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A Giovanni Boccaccio,lettera di Francesco Petrarca

Post n°4548 pubblicato il 15 Gennaio 2021 da valerio.sampieri
 

A Giovanni Boccaccio

Gli manda una novella del Decamerone da sè tradotta in latino. Dice quanto ad alcuni essa piacesse. Si lagna di coloro che intercettavano le sue lettera, e fa proponimento di non scriverne più.

Mi venne, non so come nè da chi recato, alle mani il libro che negli anni tuoi giovanili, siccome io credo, da te fu dettato nella nostra lingua materna. Mentirei se dicessi di averlo letto: chè la grossezza del volume, ed il vederlo scritto in prosa e ad uso del popolo mi furon cagione a non distrarmi per esso dalle occupazioni più gravi, e a non consumare quel pochissimo di tempo che mi rimane, torbido anch'esso ed inquieto, siccome sai, per la guerra che ci freme d'intorno. Imperocchè, sebbene io non abbia con essa a partir nulla, non posso, in mezzo alle perturbazioni delle pubbliche cose, mantenermi tranquillo. Sai dunque quello che io feci? Lo scorsi rapidamente coll'occhio, qui e qua soffermandomi a guisa di frettoloso viaggiatore che guarda insieme e cammina: e mi avvidi da qualche tratto che l'opera tua era stata lacerata dai denti di cani mordaci, ma egregiamente da te difesa colla voce e col bastone. Nè punto ne feci le meraviglie: perocchè conosco le forze dell'ingegno tuo, e so per prova qual sia cotesta razza di gente impronta ed ignava, che vitupera quello fatto da altri che fare essa stessa o non vuole o non può; non buona da nulla in tutto il resto, ed in questa bisogna soltanto dotta ed arguta. Così scorrendo il tuo libro assai me ne piacqui: e se talvolta mi offese alcun che di troppo libero e di lascivo, pensai che potevano servirti di scusa l'età in cui eri quando lo scrivesti, la lingua, lo stile, la leggerezza dell'argomento, e sopra tutto la qualità de' lettori a cui era destinato. Imperocchè monta assai sapere per chi si scrive, e la diversità de' costumi in chi legge fa ragione della diversità dello stile. Fra molte baie e novelle di lieve conto, mi avvenni in alcune e gravi e pie: delle quali peraltro darti non posso un preciso giudizio, perchè nessuna ne presi in seria considerazione. Ma come avviene per l'ordinario a chi esamina in fretta, alquanto più mi fermai al principio e alla fine del libro: e vidi in quello descritta l'orrenda pestilenza, che con esempio al mondo inaudito e nuovo fece piena l'età nostra di lutto e di miserie, e parvemi veramente singolare il magistero con cui tu dipingi e deplori quella solenne sventura della patria nostra. Lessi poi sulla fine l'ultima delle tue storie che mi sembrò diversa molto da tutte le altre: e tanto me ne piacqui e ne presi diletto, che in mezzo alle mille cure onde son fatto quasi immemore di me medesimo, volli impararla a memoria e fra me stesso soventi volte con molto piacere la ripeteva; ed ebbi in mente di narrarla agli amici, la prima volta che cadesse in acconcio nelle nostre conversazioni. Poco tempo andò che veramente ciò feci, e mi avvidi come a tutti l'udirla recasse diletto: ond'è che mi venne in pensiero poterne grato tornare il racconto anche a quelli che non intendono il nostro volgare, come ricordavami di averla io stesso con gran piacere udita narrare molti anni indietro, e come tanto era piaciuta a te stesso che degna la credesti non solamente di farne materia al tuo stile, ma e di collocarla al fine dell'opera, ove per consiglio de' retori deve porsi sempre il migliore. Perchè un giorno, occupata secondo il solito sentendo la mente da mille diversi pensieri, sdegnosamente tutti da me li scacciai, e dato di piglio alla penna, cominciai a ritessere la medesima storia da te narrata, nè mi lasciai dubitare che ti dovesse piacere di avermi per traduttore delle tue cose, quale non mi farei certamente per quelle di qualunque altro si fosse. A questo mi addusse l'amor che ti porto, e la bellezza della tua novella. Ma nel farlo m'attenni a quel precetto di Orazio:

    Te troppo fido interprete non stringa
    Dura legge a tradur verbo per verbo.

