleri, ma anche con lingue contadinesche come quella di Pennacchi o del Manfredi di “Otel Bruni” , ha ridato fiato ad una Tradizione che si voleva sopita. Del resto il grande Gustaw Herling ci ammoniva in “Requiem per un campanaro (L’Ancora del Mediterraneo)” sul dato che “nessuno può avere un’inventiva superiore a quella del Popolo”.

Vincenzo Aiello

 
 
 
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