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Il Meo Patacca 02-1

Post n°1214 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO SECONDO

ARGOMENTO
Stracco MEO si riposa, e addormentato
Fa' un sogno stravagante, e non l'intenne.
Cerca sentirne el ver significato
Da Calfurnia, ch'assai saper pretenne;
Ma perchè non l'ha bene interpretato,
Con ingiurie, e percosse lui l'offenne;
Nuccia amante lo prega, che non voglia
Lassarla e andà alla guerra, e lui s'imbroglia.

Era quell'hora, ch'i pizzicaroli
Con le pertiche aggiustano le tenne
Innanzi alle lor mostre, e i fruttaroli,
E ogn'un, che robba magnaticcia venne;
Perchè pe' fa' servizio ai nevaroli
E 'l caldo insopportabbile se renne,
E allora il Sol, se non ci son ripari,
Scalla le robbe, e scotta i bottegari.

Quest'era il mezzo dì, già irrìntennete,
Allorchè MEO, c'hebbe un tantin di scanzo
Da i su' compagni, perchè havea gran sete,
Voleva annà nella taverna a pranzo.
Quì spesso lui scioglieva le monete,
Senza curasse de fa' in casa avanzo,
Ma perchè spera far di grolia acquisto,
Già se vergogna d'esserci più visto.

Gnente però pe' prima havea crompato
Da sbattere col dente, se il penziero
Era tutto alle guerre rivoltato,
E in casa c'era sol zero via zero.
Trovò doppo d'havè rimuscinato,
Un tozzo secco, e non gli parè vero,
Si messe poi, pe' non magnallo asciutto,
A rosicane un osso di presciutto.

Ma, tra ch'era salato e pizzichente,
Tra, che lui si scalmò pe' ciarla tanto,
Tra 'l Sole, che fu troppo impertinente
In tel fagli provà caldo tamanto,
Era così assetato, che pe' gnente
Havuto havria de beve giusto, quanto
Fa un cacciator che rotta la bottiglia
Girò, senza mai bevere, più miglia.

Teneva in casa sotto un capo scala
Un caratel di vino romanesco,
E spesso coll'amici lui ce sciala,
Se tanto quanto se gli mantiè fresco;
Con un boccal maiuscolo giù cala,
Pe' dà presto alle viscere rinfresco,
E riempito, che l'ha perchè è assetato,
Se l'ingavaccia quasi tutto a un fiato.

Fatta 'na solennissima bevuta
Fornito de magnà, se mette MEO
Sopra 'na sedia, che gli fu vennuta
Per un briccolo e mezzo da un ebreo.
Questa è d'appoggio, ma sì mal tenuta,
Che non ce sederìa manco un ciafeo;
Ma PATACCA però ce sta con gusto,
E pur de bono altro non ha, che il fusto.

Posa la coscia dritta in sul bracciolo,
Va in giù la gamba, e resta pendolona,
Alla spalletta appoggia el cocuzzolo,
Verzo la parte manca l'abbandona;
Slarga la man sinistra, e un piumacciolo
Fa con quella alle guancie, e la perzona
Sta più commoda qui, che forzi a letto,
Perchè il braccio fa al capo un scabbelletto.

La ventarola tiè coll'altra mano,
E caccianno le mosche va bel bello,
Facennose un po' vento; ma pian piano,
Gli vie su le lanterne un sonnarello;
Poi gli esce un fiato mezzo grossolano
Dalle froscie sonoro, e fortarello,
E stà, sentite un verzo da mastrone,
Dolcemente ronfanno il bel garzone.

In dormì così placido e pacifero,
Con quel ronfo suave e saporito,
Par, che stato gli sia dato un sonnifero,
Che te l'habbia de posta addormentito;
Si rinforza dal naso il son di pifero,
E il più armonico mai non fu sentito;
S'apre intanto la man, se 'l naso pivola,
E allor la ventarola in terra scivola.

In questo mentre, ch'era MEO PATACCA
Così dal sonno iofamente oppresso,
Fece un'insognatura assai bislacca,
Che si raccontarà poi da lui stesso.
Si sveglia all'improviso, e alla saracca
Darìa di piccio, se l'havesse appresso;
S'alza, sbalza da sede, e infuriato
Curre, ma poi s'accorge, c'ha sognato.

E pur gli da fastidio un cert'imbroglio,
Che ronfeggiando di vedè gli parze,
Di non poter intennere ha cordoglio
Che sia quello, ch'in sogno gli comparze.
Tra sè poi dice: "Hor io sapè lo voglio,
La mi' curiosità vuò sodisfarze;
No, che non pozzo sta', mo' mo' la spiccio,
Quanno me vie, lo so cavà un crapiccio".

C'era una ciospa, un po' gobbetta e lusca.
Longa di naso, e corta assai di vista,
Crespa in fronte, e di faccia alquanto brusca,
Si spacciava una brava gabbalista.
Annava spesso di merlotti in busca,
Che d'una volpe veccia era più trista;
I sogni ad altri interpretare ardiva,
E lei manco sapeva, s'era viva.

Stava questa di Meo nel vicinato,
E benissimo lui la cognosceva,
Se quanno a chalche lotto hebbe giocato,
Lei li nomi da uscì ditti gli haveva.
Benchè mai non ci haveva indovinato,
Lui puro alle su' frottole credeva;
Hor da costei che tanto glie da' retta,
Dell'interpretatura i senzi aspetta.

Ecco la ciama da 'na finestrella,
Che stava iscontro alle finestre sue,
Calfurnia è il nome della vecchiarella;
Lui strillò forte più di volte due.
S'affaccia lei, glie dice MEO: "Sorella
Ho di bisogno delle grazie tue,
O t'hai da contentà ch'io da te sia
O tu viettene presto a casa mia".

