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Bon Iver

Post n°152 pubblicato il 30 Settembre 2011 da syd_curtis
 



Queequeg era nativo di Rokovoko, un'isola lontanissima all'Ovest e al Sud. Non è segnata in nessuna carta: i luoghi veri non lo sono mai.
(Melville, Moby Dick)


Poche storie, Bon Iver ha il tocco. La classe. Cose da dire. Come potrebbe essere altrimenti. Restarsene chiuso in una capanna nei boschi del Wisconsin, nemmeno fosse Thoreau, fare legna, camminare, e curare le ferite con le canzoni, le parole, la scrittura. Uscirsene con un disco, l'esordio acustico di quattro anni fa, in cui le proprie paure, il proprio dolore si fanno universali e parlano all'ascoltatore come appartenessero alla sua esperienza.

In una bella intervista rilasciata a Claudia Durastanti per il Mucchio di Luglio/Agosto, Vernon ritorna sul fantasma ingombrante di quel primo album, quel For Emma, Forever Ago, la cui forza dirompente -il pathos, l'urgenza, la sincerità dei sentimenti scoperti- aveva generato inevitabili aspettative nella gente. Aspettative che erano andate crescendo di pari passo con la popolarità. Come uscirne senza restarne schiacciati: con una considerazione, frutto di una notte passata in auto col fratello, vigilia di Natale, bloccato in una tormenta di neve: and at once I knew I was not magnificent. Ok, non sei magnifico, non sei glorioso. Ho intuito, racconta, che ridimensionandomi sarei stato più tranquillo, più siamo piccoli più siamo sereni. Più belli, anche. E io sono più interessato a essere un buon amico, un buon compagno in una band e un buon familiare, più di quanto sia interessato a essere un'icona pop. Un essere umano decente.

Bon Iver, il nuovo album, è tutto fuorché un ridimensionamento, non fraintendete. Dispiega mezzi diversi, strumenti differenti, una pienezza che l'esordio non aveva. E conquista senza remissioni, ascolto dopo ascolto, con la forza di canzoni sommesse e ancora una volta straordinariamente ben congegnate.
Si ascolti Perth: quanto appaiono necessari quei tamburi marziali, l'irrompere della batteria e il passaggio stupefacente in Minnesota, con la sua elettronica giustapposta all'acustica, i fiati accennati, il modo in cui precipita dolcemente nel ritornello, never gonna break never gonna break, la naturalezza con cui cede il passo, di colpo, a uno dei pezzi più intensi: Holocene, con i suoi cieli autunnali, la chitarra arpeggiata, quel piccolo xilofono. Holocene è un cielo d'Ottobre col sole, è una castagna, un bacio, una carezza, un po' di acqua salata nell'angolo dell'occhio sinistro, un piccolo gioiello di tenerezza e struggimento. Parla senza bisogno di parole ai disadattati come me, ai paurosi del cazzo, a chi scrive su un foglio che mette subito via perché nessuno lo legga. Non è niente di tutto ciò. E' tutto ciò. E' magnifica. E' un cassetto in cui c'è tutto quello che cerchiamo nella musica pop, la ragione per cui non possiamo fare a meno di ascoltarla.

Poi tutto il resto, tutto quanto, dio bono, se non bastasse ciò che già abbiamo attraversato. L'apertura generosa di Towers, le atmosfere quasi Cohen di Hinnom, il pianoforte introverso e il violino nascosto nella cassa armonica di Wash. E poi Calgary, la più bella con Holocene, con quel po' di concitazione ed elettricità.

Per chi lo ascolta, Bon Iver parla del luogo in cui quella persona si sente a casa e può farne quello che vuole, riscriverlo in tutti i modi che preferisce.
(J.Vernon dal Mucchio)

 
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