La storia è tua: ma le parole son mie: anzi qui e qua talvolta qualche parola mi venne o cambiata od aggiunta; e stimai che ciò mi fosse da te non che perdonato, apposto a merito. Or questa mia traduzione da molti lodata e richiesta io feci ragione non doversi ad altri dedicare che a te, perocchè ella è cosa tua. Se col mutarla di veste io l'abbia guasta o adornata, starà in te il definirlo. Onde nacque essa torna: noto ad essa è il viaggio, nota la casa, noto il giudice, e come tu, così tutti che la leggano già sanno non a me, ma a te solo doversi chieder ragione di cosa ch'è tua. A chiunque poi mi domandasse se la cosa sia vera, ciò è se questo scritto sia favola o storia, risponderei come Crispo: chiedetene conto all'autore, che è il mio Giovanni. Ciò premesso, incomincio.

Altissimo fra i gioghi dell Appennino sorge nell'Italia verso ponente e il capo nasconde fra le nubi il Monviso, molto già per la sua mole, ma sopra tutto famoso per la scaturigine del Po che, sgorgandogli da un fianco, cammina per poco verso levante, e via facendo così mirabilmente in breve spazio cresce e s'ingrossa, che non solo tra i fiumi più grandi si annovera, ma da Virgilio è chiamato il re de' fiumi. Rapido e gonfio interseca prima la Liguria, e traversando poscia l'Emilia, la Flaminia e la Venezia, per molte e larghe bocche, mette foce nell'Adriatico. Delle quali terre la prima che nominai, distesa in vaste pianure, cui tagliano per lo mezzo o circondano monti e e colline, grata si porge ed aprica ai riguardanti, e dalle alture che le sovrastano chiamata Piemonte, in sè contiene borghi e città considerevoli. Giace fra le altre alle radici del Monviso la città di Saluzzo, sparsa di molte ville e castella, e sottoposta al governo di certi nobilissimi Marchesi, de' quali il primo e il più celebre si vuol che fosse un che chiamaron Gualtieri, capo della famiglia e di tutto il marchesato. Era costui bello della persona, giovane degli anni, nobile di maniere come di sangue, in una parola sott'ogni riguardo commendevolissimo, ma della presente sua sorte contento per modo, che del futuro non si dava il menomo pensiero. In niun'altra cosa pertanto il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, e quello che agli uomini suoi più dispiaceva, del prender moglie non voleva sentire nemmen parola. Portaronlo essi lungo tempo in pace: alla perfine si risolsero di presentarsi a lui in comitiva, ed un di loro che per autorità o per facondia e per familiarità con esso lui agli altri soprastava, così prese a parlargli: «Dalla tua cortesia, ottimo Marchese, procede in noi questo ardire, per lo quale secondo il nostro bisogno talvolta da solo a solo ti favelliamo; ed ora io fattomi interprete del comune desiderio a te mi volgo in nome di tutti, non per altro titolo questo carico assumendomi, che per le chiare prove onde mostrasti avermi nella tua grazia. Dico dunque che come tutto in te sempre ci piacque, e ci piace per modo che a singolare ventura ci reputiamo l'averti a Signore, così di tutti quanti sono i popoli a noi vicini saremmo noi veramente i più felici, se benignamente accogliendo la nostra preghiera tu volessi pensare una volta ad ammogliarti, e a fare sacrificio della tua libertà stringendoti a legittimo connubio. Noi ti preghiamo pertanto che ti piaccia ciò fare e farlo presto: perocchè il tempo vola, e quantunque giovanissimo tu sia, tacita e presta si avanza la vecchiaia; nè al fiore dell'età porta la morte rispetto alcuno. Non v'ha privilegio onde alcuno si possa a lei sottrarre: dobbiamo tutti morire: e come questo è certo, così del tempo in cui debba accadere siamo tutti ignari. Porgi dunque benevolo l'orecchio ai voti di tali cui mai non sarà grave obbedire a qual si sia tuo comando. E del trovarti la moglie a noi lascia la cura, perocchè tale sapremo portela innanzi, e di tal padre e madre discesa che degna sia di te, e buona speranza se ne possa avere, e tu contentartene molto. Deh! tu ci libera dal timore che per nostra sventura ci avessi a mancare senza lasciarci alcuno, che succedendo a te, sia l'invocato nostro Signore». Commosso da quelle parole il Marchese rispose: «Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto avea disposto di non far mai, considerando quanto sia dolce quella libertà che rarissima si trova nel matrimonio. Pur di buon grado al volere de' miei soggetti assoggettare io mi voglio, e me stesso commettere alla fede e alla prudenza vostra. Ma della donna mia voglio io medesimo essere il trovatore, e da questa cura prosciogliendovi, in me tutta l'assumo. Mal vi credete ai costumi dei padri e delle madri potersi le figliuole conoscere, perocchè sono spesse volte le figliuole ai padri ed alle madri dissimili. Quanto di buono è negli uomini procede solo da Dio. A lui pertanto affidandomi, solo dalla bontà di lui spero il mio meglio, in questa bisogna del matrimonio, ed egli mi farà trovare la donna più acconcia alla mia quiete ed alla mia salute. Poichè dunque a voi così piace, ed io voglio essere contento, in buona fede vi prometto di prender moglie, e di prenderla presto. Ma voi dal canto vostro a me dovete promettere che cui che io mi tolga sia da voi come donna onorata, nè sarà fra voi chi voglia mai sindacarmi per la mia scelta. A voi piacque me, che libero sono, annodare in queste catene: spetti a me la scelta del nodo, e qual che sia la donna che io meni, abbiatela in conto di vostra Signora, come se fosse figliuola di un principe romano.» Lieti ed unanimi promisero tutti com'ei voleva, e non vedendo l'ora che giungesse il dì delle nozze, aspettarono con ansietà che loro il Signore lo annunziasse, disponendosi a festeggiarlo con grandi apparecchi; e presero commiato da lui, il quale a' suoi domestici commise che preparassero l'occorrente per un dato giorno stabilito alle sue sponsalizie.

