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Ciullo d'Alcamo

Ciullo d'Alcamo o Cielo d'Alcamo

Di Ciullo di Alcamo non ci rimangono altre notizie, tranne le poche congetture che si possono dedurre da alcune non ben chiare allusioni della sua Canzone, unico componimento che si conosca di lui. Da queste allusioni gli storici della letteratura tolgono ragione di credere che Ciullo, nativo di Alcamo, città a trenta miglia da Palermo, fiorisse a' tempi di Saladino, cioè nell' ultimo decennio del secolo XII. È reputato il più antico de' Rimatori italiani; e dovendo credere a Dante che nel Trattato della Volgare Eloquenza afferma, la lingua volgare essersi cominciata a scrivere centocinquant' anni innanzi, il computo combina perfettamente con l'epoca di Ciullo. Questo monumento poetico, rozzo, qualora si consideri esclusivamente la sua forma, è di grandissimo interesse negli annali della nuova poesia, e degno di tutta considerazione per quel carattere peculiare che lo diversifica delle produzioni degli scrittori dell' epoca di Federigo.

Tratto da: "Florilegio dei lirici più insigni d'Italia" di Paolo Emiliani-Giudici, Poligrafia italiana, 1848 - 862 pagine

«Rosa fresca aulentis[s]ima, - c'apari inver la state
le donne ti disïano - pulzell' e maritate;
tra[ji]mi de ste focora - se t'este a bolontate;
per te non aio abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia».
«Se di mevi trabagliti, - follia lo ti fa fare,
lo mar potresti arompere, - avanti, a semenare,
l'abere de sto secolo - tut[t]o quanto asembrare,
avereme non poteri a esto monno,
avanti li cavelli m'aritonno».
«Se li cavelli arton[n]iti, - avanti foss'io morto,
[donna], c'aisì mi perdera - lo sol[l]acc[i]o e 'l diporto.
Quando ci passo e veioti, - rosa fresca de l'orto,
bono conforto donimi tut[t]ore:
poniamo che s'aiunga il nostro amore».
«Che 'l nostro amore aiungasi - non boglio m'atalenti.
Se ci ti trova paremo - co gli altri miei parenti!
Guarda non s'ar[i]colgano - questi forti cor[r]enti!
Como ti seppe bona la venuta,
consiglio che ti guardi a la partuta».
«Se i tuoi parenti trova[n]mi, - e che mi pozon fari?
Una difensa met[t]oci - di dumili' agostari:
non mi toc[c]àra pàdreto - per quanto avere ambari.
Viva lo 'mperadore graz[i]' a Deo !
Intendi, bella, che ti dico eo?»
«Tu me no lasci vivere - nè sera, nè maitino.
Donna mi son di perperi - d'auro massamotino.
Se tanto aver donassemi - quanto à lo Saladino
e per aiunta quant'à lo Soldano
toc[c]areme non poteri a la mano».
«Molte sono le fem[m]ine - c'ànno dura la testa,
e l'omo con parabole - l'adimina e amonesta,
tanto intorno procaz[z]ale - fin che l'à in sua podesta.
Fem[m]ina d'omo non si può tenere:
guardati, bella, pur de ripentere».
«Ch'eo ne [ri]pentesseme? - Davanti foss'io aucisa!
ca nulla bona fem[m]ina - per me fosse riprisa.
[A]ersera passastici - cor[r]enno a la distisa.
Aquetiti, riposa, canzoneri,
tue parabole a me non pìa[c]ion gueri».
«Quante sono le schiantora - che m'à[i] mis' a lo core!
E solo purpenzannome - la dia quanno vo fore,
fem[m]ina de sto secolo - tanto no amai ancore
quant'amo teve, rosa invidïata.
Ben credo che mi fosti distinata».
«Se distinata fosseti, - caderia de l'alteze,
chè male messe forano - in teve mie belleze.
Se tut[t]o adivenissemi, tagliarami le treze
e consore m'arenno a una magione
avanti che m'artoc[c]hi 'n la persone».
«Se tu consore arenneti, - donna col viso cleri,
a lo mostero venoci - e rennomi confleri:
per tanta prova vencerti - faralo volonteri.
Con teco stao la sera e lo maitino;
besogn'è ch'io ti tegna al meo dimino».
«Boimé, tapina misera, - com'ao reo distinato!
Gieso Cristo l'altissimo - del tut[t]o m'è airato:
concepistimi a abattere - in omo blestiemato.
Cerca la terra ch'este gran[n]e assai,
chiù bella donna di me troverai».
Cercat'aio Calabr[ï]a, - Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli, - Genova, Pisa e Soria,
Lamagna e Babilonïa - [e] tut[t]a Barberia:
donna non [ci] trovai tanto cortese,
per che sovrana di meve te p[r]ese».
«Poi tanto trabagliasti[ti], - fac[c]ioti meo pregheri
che tu vadi adoman[n]imi - a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti degnano, - menami a lo mosteri
e sposami davanti da la jenti;
e poi farò li tuo' comannamenti».
«Di cio che dici, vitama, - neiente non ti bale,
