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Lodovico Castelvetro e Filippo Valentini

Ia
Filippo Valentini a Lodovico Castelvetro*

E larga strada, et ampia entrata a morte
altrui condurre agiato e carco invita,
ma disagioso e scarco ire a la vita
per angusto sentier povere porte.

Chi qua giù scese a far le genti accorte
con opre e con parole ognor n'addita,
u' non d'agi e di some alma impedita
entrar più che per ago le ritorte. (1)

A sì picciola porta e stretto calle
tutti i comodi uman lasciar bisogna,
e d'ogni peso disgombrar le spalle,

che passarvi altrimente in van s'agogna,
se 'l saver di Colui forse non falle,
cui senza, Atene san nulla, e Bologna. (2)

Filippo Valentini  (Modena, 1512 ca. - Grigioni, 1572)
a Lodovico Castelvetro (1505-1571)
Da: Lodovico Castelvetro, Lettere, Rime, Carmina a cura di Enrico Garavelli, BIT&S Testi e Studi - Edizioni di Storia e Letteratura, 2015

2 invita] in vita F1, in vlta Let, in ulta Va 3 disagioso] disaggioso Mo2 Let e sgg. e scarco] e carco Mo2 ire] om. Mo2 Let e sgg. 5 qua giù] quaggiù Mo2 10 comodi] commodi Mo2 12 altrimente] altrimenti Let e sgg.

*  Struttura metrica: Sonetto ABBA ABBA CDC DCD. Fonti: F1 97v, Mo2 267, Lettera del traslatare, p. 96 (= Let). Ristampato, da Lettera del traslatare, in Valentini, Il principe fanciullo, p. 35 (= Va), Roncaccia, Castelvetro e Valentini, p. 81 e Roncaccia, Il metodo critico, pp. 89-90. Tutto il sonetto, dalla sintassi non sempre perspicua (non per nulla del Valentini era quasi proverbiale l'obscuritas), è costruito sull'opposizione evangelica tra la via larga e spaziosa che conduce alla perdizione e quella stretta e angusta che porta alla vita («Intrate per angustam portam, quia lata porta et spatiosa via, quae ducit ad perditionem, et multi sunt, qui intrant per eam; quam angusta porta et arta via, quae ducit ad vitam, et pauci sunt, qui inveniunt eam!», Mt 7, 13-14).

Note:
1  Ritorte. Propriamente 'legaccio realizzato attorcigliando vermene o salici verdi'; in questo caso vale semplicemente 'fune, corda' (gdli xvi, pp. 974-975). L'incrocio con Mc 10, 25 («Facilius est camelum per foramen acus transire quam divitem intrare in regnum Dei») rivela un'esegesi per allora assai raffinata del kàmelos neotestamentario.
2  Denuncia della nullità della scienza umana, di contro alla profondità della sapienza divina, principio e fondamento di ogni sapere (probabilmente sullo sfondo della paolina predicationis stultitia, 1 Cor 1, 20-21).





Ib
Lodovico Castelvetro a Filippo Valentini*

Se non vedesti ancor per lunghe o torte
vie da l'usato corso suo smarrita
punto la queta mente mia romita
a che pur spargi al ciel parole morte?

Se sottilmente la strema mia sorte,
come ben scorgi, a sostentar m'aita,
et, oh!, (1) non manchi innanzi a la partita
ch'io lasci il troppo a che pur mi conforte,

chi non sa ch'al varcar di questa valle
di lagrime, (2) la qual ognor menzogna,
spirto rabbioso, turba d'alto a valle,

chi non vuol affogarvi con vergogna
fa mestier ch'abbia intorno molte galle? (3)
Dunque, il consiglio tuo par d'uom che sogna. (4)

Lodovico Castelvetro (1505-1571)
risposta a Filippo Valentini  (Modena, 1512 ca. - Grigioni, 1572)
Da: Lodovico Castelvetro, Lettere, Rime, Carmina a cura di Enrico Garavelli, BIT&S Testi e Studi - Edizioni di Storia e Letteratura, 2015

7 et, oh] Et o F1 Let, Ed o Mo2
*  Struttura metrica: Sonetto ABBA ABBA CDC DCD. Fonti: F1 97r, Mo2 254, Lettera del traslatare, p. 95. Ristampato, da Lettera del traslatare, in Cavazzuti, Lodovico Castelvetro, p. 196 (che lo commenta severamente), Valentini, Il principe fanciullo, p. 34, Roncaccia, Castelvetro e Valentini, p. 81 e Roncaccia, Il metodo critico, p. 90. Da notare la partitura simmetrica (Se... Se... Chi... Chi...).

1  Credo che si tratti di un o ottativo, analogo al latino utinam. Metricamente è però, chiaramente, una zeppa.
2  Calco, un po' banale, del liturgico lacrimarum vallis (non mancano riprese analoghe nella lirica coeva, come il «lagrimosa valle» dei Tasso, padre e figlio).
3  Sull'abusata metafora della vita come navigazione Castelvetro innesta l'immagine del 'salvagente' («galle» nel poco convincente significato figurato di 'cosa senza peso' è registrato da gdli vi, pp. 550-551; probabilmente qui andrebbe riconosciuta un'accezione più propria di 'galleggiante', come derivato da gallare, 'galleggiare' ), cioè dei beni materiali, che tengono in superficie il naufrago. Da notare un'eco di O.F. xviii 24. 2 («come s'intorno avesse tante galle»).
4   Da registrare possibili echi di Pg 33, 33, Pd 29, 82 e Rvf 264, 88 e soprattutto 49, 8 (dove si riscontra l'intera sequenza di parole-rima menzogna: vergogna: sogna).

 
 
 

L'innamorata

Post n°4556 pubblicato il 29 Agosto 2021 da valerio.sampieri
 

"Leona si asciugava di nascosto gli occhi sempre pieni di lacrime, e pregava, pregava ardentemente il Signore, ogni sera prima di andare a letto, ogni domenica in chiesa, ginocchioni per ore e ore, che gli rendesse l'amore del suo amico. Ma codeste preghiere erano fatte senza convinzione, perché senza speranza. Ella sapeva che il Signore non poteva permettere che ella seguitasse a vivere in peccato mortale; e piangeva così, rassegnata, con un gran vuoto nel cuore, aspettando che accadesse quello che fatalmente doveva accadere.
A poco a poco, tutti i suoi gioielli, tutti i suoi abiti erano stati portati al Monte di Pietà. Un giorno Paolo era tornato tutto sconvolto, e aveva raccontato che un creditore a cui sua madre non aveva voluto pagare una cambiale di tremila lire, lo aveva minacciato di fare pubblicare il protesto sulla quarta pagina di tutti i giornali di Roma. Il nome di un conte Cappello sulla quarta pagina dei giornali! Egli non sapeva darsi pace. Risolutamente Leona gli aveva proposto di mandare i suoi gioielli al Monte. Dapprima egli era montato su tutte le furie; poi si era lasciato ammansire dai ragionamenti e dalle preghiere della povera donna: - i gioielli non erano perduti; tanto, lei non sapeva che farsene; si sarebbero spignorati presto con altri denari che sarebbero venuti - insomma, egli aveva finito con l'accettare. E tutto quel giorno si era mostrato tenero e appassionato come nei primi tempi del loro amore. Ma il giorno stesso si era ricominciato da capo. E così, a uno per volta, per ottenere una carezza o uno sguardo meno indifferente del solito, ella aveva mandato al Monte anche i vestiti di velluto e di seta, le camicie di batista, i lenzuoli, i cappellini, ogni cosa. E lui accettava, oramai, evitando di domandare come ella avesse fatto a procurarsi il denaro che gli faceva bisogno; raccontandole che presto l'avrebbe compensata di ogni suo sacrificio, e tornando, di lì a poche ore, a tormentarla, a farle il muso duro, a rinfacciarle la propria miseria e il proprio avvilimento.".

