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Julian Barnes - Il senso di una fine

Post n°300 pubblicato il 23 Febbraio 2013 da syd_curtis
 

Julian Barnes Il senso di una fine

Non so dire, in tutta franchezza, se questo romanzo (breve) di Julian Barnes sia un capolavoro o una pizza: la discussione è accesa, lascio ad altri il compito di aggiungere stelline o carciofini, a seconda del gusto e dell'umore. Per ciò ch'è mio, mi pare un libro sapido in tante parti e ben scritto, per quanto vaga possa sembrare questa pres(in)a di posizione. La prima persona singolare consente farciture riflessive su memoria e tempo, sulla fallacia della prima, quando s'accompagni a braccetto col secondo; che sia la Storia o la storia, poca differenza (cito): La Storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione.
E ancora: Non so chi ha detto che il ricordo è ciò che pensavamo di aver dimenticato. Inoltre dovrebbe apparirci ovvio come il tempo per noi non agisca affatto da fissativo, ma piuttosto da solvente. Solo che credere questo non conviene, non serve, non aiuta a tirare avanti; perciò fingiamo di non saperlo.

La vita è la storia che se ne racconta, immaginando di poterla dotare di un senso, che a onta dei nostri sforzi rimane inafferrabile (viste le premesse, come potrebbe essere altrimenti). Sprazzi amari di ammissione: la mia vita è mediocre, sono uno medio, cos'è questa miseria, eccetera: Avevo perso gli amici di gioventù. Avevo perso l'amore di mia moglie. Avevo rinunciato ai sogni di una volta. Avevo chiesto alla vita di non turbarmi troppo ed ero stato accontentato; e che miseria ne era derivata.

E' una vita raccontata in tono minore, dimesso, esercitando un'ironia che sconfina spesso nel sarcasmo autodenigratorio. E' un libro tristissimo, depresso, da evitare come la peste nei giorni di pioggia. Tony conserva l'immagine di un'onda di piena: forse l'unica di una vita che spesso finisce nelle secche. E' un libro che conserva nel finale una piega d'indagine. Che diavolo è accaduto a Veronica? Chi sono quei matti nel paese dei dissuasori e marciapiedi? Come si può guidare tanto male?

Il disvelamento è banale quanto può esserlo un disvelamento (chiamo in causa il mistery tutto e in particolare un autore commerciale a me, per ragioni tutte mie, caro: nei gialli di Michael Connelly -perdonate l'accostamento- ci si perde nella storia, quel senso di indagine che è appagante, ordinato, preciso e che si immalinconisce inevitabilmente nei finali, sempre affrettati, sempre poco plausibili, sempre da colpo di scena, ta-taa!), finale ampiamente rocambolesco (suvvia!), da un lato incomprensibile dall'altro aperto.

Sull'incomprensibilità: confesso, ad esempio, di non aver capito che diamine significassero le cinquecento sterline (il prezzo del sangue). Sono uno che non ci arriva (direbbe Tony). O forse non è poi così importante, come pure Mary/Veronica, le equazioni di Adrian e la misteriosa comparsa/scomparsa di Fratello Jack. Ho pensato che trattasi di McGuffin, presente? Quella faccenda teorizzata da Hitch, una sorta di pretesto per catturare il lettore, o lo spettatore, farlo scervellare, far muovere la vicenda, laddove forma e contenuto in realtà coincidono: il McGuffin è il cinema (o la letteratura). Me ne vengono due (abbastanza) famosi, ma ce ne saranno molti altri: il primo, Un bacio e una pistola di Aldritch (kiss me deadly, omaggiato da Tarantino in Pulp Fiction), con la sua valigetta atomica su cui si chiude il film (e si chiude con una catastrofe, come a dire: non aprite quel McGuffin!); il secondo, la scatola che viene consegnata nelle mani di Barton Fink, personaggio dell'omonimo film dei fratelli Cohen. Tutti a chiedersi e a scervellarsi sui significati.
Ha senso? Forse no, forse sì, in questo caso: il rocambole del finale di Barnes fa perdere un filo di aderenza alla storia. Come dire, la teoria dei Quanti sarebbe la stessa cosa se a raccontarcela fosse stata Peppa Pig?

Si avverte quasi un tono di apocalisse in sedicesimo: Tony si fustiga spellandosi la schiena per una lettera (orrenda, ne conveniamo) scritta in gioventù, con piglio da Sibilla Cumana inacidita, e tesa, lo dice, a far male sparando a casaccio. E che sarà mai. E tutto quel che ne segue sarà mica colpa sua, via. E poi le persone a distanza di anni non cambiano? Conservano intatto il proprio furore? Oh, Dio.

Eppure è in questo orrendo disvelarsi di una realtà obiettavamente difficile da cogliere (io non ci arrivo dice Barnes, e noi con lui), che s'avverte quell'apocalisse nel bicchiere: ridicola, banale come tante, invocata come a smuovere la superficie di una vita col freno a mano tirato, il rimorso e il dolore citati a testimonianza della propria sopravvivenza, un'esistenza di minuzie, solitudine disegnata in tutto il proprio raggelante squallore. Tanto british, per certi versi: una sorta di miseria, di putrefazione irreprensibile, che arriva inodore tramite e-mail, tutta ripiegata su se stessa. Chi ha sofferto, ha sofferto, e Tony raccoglie su di sé come un Cristo telematico da discount tutto il dolore del piccolo mondo che abita: il proprio, asfittico, atomo opaco del male. E un attimo dopo, ci si può scommettere, riprende a scrostare il bollitore del thé.

E tante parti di quella vita, anticalcare compreso, potrebbero essere mie. Lo scrivo qui in tono melodrammatico, prima di andare a dormire. Yahown. E questa constatazione ardisco condividerla con altri lettori. Siamo in tanti a praticare una vita di merda, fratelli, e quasi tutti a chiedercene il senso. E una scatoletta di tonno scagliata di rabbia sul pavimento millanta anni fa, quando credevamo che la ceramica fosse refrattaria all'olio, è un avvenimento che col tempo scopriremo atomico, pregno di conseguenze tali da far accapponare (o staccare) la pelle (e le piastrelle).

 

(Einaudi, 2012 - Traduzione di Susanna Basso)

 
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