ca de le tuo parabole - fatto n'ò ponti e scale.
Penne penzasti met[t]ere, - sonti cadute l'ale,
e dato t'aio la botta sot[t]ana;
dunque, se po[t]i, teniti, villana».
«En paura non met[t]ermi - di nullo manganiello:
istomi 'n esta grorïa - de sto forte castiello;
prezo le tuo parabole - meno che d'un zitello.
Se tu no levi e vàtine di quaci,
se tu ci fosse morto, ben mi chiaci».
Dunque vor[r]esti, vitama, - ca per te fosse strutto?
Se morto essere deboci - od intagliato tut[t]o,
di quaci non mi mosera - se no ai[o] de lo frutto,
lo quale staci ne lo tuo jardino:
disïolo la sera e lo matino».
«Di quello frutto no ab[b]ero - conti, nè cabalieri;
molto lo disïa[ro]no - marchesi e justizieri,
avere no nde pottero - gironde molto feri.
Intendi bene ciò che bol[e] dire?
Men' este di mill'onze lo tuo abire».
Molti son li garofani, - ma non che salma nd'ài;
bella, non dispregiaremi - s'avanti non m'assai.
Se vento in proda girasi - e giungeti a le prai,
a rimembrare t'ao ste parole,
ca de[n]tra sta animella assai mi dole!»
«Macari se doles[s]eti - che cadesse angosciato!
la gente ci cor[r]es[s]oro - da traverso e da lato,
tut[t]'a meve dicessono - "ac[c]or[r]i a sto malnato!"
non ti degnara porgere la mano
per quanto avere à 'l Papa e lo Soldano».
«Deo lo volesse, vitama, - te fosse morto in casa!
L'arma n'anderia consola, - ca dì e notte pantasa.
La jente ti chiamarano: - "Oi periura malvasa,
c'à[i] morto l'omo in casata, traita!"
Sanz'onni colpa levimi la vita».
«Se tu no levi e vatine - co la maladizione,
li frati miei ti trovano - dentro chissa magione
[ . . ] ben lo mi sofero - perdici la persone;
c'a meve se' venuto a sormonare,
parente o amico non t'ave aitare».
«A meve non aitano - amici, nè parenti;
istrani[u] mi son, carama, - enfra esta bona jenti.
Or fa un anno, vitama, - che 'ntrata mi se' '[n] menti;
di canno ti vestisti lo maiuto,
bella, da quello jorno son feruto».
«Ai, tando 'namorastiti, - [oi] Iuda lo traito?
como se fosse porpore, - iscarlat[t]o o sciamito!
S'a le Va[n]gele iurimi - che mi sia a marito,
avereme non poter' a sto monno,
avanti in mare [j]it[t]omi al perfonno».
«Se tu nel mare git[t]iti, - donna cortese e fina,
dereto mi ti misera - per tut[t]a la marina,
[ e, da ] poi ca 'n[n]egas[t]eti, - trobareti a la rina,
solo per questa cosa ad impretare:
con teco m'aio agiungere a pec[c]are».
«Segnomi in Patre e 'n Filio - ed i[n] Santo Mat[t]eo!
so ca non se' tu retico - [o] figlio di giudeo,
e cotale parabole - non udì' dire anch'eo!
Morta si [è] la fem[m]ina a lo 'ntutto,
perdeci lo saboro e lo disdutto».
«Bene lo saccio, carama: - altro non poz[z]o fare.
Se quisso non arcomplimi, - lassone lo cantare.
Fallo, mia donna, plaz[z]ati, - che bene lo puoi fare.
Ancora tu no m'ami, molto t'amo
sì m'ài preso come lo pesce a l'amo».
«Saz[z]o che m'ami, [e] amoti - di core paladino.
Levati suso e vat[t]ene, - tornaci a lo matino.
Se ciò che dico facemi, - di bon cor t'amo e fino:
[eo] quisso ti 'mprometto sanza faglia,
te' la mia fede che m'ài in tua baglia».
«Per zo che dici, carama, - neiente non mi movo;
inanti prenni e scannami, - tolli esto cortel novo.
Sto fatto fare potesi - inanti scalfi un uovo.
Arcompli mi' talento, [a]mica be]la,
che l'arma co lo core mi si 'nfella».
«Ben saz[z]o l'arma doleti - com'omo c'ave arsura.
Sto fatto [far] non potesi - per null'altra misura
se non a le Vangel[ï]e - che mo ti dico iura,
avereme non puoi in tua podesta;
inanti, prenni e tagliami la testa».
«Le Vangel[ï]e, carama? - ch'io le porto in sino!
A lo mostero presile, - non ci era lo patrino.
Sovr'esto libro iuroti - mai non ti vegno mino.
Arcompli mi' talento in caritate,
che l'arma me ne sta in sut[t]ilitate».
«Meo sire, poi iurastimi, - eo tut[t]a quanta incenno;
sono a la tua presenz[ï]a, - da voi non mi difenno.
S'eo minespriso ajoti, - merzè, a voi m'arenno.
A lo letto ne gimo a la bon'ura,
chè chissà cosa n'è data in ventura».

La versione qui riportata del brano Contrasto (di Amante e Madonna) è tratta da "Rimatori della scuola siciliana", a cura di Panvini, Olschki, Firenze 1962 e 1964

Una interessantissima pagina, ricca di notizie critiche e di diverse versioni del contrasto è sul sito di Giuseppe Bonghi.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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