Il brano, vagamente autobiografico, è tratto dal romanzo L'innamorata, di Evelina Cattermole, nota come Contessa Lara, poetessa e scrittrice assassinata il 30 novembre 1896 dal suo convivente.

 
 
 

Romagna

Post n°4555 pubblicato il 24 Giugno 2021 da valerio.sampieri
 

ROMAGNA
a Severino


Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l'azzurra vision di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l'altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l'anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l'urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell'aie;

mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e 'l bue rumina nelle opache stalle
la sua laborïosa lupinella.

Da' borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d'occhi di bambini.

Già m'accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d'estate
co' suoi pennacchi di color di rosa;

e s'abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.

Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l'imperatore nell'eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via
con l'ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor allor falciati
da' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli
ch'io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d'uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura
tra que' tuoi polverosi biancospini,
ch'io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,

Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

 
 
 

Il Delatore

Post n°4554 pubblicato il 18 Aprile 2021 da valerio.sampieri
 

Il Delatore

Le orecchie intente, gli sguardi bassi
Tu come un' ombra segui i miei passi:
Se un lieve accento movo al compagno,
Ratto ti sento sul mio calcagno.
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!

Ma quando mangi pan guadagnato
Con l'abjettezza del tuo peccato,
La bieca larva del tradimento
Non ti sta presso? non n'hai spavento?
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!

Il sol la luce dovria negarti;
Mai col tuo nome nessun chiamarti,
Ma con quell'altro che ti dispensa
Pane e vergogna sull'empia mensa.
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!

Talora il ladro chiamo infelice;
Degno di pianto la peccatrice;
Da me un'ascosa lagrima oltiene
Sin l' omicida stretto in catene:
Ma tu: tu solo mi metti orrore
Sei delatore!

Va, sciagurato, cala il cappello,
Ti ravviluppa nel tuo mantello,
E se un'istante sul cor ti pesa
La mia parola, cerca una chiesa,
E piangi, e grida: Pietà, Signore,
Son delatore!

Là solamente presso a quel trono
Può la tua colpa trovar perdono;
Impauriti dei tuoi tranelli,
Più sulla terra non hai fratelli.
Va, sciagurato, mi metti orrore;
Sei delatore!

Giovanni Prati (1814-1884)
Da: Canti lirici, Canti per il popolo e Ballate, 1843 (https://books.google.it/books?id=yQMgAAAAIAAJ)

 
 
 

Lettera di Camilla Pisana a Filippo Strozzi

Post n°4553 pubblicato il 11 Aprile 2021 da valerio.sampieri
 

Lettera di Camilla Pisana a Filippo Strozzi (1516?)

Fhilippo prestantissimo. Se l'amor nostro verso di voi appetissi altro che la gratia et dolce affetto vostro, potrei, in­sieme con l'altre, volere, accettare, concupire pre­senti et doni secondo che il desiderio ci spronassi; ma essendo quello tutto perfetto, sincero e cor­diale, non voglio nelle presenti demonstrationi darvi un saggio opposito al sapore della servitù et fede nostra, perchè come voi medesimi potete testimoniare l' animo nostro non è diretto a si­mili cose, et se per noi havete hauto brighe, noie e spese ce n' é doluto insin al cuore, et aremo volentieri volsuto portar ogni peso sopra di noi per lasciarvi illesi, ma le nostre forze non furono sufficienti senza l'aiuto vostro; onde vedeste che le cose necessarie non furono mai da noi repu­diate, et più ci sono oggi sigillate et sculte nel petto che 'l primo giorno. Ma perchè adesso e' du­cati dieci, quali mandate, sono superflui, et fuori d'ogni nostro desiderio, però non mossa da ru­sticità, nè perchè ogni cosa vostra non ci sia grata, ma solo per non occorrere el bisogno, gli rimetto indrieto, priegandovi siate contento ac­cettargli, perchè quanto più gli rimandassi, tanta maggior briga mi dareste a mandargli indrieto, chè per niente non gli accetteremo mai, non perchè ci sia mancata la fede che tutto per noi non operassi volentieri; ma non ochorrendo ado­perargli sarebbe cosa incongrua a pigliargli. Ben vi prometto che bisognando mai cosa alcuna vi richiederò sempre con quella sicurtà che arei fatto pel tempo passato; et questo vedrete per experientia, chè non sarei per lasciarmi mancar niente, avendo un tal deposito, qual siete voi, dove ogni nostra speranza si pasce e nutrica. La Beatrice non istà grave; vero è ch'era allegge­rita di febbre, et da tre o quattro giorni in qua è ricaduta, senza far disordini: non dimanco non c'è dubitatione alcuna. Io non manco d'ogni diligentia, anzi si fa tutto il possibile per lei, chè c'è l'obrigo et l'amore, chè l'uno ci strigne più che l'altro, però non dubitate circa alla cura et governo suo. Et, come è detto, accettiamo l'animo e l'offerte vostre non come cosa generale, ma con quella intera affetione che ci son fatte; per ora quelle ci sono a sufficienza. Però ripiglierete queste per amor nostro, se desiderate farci cosa grata, altrimenti ritorneranno per la prima via. Basta che bisognando mai, sareste richiesto come cosa nostra. Non altro. Son tutta a'piacer vostri. Va­lete; la Beatrice si raccomanda a voi.

Fonte: Lettere di Cortigiane del sec. XVI. Luigi Alberto Ferrai. Alla Libreria Dante in Firenze. 1884. https://www.mori.bz.it/Rinascimento/lettere%20cortigiane.pdf

 
 
 

Spènne tutto

Post n°4552 pubblicato il 14 Marzo 2021 da valerio.sampieri
 

Spènne tutto

Ce sta 'n pensiere chiaro, garantito:
Si uno spenne tutto er su' varsente,
Nun è che er giorno appresso se ne pente.
C'è poco da ruzzà, si è ito è ito!

Vabbè, l'ho fatto e me ce sò pentito,
ne la saccoccia mo nun ciò più gnente:
faccio la finta, fo l'indiferente ...
sto gran fregnone, vammorì ammaìto!

Ma si ce pensi bene, che la vita
passa de prescia, córe a scapicollo,
nimmanco ha principiato, ch'è finita,

pòi dì tranquillo: "Beh, chissenefrega!
vivo com'un lione e no da pollo,
ché 'n'antra vita nu' me la dà Brega!".