Stava costei con la conocchia al lato,
E giusto allora haveva col lenguino
El deto grosso e l'indice bagnato.
Con questi annava attorcinanno el lino,
E doppo d'havè 'l fuso arrotolato
Si ferma, e fa' a Patacca un po' d'inchino.
Poi dice: "Ho inteso, e gnente me trattengo,
Tu non te scommodà, ch'adesso vengo".

Lassa el lavoro, e subbito se caccia
In sul capo una scuffia lograticcia,
Sotto la gola presto se l'allaccia,
Con una pezza el viso se stropiccia;
Così fa colorita un po' la faccia,
Di MEO verso la casa se l'alliccia;
Ha neri i pianelloni e il casacchino,
La veste biscia, et il zinal turchino.

Tira la corda MEO, spegne la porta
La ciospetta, che viè rinfazzonita,
Così in prescia salì, che mezza morta
Era, quanno la scala hebbe fornita.
Lui la riceve, e subbito glie porta
La sedia, ch'a i su' sogni era servita;
Lei, perchè stracca, sede giù de botto,
E lui se piglia uno scabbello rotto.

"Scusame, dice, se t'ho scommodata;
Devi sapè, ch'un certo sogno ho fatto
Che m'ha la mente tutta stralunata,
E non l'intenno, e ce divento matto.
Perchè hai la verità spesso azzeccata,
Tante volte spiegannoli ad un tratto,
Ho preso de ciamatte confidenza,
Però bigna, però, ch'habbi pacenza".

Fece allora Calfurnia un bel ghignetto,
Dicendo: "Sei, PATACCA, un tristarello;
Per servirti, altre volte io te l'ho detto,
Ch'andarìa lambiccandomi il cervello,
E perchè adesso, vuoi tu havè sospetto,
Ch'io contradir ti voglia? Oibò fratello:
So gli obblighi, che t'ho, quanno quel giorno
Desti a colui, che mi veniva attorno".

"Sempre sarà nostrodine in difesa
Della perzona tua, - disse PATACCA,
- Ciama 'sto fusto, se vuoi fa' contesa,
E vederai, se come i grugnì ammacca;
Perchè pe' fa' calche famosa impresa
Io la mi' vita non la stimo un acca,
E la metto a sbaraglio e pronto e lesto.
Ma tornanno al discorzo, el sogno è questo.

Me pareva de sta' nel mezzo a un campo,
Che poi me diventava horto e giardino,
Et ecco allora da lontano allampo
Fiorite piante, et io più m'avvicino.
In t'uno sterpo all'improviso inciampo,
E quasi cascà volzi a capo chino,
Mi ritengo, e m'accorgio, e fo' stupori,
Ch'eran quei, ch'io vedei, cavoli fiori.

Ci ho gusto a 'sta comparza, e ce n'è uno,
Che pare tra li cavoli un gigante;
Nisciun di questo al paragon, nisciuno
Ce n'è, che non sia cavolo birbante.
Voglia me vie d'haverne calcheduno,
Ma sopra tutti, questo più scialante;
In giù, pe' sradicallo el braccio io slongo,
E all'improviso me diventa un fongo.

Così fan tutti l'altri e si rannicchia
Ogni cavolo in fongo, e giù s'appiatta;
Allora la vendetta al cor mi picchia,
E vuò, che sia la fongarìa disfatta.
El sangue in te le vene me salticchia,
E pe' sfongar la cavolesca schiatta,
Al ferro, che sta' al fianco, do' de piglio,
Voglio taglià; ma intanto, ecco mi sviglio".

"Non più. Già sò, quel che saper tu vuoi",
Disse la ciospa, e qui penzosa stette.
Strinze mano con mano, e restò poi
Con l'occi larghi, e con le labra strette.
Ciamò a consiglio li riggiri suoi,
Alfine a MEO questa risposta dette;
Ma prima assai pietosa a lui si volze
Con un sospiro, poi la lingua sciolze.

"Figlio! per te c'è na cattiva nova,
E ti sarà, in sentirla, dolorosa;
Dir vuò il campo, ch'in horto si rinova,
Ch'una ne penzi, e poi fai 'n'altra cosa;
Senti questo di più, ch'ogni tua prova
T'habbia da riuscì pericolosa,
È segno certo, e assai però m'accora,
Quell'inciampà, che tu facesti allora.

I cavoli, che scambiano apparenza,
E fanno in fonghi subbito mutanza,
Dimostrano per dirla in confidenza,
C'hanno i negozii tui gran incostanza;
Che mentre assai, da te acquistà si penza,
Alfin poi ci sarà poca sustanza,
E cercanno verdura, e ricche piante,
Troverai solo robba da birbante.

Mi spiego meglio. Tu ci sei cascato
A fa' l'amor con qualche brighinella,
E ti sei nella mente figurato,
Perchè vista non l'hai, ch'assai sia bella;
Per esserne poi meglio assicurato,
Tu vuoi far viaggio, e andar verso di quella;
La stimi un sole, e dirtelo bisogna,
Sarà una schifosissima carogna".

Più dir volea, ma te glie dà un urtane
MEO, ch'allora con impeto s'arrizza,
E poco manca, non glie dia un sgrugnone,
E che del naso non ne faccia pizza.
In tel sentì già gli venì el foione,
E dice tutto rabbia, e tutto stizza:
"Ah razza indegna tra le razze sporche!
Va in malora se vuoi, va su le forche".

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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