Vicina al suo palazzo era una villa di pochi e poveri abitanti, de' quali il più povero fra tutti ebbe nome Giannucole. E poichè talvolta sugli umili tuguri discende la grazia celeste, aveva quegli sortita una sola figliuola per nome Griselda, bella assai della persona, ma d'indole così buona, di costumi sì fattamente illibata che non poteva desiderarsi di più. Avvezza a povero cibo ed allevata nella miseria, mai non conobbe delicature, mollezza, piaceri, e nel verginale suo petto accoglievasi un'anima al tutto virile. Tutta amore e tenerezza verso il vecchio suo padre, menava a pascere il suo piccolo gregge, traendo intanto il filo dalla rocca, e sulla sera, tornata a casa, apparecchiava la mensa d'erbe e di frutta convenienti alla povertà del suo stato, indi rifaceva il duro suo letticciuolo, e in ogni cosa porgevasi modello e specchio di pietà e di obbedienza filiale. Presso quella villa soventi volte passando Gualtieri, non per giovanile baldanza, ma per impulso di senile prudenza aveva sulla fanciulla fissato lo sguardo, e con sottilissima perspicacia divinando quella virtù superiore all'età ed al sesso che agli occhi del volgo dalla umiltà della condizione tenevasi nascosta, contro quanto per lo innanzi aveva pensato, si risolse non solamente a prender moglie, ma a prender non altra che costei. Avvicinavasi il giorno posto alle nozze: ma quale si fosse, e d'onde venirgli dovesse la sposa, nessuno sapeva. Apparecchiava egli intanto cinture, anella e corone e quant'altro a novella sposa si richiedea; ed oltre a questo fece tagliare e far più robe belle e ricche al dosso di una giovane, quale della persona gli pareva la giovinetta cui avea proposto di sposarsi.

(segue)

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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