Valerio Sampieri
14 marzo 2021

 
 
 

I viaggi di Ciro

Post n°4551 pubblicato il 22 Febbraio 2021 da valerio.sampieri
 

Il giorno dietro, raguna Astiage un Consiglio di guerra per deliberare sopra i suoi movimenti. I Generali, temendo di qualche imboscata di Merodaco se uscissero del loro Campo, consigliano di sospendere qualunque azione fin al giugnere di nuovi rinforzi. Ciro, impaziente di venir alle mani, ascolta con ripugnanza le loro deliberazioni; ciò non ostante, pel rispetto dovuto all'Imperadore e a tanti sperimentati Capi, sta guardando un cupo silenzio; ma Astiage che parli gl'ingiugne.
Ecco allòra levarsi nel mezzo dell'Assemblea il giovinetto Principe, e con aria di modestia e di nobiltà esprimere questi sensi: Sulla dritta del Campo di Merodaco notai jeri un gran bosco; or ora mene vegno dal farlo riconoscere: Il Nemico ha trascurato un tal posto; puossi occuparlo col far calare uno Squadrone di Cavalleria per quel Vallone che giace alla nostra manca: Se l'Imperatore lo appruova, io mi vi trasferirò con Istaspe.
Se ne tacque, arrossò, e temé di aver troppo detto. In età sì verde ammirò ciascuno il genio di lui per la guerra: Astiage, sorpreso dall'aggiustatezza e dalla vivacità d'un tale spirito, comandò che si seguisse il consiglio del Principino, e che ognuno si allestisse all'imminente conflitto.
Marcia Ciaffare a drittura all'inimico, in tempo che Ciro, accompagnato da Istaspe, sta sfilando, senza essere discoperto, con un grosso di Cavalli, e dietro il bosco si mette in aguato.
Il Principe de' Medi attacca gli Assiri disperduti nella Pianura; esce Merodaco de' suoi alloggiamenti per sostenergli; e Astiage avanza con le rimanenti sue Truppe, nel mentre che Ciro si leva dalla sua imboscata, e si getta sugl'inimici. Con la sua voce egli anima i Medi; tutti con ardire gli tengon dietro; ei si cuopre col propio scudo, e penetra nel più folto degli Squadroni. Sparge egli dappertutto il terrore e il macello. Gli Assirj vedendosi d'ognintorno assaliti, spaventati, e in disordine si danno alla fuga.
Dopo il combattimento, Ciro, scorgendo la Campagna seminata di cadaveri, s'intenerì. Fu eguale la sua sollecitudine per gli Assiri feriti che per gli Medi. Diede tutti gli ordini necessarj per la lor guarigione: "Son eglino Uomini come noi -diceva egli- nell'instante d'essere vinti, non sono più nemici.

Da: I Viaggi di Ciro con un discorso sopra la mitologia del Signor Ramsay. Traduzione dal francese idioma di F. Zannino Marsecco. In Venezia Presso Sebastiano Coleti Con Licenza de' Superiori, e Privilegio. 1729, pag. 14-15.

 
 
 

Aldruda e Stamura

Aldruda e Stamura

I tre deputati giunti a Ferrara trovarono in Guglielmo di Marchesella e nella Contessa Aldruda di Bertinoro due caldi alleati e fervidissimi amici: il primo per assoldar truppe non si arrestò ai danari portatigli d'Ancona, ma impegnò tutto il suo patrimonio, usò di tutto il suo credito, fece debiti, e giunse a mettere assieme una buona armata di soldati Lombardi. Aldruda, salita a cavallo, radunò tutti i suoi vassalli, e comandandogli ella stessa, li riunì ai soldati di Marchesella. L'armata traverò Ravenna e giunse non senza ostacoli sulla montagna di Falcognara, da cui quasi come da teatro, si vede distante solo quattro miglia Ancona, il suo golfo ed il suo porto. Giunta la notte, Marchesella ordinò che ogni soldato si legasse all'elmo ed alla lancia un lume, quindi discese dalla montagna allungando le file il più che poteva.
Le sentinelle dei Tedeschi, ingannate dalla quantità dei lumi, credettero il nemico in numero triplo di quello che veramente era; lo stesso Cristiano, vile ed atterrito, diede il segno della ritirata. Marchesella e la stessa Aldruda, fatta di donna animoso capitano, gli spinsero contro i cavalli, minacciandolo colle spade nude ed animando i loro; gli Anconitani, visto dalle mura quello inaspettato soccorso, presero essi pure le armi.
Ma la battaglia non fu pure possibile, perché i Tedeschi, vedendo di non essere più dieci contro di uno, fuggirono a rompicollo.
Cristiano, arcivescovo di Magonza, morì poi d'orrido malore in terra di Toscana, cessando, come dice lo storico, di usare libidine quando morte gli troncò la vita.
Sull'albeggiare Aldruda e Marchesella entrati in Ancona, abbondantemente la città soccorsero d'ogni cosa. Non è a dirsi che feste facessero quei cittadini ai loro liberatori.
Marchesella partì poi per Costantinopoli dove l'imperatore Emmanuele Comneno gli diede ogni sorta di ricompense per avere così bene soccorsi i suoi diletti Anconitani.
La flotta Veneta non più spalleggiata dall'esercito di terra dovette ella pure sgombrare quel mare.
Aldruda di Bertinoro altamente commendando l'animo più che virile delle donne Anconitane, volle sempre in ogni festa seduta al suo fianco Stamura, la valorosa vedova, che incendiando le macchine dell'odiato nemico, a quel modo prolungato l'assedio, aveva fatto che Ancona si era potuta salvare.

Da "Stamura d'Ancona Cenni storici compilati da Felice Govean. Torino, 1848 Tipografia Baricco e Arnaldi Con permissione.", pagg. 18-20

 
 
 

A Giovanni Boccaccio (fine lettera di Petrarca)

Post n°4549 pubblicato il 16 Gennaio 2021 da valerio.sampieri
 

A Giovanni Boccaccio, seguito ultima lettera senile di Francesco Petrarca.

E venuto il dì che alle nozze predetto avea, nè avendosi della sposa sentore alcuno, grande ed universale si fece la meraviglia. Già era presso l'ora del pranzo, e tutti della sua casa vedevansi affaccendati, quando Gualtieri mosse per andare incontro alla sposa, accompagnato da nobile schiera di gentiluomini e di matrone. Nulla sapendo di quanto le dovesse avvenire, e dato sesto alle cose della sua famigliuola, tornava allora Griselda dal fonte con l'acqua che avevane attinta, e in gran fretta si avvicinava alla porta della sua casa per andar poi con altre femmine a veder la sposa di Gualtieri: la quale come Gualtieri che pensoso procedeva vide venire, chiamatala per nome, ciò è Griselda, domandò dove il padre fosse: al quale ella vergognosa, reverente rispose: «Signor mio, egli è in casa.» E quegli: «vanne, le disse, e fa che venga innanzi a me.» Visto adunque venire il vecchierello, ei lo prese per mano, e trattolo alcun poco in disparte, sotto voce parlando: «io so, gli disse, o Giannucole, che tu mi vuoi tutto il tuo bene, conosco la tua fedeltà, nè mi lascio aver dubbio che tutto tu voglia quel che a me piace. Pur di una cosa espressamente ora io ti richieggo: ed è se quale finora mi avesti Signore, tu voglia d'ora innanzi avermi genero, dandomi in moglie la figlia tua. All'inaspettata domanda cadde il vecchio dalle nuvole: indi parlando a stento: «a me, rispose, non si conviene volere o non volere altro da quello che tu voglia o non voglia: perocchè mio Signore sei tu.» – «Ebbene, riprese quegli, entriamo in casa noi soli: da lei voglio io sapere alcuna cosa in tua presenza.» E sì dicendo entrarono con meraviglia di tutto il popolo che si rimase in aspettazione di quanto fosse per avvenire: e trovarono la fanciulla intenta ad onorare con atti d'ossequio il padre suo, ed attonita per l'insolita visita di così grande personaggio. Alla quale rivolto Gualtieri, «piace,» disse, «a tuo padre, e piace a me che tu divenga mia moglie. Credo che ancora a te debba piacere il medesimo. Io però ti domando se, qualora ciò accada, tu sia disposta a compiacermi per modo che il tuo volere mai non si diparta dal mio; e a non mostrare giammai nè con atto, nè con parola la menoma repugnanza a quanto io intenda di fare.» Stordita dall'impensata proposta, «Signore, rispose quella, di tanto onore io mi conosco al tutto indegna: ma se questo è il tuo volere, il destino mio, io ti prometto che di mia voglia non che dire o fare, ma nè pensare saprò cosa alcuna che ti dispiaccia; nè tu potrai voler cosa, fosse pur la mia morte, che di mal animo io sopporti.» Basta così, rispose Gualtieri: e presala per mano, e menatala fuori la presentò a tutti dicendo: «abbiatela in reverenza, in onore, e come caro io vi sono, vi sia pur essa carissima.» E perchè nulla dell'antica sua condizione con lei venisse nella casa maritale, la fece spogliare ignuda, e tutta dal capo ai piedi calzare e rivestire di nuovo per mano delle matrone ivi convenute, che fattesi a lei d'intorno, e tutte a gara abbracciandola, salvandone il pudore, in poco d'ora la travestirono, e ricompostane bellamente in un subito l'arruffata chioma, l'adornaron di gemme, e sul capo le posero la corona, per guisa che così trasformata ed abbellita a mala pena il popolo la ravvisava per quella che fu. Allora Gualtieri con un anello di molto prezzo che all'uopo aveva portato, solennemente la disposò, e fattala montare sopra un bianco palafreno, onorevolmente da tutto il popolo accompagnata la si menò a casa, ove furono le nozze belle e grandi, e tutto quel giorno si passò in festa e in letizia.

E tanto alla povera sposa arrise il favore del cielo che dopo brevissimo tempo, non nella capanna di un pastore, ma nata ella pareva ed educata in una reggia, e a tutti in modo incredibile venuta cara, ed onoranda da quelli stessi che prima conosciuta l'avevano non pareva potersi credere la figliuola di Giannucole, tanto era avvenevole, tanto piacevole, tanto costumata e nelle parole e negli atti co' quali si era conciliato l'amore dell'universale. Ed in breve, non solamente nel suo marchesato, ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella sì fare, ch'ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare per modo che da molte parti uomini e donne accorrevano sol per vederla. Così Gualtieri con umile ma virtuoso e felice matrimonio alla sua domestica pace ed all'onore del nome suo si trovò aver provveduto, dicendolo tutti il più savio ed il più avveduto uomo che al mondo fosse: perciocchè niun altro ch'egli avrebbe mai potuto conoscere l'alta virtù di costei nascosa sotto i poveri panni e sotto l'abito villesco. Nè solamente alle faccende di casa poneva l'egregia donna le diligenti sue cure, ma secondo l'opportunità nelle pubbliche cose ancora si adoperava: e quando assente fosse il marito, le bisogne della patria amministrava, e le querele ed i piati de' gentiluomini giudicava e componeva con tal gravità di sentenze, con tanta maturità di consiglio e tanta equità di giudizio che tutti la predicavano scesa dal cielo per la prosperità dello Stato. Ella non fu guari con Gualtieri dimorata ch'ella ingravidò, e subito destò nei soggetti ansiosa aspettazione della prole: indi al tempo partorì una fanciulla bellissima, e quantunque quelli e il marito meglio gradito avrebbero che fosse un maschio, pure del parto desiderato fecero tutti gran festa. Aveva ella appena slattata quella figliuola quando a Gualtieri entrò nell'animo un nuovo pensiero, e lascio che i savi diffiniscano se più di lode o di meraviglia fu degno, ciò è di volere con lunga esperienza e con cose intollerabili provare la pazienza di lei. Fattala dunque chiamare, poichè furon soli nella camera, mostrandosi turbato in volto così le disse. «Poichè non credo che tu possa avere dimenticata l'antica tua condizione, tu sai, o Griselda, quale venisti in questa casa. A me veramente e fosti e sei tuttavia soprammodo carissima. Non così peraltro a questi miei nobili uomini, ai quali, spezialmente da che ti videro fatta madre, durissima cosa sembra l'aver per Signora una donna del volgo. Perchè volendo io con essi vivere in pace, mi veggo mal mio grado costretto a fare della figlia tua quello che vogliono essi ed io non vorrei. Ma non sarà che io lo faccia, senza l'intesa tua. Bramo dunque che tu lo consenta, a me porgendoti obbediente e sommessa siccome al tempo delle nostre sponsalizie mi promettesti.» Le quali parole udendo la donna, senza mutar viso o buon proponimento in alcun atto, rispose: «tu sei il mio Signore, ed io non meno che questa bambina siamo cosa tua. Fa dunque di noi quel che tu credi: nulla che piaccia a te può a me dispiacere: chè nulla io bramo di conservare, nulla temo di perdere fuor che te solo. Questo mi ho posto in cuore, nè tempo nè morte potrebbe diradicamelo. Tutto potrà mutarsi nel mondo, ma non mai questo mio proponimento.» Fu Gualtieri assai lieto di tal risposta, ma dissimulando la sua contentezza, atteggiato a mestizia partissi, e poco stante in formato di quello che far dovesse un suo famigliare a lui fidatissimo, che servir lo soleva nei più gravi negozi, lo mandò alla moglie. Alla quale di nottetempo fattosi innanzi con viso dolente questo disse: «Piacciavi, o donna, avermi per iscusato, nè mi vogliate accagionare di quello che sono costretto a fare. Siccome savia, voi bene intendete che importi l'avere un padrone, e comechè non ne abbiate avuta esperienza, conoscete quanto dura necessità sia quella dell'obbedire. Il mio Signore mi ha comandato che io prenda questa vostra figliuola, e che io... E non disse di più, mostrando con quella reticenza di volerle tener celata la crudeltà del ricevuto comando. Sospetta era la fama, sospetto il volto di quell'uomo, sospetta l'ora, tutto sospetto: e benchè da tali cose avvertita ella comprendesse essere imposto a costui che le uccidesse la figlia, non mise una lagrima, non dette un sospir: cosa, non che d'una madre, ma pur d'una balia quasi incredibile: e presa la bambina dalla culla, e baciatala e benedettala col segno della santa croce, senza mutar viso, in braccio la pose al famigliare, e dissegli: «Tieni, fa compiutamente quello che il tuo e mio Signore ti ha imposto, ma non la lasciare per modo che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse.» Il famigliare presa la fanciulla, e fatto a Gualtieri sentire ciò che detto aveva alla donna, e questa risposto, si sentì quegli grandemente commuovere da paterna pietà. Ma non per questo mutò il suo rigido proposto, e comandò a colui che messa la bambina ben avvolta di panni in una cesta sopra un mansueto cavallo, con tutta diligenza la portasse a Bologna ad una sua sorella che ivi avea maritata col conte da Panago, pregandola che con materno amore l'allevasse e costumasse senza mai dire ad anima viva cui figliuola si fosse. E quegli andò e così fece com'eragli imposto.

Gualtieri intanto soventi volte attentamente osservava il volto e le parole della sua donna, nè mai gli venne fatto di scorgere alcun indizio ch'ella si fosse da quello che era menomamente mutata. Attenta sempre e diligente ad un modo: ossequiosa e tenera sempre: non nube di tristezza che ne aombrasse il volto; non parola, non cenno che richiamasse mai la memoria della perduta figliuola. Sopravvenne indi a quattro anni che la donna da capo ingravidò, ed al tempo debito partorì un bellissimo figliuolo maschio con immensa gioia del padre e di tutti gli amici. Ma come appena dopo due anni fu questo pure spoppato, tornarono le solite fisime a Gualtieri, che chiamata la moglie, così le disse: «Donna, tu sai come questi miei abbiano sempre guardato di mal'occhio il nostro matrimonio, spezialmente da che videro che ne nascevano figliuoli: ma posciachè questo figlio maschio facesti, per niuna guisa con loro vivere son potuto: e tuttodì m'avviene di sentir che borbottano: morto Gualtieri sarà nostro Signore un nipote di Giannucole, e a cotal padrone dovrà obbedire la nobile patria nostra. In così fatta sentenza si va parlando dal popolo; di che io mi dotto, se voglio vivere in pace e senza paure, che non mi convenga di questo fanciullo far quello che feci della sorella. Ma volli prima fartene avvisata perchè non ti noccia improvviso ed inaspettato il dolore.» E quella a lui: «Ti dissi già e ti ripeto che nulla io posso volere o disvolere da quello in fuori che si vuole o si disvuole da te. Nei figli altro di mio non v'ha che il travaglio: e tu come di me sei padrone di loro. Serviti dunque del tuo diritto, nè ti caglia del mio consentimento, chè come de' panni miei, così d'ogni mio volere, d'ogni mio affetto io mi dispogliai entrandoti in casa, e mi vestii de' tuoi. In tutto dunque e per tutto quel che tu vuoi ed io lo voglio. Se potessi la tua volontà circa le cose future divinando conoscere, infin da ora saprei conformare a quella i miei desiderii: ma poichè prevenirli non posso, m'è dolce seguir ciecamente i tuoi comandi. Fa che io m'avvegga da te bramarsi che io muoia, e di buon grado io morrò: chè a tutto ed anche alla morte sovrasta il mio amore per te.» Ammirato di tanta costanza d'animo partì Gualtieri turbato nel volto, e dopo non molti dì, in quella medesima maniera che mandato avea per la figliuola, mandò alla donna il medesimo famigliare, il quale, fatte molte scuse sulla necessità dell'obbedire, e chiesto perdono per quello che di male le avesse fatto o stesse per farle, come uomo che si accinge a mal'opra, la dimandò del figliuolo. Ed ella con fermo aspetto, qual che si fosse il cruccio dell'animo, tolse dalla culla il bambino bello così che non della madre sola, ma era l'amore di tutti: segnatolo in croce, lo benedisse come fatto avea della figlia, e poichè l'ebbe fissamente guardato alcun poco, baciatolo e ribaciatolo senza dar segno di dolore, consegnollo a colui, e: «Vanne, gli disse, adempi il comando che ti fu dato. Di questo solo ti prego, che se tu possa, piacciati risparmiare alle tenere membra di questo bel corpicciuolo lo strazio che ne farebbero gli uccelli e le fiere.» Quando ebbe ciò udito Gualtieri, rimase sempre più stupefatto della sua donna, e se non fosse che carnalissima de' suoi figli la conosceva, avrebbe quasi sospettato che una sì grande fermezza d'animo da naturale ferità in lei procedesse. Ma il fatto era che amante di tutti i suoi, sopra tutti ella amava il marito. E fu quel bambino portato anch'esso a Bologna com'era stato della sorella.

Pareva, per vero dire, che di sì fatte prove di amore e di fede chiamar si dovesse contento l'austero marito: ma v'ha di certi cotali che quando una volta incominciarono, non dicon mai basta, nè mai si rimuovono dal loro proposto. Perchè senza tôrre mai gli occhi dalla persona, egli scrutando cercava se la sua donna si fosse rispetto a lui in qualche cosa mutata: nè d'altro gli venne fatto accorgersi che del continuo crescere in lei di fede e di amore, per lo quale non due ma una sola parevasi esser l'anima loro, e quell'una non comune ad entrambi, ma sola del marito: perocchè la donna, come già dissi, era ferma nel proposito di non volere nè disvolere cosa veruna.

Cominciavasi intanto nel popolo a mormorare di Gualtieri, e lo accagionavano d'inumana crudeltà perchè pentito e vergognoso di un basso matrimonio avesse barbaramente voluto la morte de' figli che n'erano nati. Conciossiachè nè alcuno aveva più visti i due fanciulli, nè saputo ove essi si fossero, e il nome di lui già venerato e caro all'universale, fatto era segno al vitupero e all'esecrazione di molti. Ma non per questo piegavasi a più mite consiglio quell'animo fiero, e spinto dal sospetto e dalla severa sua natura, piacevasi di continuare ne' suoi crudeli esperimenti.

Erano già dodici anni passati dalla natività della fanciulla, ed egli mandò suoi messi a Roma, che di colà tornando portarono finte lettere apostoliche, dalle quali pareva e si sparse fama che il Papa aveva con lui dispensato, che per suo bene e per contentare i sudditi suoi egli potesse prendere un'altra donna e lasciare Griselda. Nè fu malagevole il darla a bere a quegli alpestri e rozzi villani. Di questo giunse notizia anche a Griselda, nè può dubitarsi che forte in se medesima se ne dolesse; ma ferma nel proposto che fatto aveva, con fermo viso si dispose ad aspettare quello che deciso avrebbe colui al quale se stessa e le sue sorti aveva commesse.

Aveva intanto Gualtieri mandato a Bologna al parente suo pregandol che gli piacesse di dover a lui ricondurre i suoi figliuoli, e sparsa aveva intanto per ogni luogo la voce che la fanciulla veniva per essere sua mogliera. E il gentiluomo, fatto secondo che il Marchese pregavelo, con la fanciulla già nubile, bella quant'altra mai e riccamente adorna, col fratello di lei che già aveva sette anni, e con nobilissima compagnia nel giorno postogli entro in cammino. In questa Gualtieri, a colmare con prova novella la misura del dolore e della vergogna nella sua donna, fattalasi venire d'innanzi in presenza di molti le disse: «Io m'era contento di averti preso in moglie, perchè non alla origine tua, ma solamente a' tuoi costumi ebbi riguardo. Ora però mi avveggo che grande Stato è servitù grande. Quello che liberamente potrebbe fare ogni lavoratore di terra, non posso io. Mi costringono i miei, e il Papa mi dispensa a tôrre un'altra moglie, la quale già viaggia a questa volta, e fra breve sarà tra noi. Fa cuore adunque, e cedendo il luogo tuo ad un'altra, disponti a tornartene colla dote che mi recasti, alla tua casa paterna: Tutto quaggiù si muta, nè v'ha sorte che duri costante in terra.» A cui Griselda rispose: «Signor mio; io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra nobiltà in alcun modo non convenirsi, e sempre degna d'esservi serva, non moglie mi reputai. Dio m'è testimonio che in questa casa, ove voi come signora m'introduceste, io mi sono sempre ancella reputata. Quello che io stata sono con voi, da voi e da Dio il riconosco, e lui, e voi ne ringrazio. Del resto eccomi pronta a ritornare tranquilla nella casa del padre mio, e dove vissi fanciulla invecchiare e morire, in condizione di vedova, ma lieta sempre e superba di essere stata moglie a tant'uomo. Cedo di buon grado il mio posto alla sposa novella, e voglia Iddio che felice essa vi renda. Rassegnata io mi parto di qui ove vostra mercè lietissima vissi. Ma quanto alla dote che io ci recai, e che voi mi comandate di riportare, io ben v'intendo, o Signore: perciocchè uscito non m'è di mente che ignuda m'aveste; sulla soglia vostra deposte le vesti mie, mi copriron le vostre: perchè non altro in dote io vi recai che la mia fede, e la mia nudità. Ecco dunque mi spoglio le vostre vesti, e vi rendo l'anello col quale mi disposaste. Le altre anella, le veste, e gli ornamenti onde voi mi faceste a tutti invidiata, li troverete nella camera vostra. E se voi giudicate onesto che quel ventre nel quale io portai figliuoli da voi generati, sia da tutti veduto, come nuda uscii dalla casa del padre mio, nuda a tornarvi io sono parata. Ma in premio della verginità che io ci recai, e non ne la porto, io vi prego che almeno una sola camicia sopra la dote mia vi piaccia che io portar ne possa di quelle che ho usato finora in casa vostra, e che coprirono il ventre della vostra moglie.» Gualtieri che maggior voglia di piagnere aveva che d'altro, stando pur col viso duro ma con tremula voce, «e tu, le disse, una camicia ne porta.» Quindi non potendo frenare le lagrime, andonne altrove. La donna alla presenza di tutti spogliatasi ogni altra veste, si rimase in camicia, e scalza e senza cosa alcuna in capo, accomandatili a Dio, gli uscì di casa, ed al padre se ne tornò tacita essa e ad occhi asciutti, con lagrime e con pianto di tutti coloro che la videro, molti de' quali lamentando ed accusando la volubilità della fortuna orrevolmente la vollero accompagnare. Giannucole che credere non avea mai potuto questo esser vero che Gualtieri, uomo nobile e superbo, la figliuola dovesse tener moglie, ogni dì questo caso aspettando in un cantuccio della piccola casa, guardati le avea i poveri panni che spogliati s'avea quella mattina che Gualtieri la sposò. Accortosi dunque non per alcuna voce di lei, ma per le voci di quelli che la seguivano, del suo venire, a lei si fece incontro in sulla soglia, e la sua nudità di quelle antiche vesti ricoperse. Rimase ella col padre alquanti giorni dando prova di singolare costanza e fermezza dell'animo. Mai non si vide in lei segno di cresciuta mestizia: nè parve serbasse memoria alcuna della grandezza di stato a cui era salita: perocchè in mezzo alle dovizie erasi sempre mantenuta dello spirito povera ed umile.

E già sparsa la fama delle novelle nozze, il Conte di Panago aveva fatto sapere a Gualtieri il giorno del suo arrivo a Saluzzo: quando questi a sè chiamata Griselda, che prontissima vennegli innanzi, le disse: «Io bramo che la fanciulla la quale qui deve domani giungere in sull'ora del desinare, sia ricevuta col debito onore, e così pure i nobili del suo seguito, e quelli che ho fatto io invitare, per guisa che a ciascuno si assegni il posto, e si prestino le onoranze che gli convengono. Ora tu sai che io non ho donne in casa acconcie a questo: e però tu che meglio di ogni altra persona conosci gli usi di casa mia, benchè ti trovi addosso coteste povere vesti, ti prenderai la cura di accogliere e disporre i convitati nei posti a ciascuno convenienti.» A cui la donna: «Non per mio debito soltanto, ma per piacer mio, qualunque cosa conosca tornarti a grado io farò sempre. Nè mai sarà che tu vegga in me venir meno questo proposto finchè mi rimanga fiato di vita.» E ciò detto cominciò a spazzare le camere e a rassettarle, ad apparecchiare le mense, a far porre capoletti e pancali per le sale, e ad ogni cosa, come se una piccola fanticella della casa fosse, porre le mani. Giunse il Conte sull'ora terza del dì vegnente, e tutti ammiravano la bellezza e le cortesi maniere della fanciulla e del suo fratellino. E molti dicevano che Gualtieri aveva fatto buon cambio: perchè più nobile e più giovane era la sposa, e con lei ne veniva un così grazioso cognato. Messe già le tavole, Griselda, che ad apparecchiare ogni cosa si era con sollecitudine adoperata, non punto abbattuta da quello che avveniva, nè vergognosa delle rozze e consunte sue vestimenta, in quella che la sposa entrava nella sala, con volto sereno le si fece innanzi, ed umilmente piegato a terra il ginocchio: «Ben venga, disse, la donna mia.» Cortesemente quindi volgendosi alla numerosa comitiva de' convitati, fatta con tutti affabile e benigna, tutti li accolse con gentili parole, e così destra si porse nell'ordinare la vastissima mensa, che tutti e spezialmente i forestieri non sapevano persuadersi come tanta nobiltà di maniere, e tanta avvedutezza si accogliessero sotto quelle spoglie volgari. Ed ella più d'ogni altro non potersi saziare delle lodi della sposa e del fratello, nè ristarsi dall'esaltare i pregi e l'avvenenza dell'una e dell'altro.

Or quando si furono sul punto di assettarsi, Gualtieri fattalasi venire in presenza di ogni uomo, in tuono quasi di beffa le disse: «Che ti par della nostra sposa? La trovi tu bella ed onesta?» «Signor mio», rispose Griselda, «a me ne par molto bene: e poichè sembrami che più bella e più savia trovare non la potreste, così non dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere il più consolato signor del mondo. Ma quanto posso vi prego che quelle punture le quali all'altra che vostra fu, già deste, non diate a questa, chè appena, ch'io creda, ch'ella le potesse sostenere, sì perchè piu giovane e, sì ancora perchè in delicatezze è allevata.» Ammirato della costanza di quella donna tante volte e sì crudelmente offesa, e mosso a compassione della sorte a lei indegnamente procacciata, parendogli tempo alfine di doverla trarre dall'amaritudine: «Griselda, le disse: abbastanza ho preso fin qui esperimento della tua fede: nè credo sia sotto il cielo alcun uomo cui più che a me abbia dato una donna prove di amore.» E lei che al suono di queste parole sorpresa rimase, e parve come destarsi da un sonno inquieto, stretta teneramente fra le sue braccia: «tu sei,» le disse, «tu sola la moglie mia: altra non ebbi, nè m'avrò mai. Questa che mia sposa tu credi, e il fratel suo, sono tuoi figli, son figli miei. Ecco ad un'ora ti rendo ciò che in diversi tempi ti tolsi. Conoscano quelli i quali me reputarono crudele, iniquo e bestiale, che ciò che io faceva ad antiveduto fine ordinava: e volli non condannare la moglie, ma farne prova, nè uccidere, ma tener nascosti i figliuoli.»

Parve Griselda tramortir per la gioia, e per lo eccesso della materna pietà perdere il senno. Poi d'allegrezza piangendo si slanciò fra le braccia de' figliuoli baciandoli, ribaciandoli, e bagnandoli delle sue lagrime. Le donne lietissime le furon tutte d'attorno, e trattile i suoi pannicelli, d'una nobile roba delle sue la rivestirono in mezzo ai lieti augurii e agli applausi de' circostanti, che vociando e piangendo per gioia celebrarono quel giorno più memorando e più lieto che stato non fosse il dì delle nozze. Vissero poi molti anni in piena pace e concordia, e Gualtieri tolto dal suo lavorio Giannucole, che fino a quel dì aveva mostrato di tenere a vile, chiamollo ad abitare nelle sue case, e come suocero lo pose in istato: maritò altamente la sua figlia, e il figlio lieto di moglie e di prole lasciò erede de' suoi dominii.

Ecco la storia che io mi piacqui a ritessere in altra lingua perchè non le matrone dell'età nostra ne imparino ad imitare la pazienza di questa moglie che a me sembra non imitabile, ma perchè gli uomini avvenendosi a leggerla, si porgano nella fortezza imitatori almeno di una donna, e quello che colei fece pel marito, facciano essi in servigio di Domineddio; il quale sebbene, al dir dell'apostolo Giacomo non sia tentatore di cose malvagie, e mai non tenti nessuno, pure soventi volte ci mette alla prova, e consente che siamo travagliati da molti e gravi flagelli, non per conoscere quali sieno le forze dell'animo nostro, che a lui notissime erano già prima che ci creasse, ma perchè a noi medesimi dal fatto nostro la nostra fragilità si paia evidente e manifesta. A buon diritto, secondo che io credo, meriterebbe la lode di uomo costante chiunque in servigio di Dio sopportasse senza lamento quanto questa rozza villanella per amore del suo terreno consorte sostenne.

 
 
 

A Giovanni Boccaccio,lettera di Francesco Petrarca

Post n°4548 pubblicato il 15 Gennaio 2021 da valerio.sampieri
 

A Giovanni Boccaccio

Gli manda una novella del Decamerone da sè tradotta in latino. Dice quanto ad alcuni essa piacesse. Si lagna di coloro che intercettavano le sue lettera, e fa proponimento di non scriverne più.

Mi venne, non so come nè da chi recato, alle mani il libro che negli anni tuoi giovanili, siccome io credo, da te fu dettato nella nostra lingua materna. Mentirei se dicessi di averlo letto: chè la grossezza del volume, ed il vederlo scritto in prosa e ad uso del popolo mi furon cagione a non distrarmi per esso dalle occupazioni più gravi, e a non consumare quel pochissimo di tempo che mi rimane, torbido anch'esso ed inquieto, siccome sai, per la guerra che ci freme d'intorno. Imperocchè, sebbene io non abbia con essa a partir nulla, non posso, in mezzo alle perturbazioni delle pubbliche cose, mantenermi tranquillo. Sai dunque quello che io feci? Lo scorsi rapidamente coll'occhio, qui e qua soffermandomi a guisa di frettoloso viaggiatore che guarda insieme e cammina: e mi avvidi da qualche tratto che l'opera tua era stata lacerata dai denti di cani mordaci, ma egregiamente da te difesa colla voce e col bastone. Nè punto ne feci le meraviglie: perocchè conosco le forze dell'ingegno tuo, e so per prova qual sia cotesta razza di gente impronta ed ignava, che vitupera quello fatto da altri che fare essa stessa o non vuole o non può; non buona da nulla in tutto il resto, ed in questa bisogna soltanto dotta ed arguta. Così scorrendo il tuo libro assai me ne piacqui: e se talvolta mi offese alcun che di troppo libero e di lascivo, pensai che potevano servirti di scusa l'età in cui eri quando lo scrivesti, la lingua, lo stile, la leggerezza dell'argomento, e sopra tutto la qualità de' lettori a cui era destinato. Imperocchè monta assai sapere per chi si scrive, e la diversità de' costumi in chi legge fa ragione della diversità dello stile. Fra molte baie e novelle di lieve conto, mi avvenni in alcune e gravi e pie: delle quali peraltro darti non posso un preciso giudizio, perchè nessuna ne presi in seria considerazione. Ma come avviene per l'ordinario a chi esamina in fretta, alquanto più mi fermai al principio e alla fine del libro: e vidi in quello descritta l'orrenda pestilenza, che con esempio al mondo inaudito e nuovo fece piena l'età nostra di lutto e di miserie, e parvemi veramente singolare il magistero con cui tu dipingi e deplori quella solenne sventura della patria nostra. Lessi poi sulla fine l'ultima delle tue storie che mi sembrò diversa molto da tutte le altre: e tanto me ne piacqui e ne presi diletto, che in mezzo alle mille cure onde son fatto quasi immemore di me medesimo, volli impararla a memoria e fra me stesso soventi volte con molto piacere la ripeteva; ed ebbi in mente di narrarla agli amici, la prima volta che cadesse in acconcio nelle nostre conversazioni. Poco tempo andò che veramente ciò feci, e mi avvidi come a tutti l'udirla recasse diletto: ond'è che mi venne in pensiero poterne grato tornare il racconto anche a quelli che non intendono il nostro volgare, come ricordavami di averla io stesso con gran piacere udita narrare molti anni indietro, e come tanto era piaciuta a te stesso che degna la credesti non solamente di farne materia al tuo stile, ma e di collocarla al fine dell'opera, ove per consiglio de' retori deve porsi sempre il migliore. Perchè un giorno, occupata secondo il solito sentendo la mente da mille diversi pensieri, sdegnosamente tutti da me li scacciai, e dato di piglio alla penna, cominciai a ritessere la medesima storia da te narrata, nè mi lasciai dubitare che ti dovesse piacere di avermi per traduttore delle tue cose, quale non mi farei certamente per quelle di qualunque altro si fosse. A questo mi addusse l'amor che ti porto, e la bellezza della tua novella. Ma nel farlo m'attenni a quel precetto di Orazio:

    Te troppo fido interprete non stringa
    Dura legge a tradur verbo per verbo.

La storia è tua: ma le parole son mie: anzi qui e qua talvolta qualche parola mi venne o cambiata od aggiunta; e stimai che ciò mi fosse da te non che perdonato, apposto a merito. Or questa mia traduzione da molti lodata e richiesta io feci ragione non doversi ad altri dedicare che a te, perocchè ella è cosa tua. Se col mutarla di veste io l'abbia guasta o adornata, starà in te il definirlo. Onde nacque essa torna: noto ad essa è il viaggio, nota la casa, noto il giudice, e come tu, così tutti che la leggano già sanno non a me, ma a te solo doversi chieder ragione di cosa ch'è tua. A chiunque poi mi domandasse se la cosa sia vera, ciò è se questo scritto sia favola o storia, risponderei come Crispo: chiedetene conto all'autore, che è il mio Giovanni. Ciò premesso, incomincio.

Altissimo fra i gioghi dell Appennino sorge nell'Italia verso ponente e il capo nasconde fra le nubi il Monviso, molto già per la sua mole, ma sopra tutto famoso per la scaturigine del Po che, sgorgandogli da un fianco, cammina per poco verso levante, e via facendo così mirabilmente in breve spazio cresce e s'ingrossa, che non solo tra i fiumi più grandi si annovera, ma da Virgilio è chiamato il re de' fiumi. Rapido e gonfio interseca prima la Liguria, e traversando poscia l'Emilia, la Flaminia e la Venezia, per molte e larghe bocche, mette foce nell'Adriatico. Delle quali terre la prima che nominai, distesa in vaste pianure, cui tagliano per lo mezzo o circondano monti e e colline, grata si porge ed aprica ai riguardanti, e dalle alture che le sovrastano chiamata Piemonte, in sè contiene borghi e città considerevoli. Giace fra le altre alle radici del Monviso la città di Saluzzo, sparsa di molte ville e castella, e sottoposta al governo di certi nobilissimi Marchesi, de' quali il primo e il più celebre si vuol che fosse un che chiamaron Gualtieri, capo della famiglia e di tutto il marchesato. Era costui bello della persona, giovane degli anni, nobile di maniere come di sangue, in una parola sott'ogni riguardo commendevolissimo, ma della presente sua sorte contento per modo, che del futuro non si dava il menomo pensiero. In niun'altra cosa pertanto il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, e quello che agli uomini suoi più dispiaceva, del prender moglie non voleva sentire nemmen parola. Portaronlo essi lungo tempo in pace: alla perfine si risolsero di presentarsi a lui in comitiva, ed un di loro che per autorità o per facondia e per familiarità con esso lui agli altri soprastava, così prese a parlargli: «Dalla tua cortesia, ottimo Marchese, procede in noi questo ardire, per lo quale secondo il nostro bisogno talvolta da solo a solo ti favelliamo; ed ora io fattomi interprete del comune desiderio a te mi volgo in nome di tutti, non per altro titolo questo carico assumendomi, che per le chiare prove onde mostrasti avermi nella tua grazia. Dico dunque che come tutto in te sempre ci piacque, e ci piace per modo che a singolare ventura ci reputiamo l'averti a Signore, così di tutti quanti sono i popoli a noi vicini saremmo noi veramente i più felici, se benignamente accogliendo la nostra preghiera tu volessi pensare una volta ad ammogliarti, e a fare sacrificio della tua libertà stringendoti a legittimo connubio. Noi ti preghiamo pertanto che ti piaccia ciò fare e farlo presto: perocchè il tempo vola, e quantunque giovanissimo tu sia, tacita e presta si avanza la vecchiaia; nè al fiore dell'età porta la morte rispetto alcuno. Non v'ha privilegio onde alcuno si possa a lei sottrarre: dobbiamo tutti morire: e come questo è certo, così del tempo in cui debba accadere siamo tutti ignari. Porgi dunque benevolo l'orecchio ai voti di tali cui mai non sarà grave obbedire a qual si sia tuo comando. E del trovarti la moglie a noi lascia la cura, perocchè tale sapremo portela innanzi, e di tal padre e madre discesa che degna sia di te, e buona speranza se ne possa avere, e tu contentartene molto. Deh! tu ci libera dal timore che per nostra sventura ci avessi a mancare senza lasciarci alcuno, che succedendo a te, sia l'invocato nostro Signore». Commosso da quelle parole il Marchese rispose: «Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto avea disposto di non far mai, considerando quanto sia dolce quella libertà che rarissima si trova nel matrimonio. Pur di buon grado al volere de' miei soggetti assoggettare io mi voglio, e me stesso commettere alla fede e alla prudenza vostra. Ma della donna mia voglio io medesimo essere il trovatore, e da questa cura prosciogliendovi, in me tutta l'assumo. Mal vi credete ai costumi dei padri e delle madri potersi le figliuole conoscere, perocchè sono spesse volte le figliuole ai padri ed alle madri dissimili. Quanto di buono è negli uomini procede solo da Dio. A lui pertanto affidandomi, solo dalla bontà di lui spero il mio meglio, in questa bisogna del matrimonio, ed egli mi farà trovare la donna più acconcia alla mia quiete ed alla mia salute. Poichè dunque a voi così piace, ed io voglio essere contento, in buona fede vi prometto di prender moglie, e di prenderla presto. Ma voi dal canto vostro a me dovete promettere che cui che io mi tolga sia da voi come donna onorata, nè sarà fra voi chi voglia mai sindacarmi per la mia scelta. A voi piacque me, che libero sono, annodare in queste catene: spetti a me la scelta del nodo, e qual che sia la donna che io meni, abbiatela in conto di vostra Signora, come se fosse figliuola di un principe romano.» Lieti ed unanimi promisero tutti com'ei voleva, e non vedendo l'ora che giungesse il dì delle nozze, aspettarono con ansietà che loro il Signore lo annunziasse, disponendosi a festeggiarlo con grandi apparecchi; e presero commiato da lui, il quale a' suoi domestici commise che preparassero l'occorrente per un dato giorno stabilito alle sue sponsalizie.

Vicina al suo palazzo era una villa di pochi e poveri abitanti, de' quali il più povero fra tutti ebbe nome Giannucole. E poichè talvolta sugli umili tuguri discende la grazia celeste, aveva quegli sortita una sola figliuola per nome Griselda, bella assai della persona, ma d'indole così buona, di costumi sì fattamente illibata che non poteva desiderarsi di più. Avvezza a povero cibo ed allevata nella miseria, mai non conobbe delicature, mollezza, piaceri, e nel verginale suo petto accoglievasi un'anima al tutto virile. Tutta amore e tenerezza verso il vecchio suo padre, menava a pascere il suo piccolo gregge, traendo intanto il filo dalla rocca, e sulla sera, tornata a casa, apparecchiava la mensa d'erbe e di frutta convenienti alla povertà del suo stato, indi rifaceva il duro suo letticciuolo, e in ogni cosa porgevasi modello e specchio di pietà e di obbedienza filiale. Presso quella villa soventi volte passando Gualtieri, non per giovanile baldanza, ma per impulso di senile prudenza aveva sulla fanciulla fissato lo sguardo, e con sottilissima perspicacia divinando quella virtù superiore all'età ed al sesso che agli occhi del volgo dalla umiltà della condizione tenevasi nascosta, contro quanto per lo innanzi aveva pensato, si risolse non solamente a prender moglie, ma a prender non altra che costei. Avvicinavasi il giorno posto alle nozze: ma quale si fosse, e d'onde venirgli dovesse la sposa, nessuno sapeva. Apparecchiava egli intanto cinture, anella e corone e quant'altro a novella sposa si richiedea; ed oltre a questo fece tagliare e far più robe belle e ricche al dosso di una giovane, quale della persona gli pareva la giovinetta cui avea proposto di sposarsi.

(segue)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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