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Della Casa 13: rime

Post n°1192 pubblicato il 04 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

LXI

Di là, dove per ostro e pompa e oro
fra genti inermi ha perigliosa guerra,
fuggo io mendico e solo, e di quella esca
ch'i' bramai tanto, sazio, a queste querce
ricorro, vago omai di miglior cibo,
per aver posa almen questi ultimi anni.

Ricca gente e beata ne' primi anni
del mondo, or ferro fatto, che senz'oro
men di noi macra in suo selvaggio cibo
si visse, e senza Marte armato in guerra;
quando tra l'elci e le frondose querce
ancor non si prendea l'amo entro a l'esca.

Io, come vile augel scende a poca esca
dal cielo in ima valle, i miei dolci anni
vissi in palustre limo; or fonti e querce
mi son quel che ostro fummi e vasel d'oro:
così l'anima purgo, e cangio guerra
con pace, e con digiun soverchio cibo.

Fallace mondo, che d'amaro cibo
sì dolce mensa ingombri! Or di quella esca
foss'io digiun, ch'ancor mi grava, e 'n guerra
tenne l'alma co' i sensi ha già tanti anni!
ché più pregiate che le gemme e l'oro
renderei l'ombre ancor de le mie querce.

O rivi, o fonti, o fiumi, o faggi, o querce,
onde il mondo novello ebbe suo cibo,
in quei tranquilli secoli de l'oro!
Deh come ha il folle poi cangiando l'esca
cangiato il gusto, e come son questi anni
da quei diversi in povertate e 'n guerra!

Già vincitor di gloriosa guerra
prendea suo pregio da l'ombrose querce:
ma d'ora in or più duri volgon gli anni,
ond'io ritorno a quello antico cibo
che pur di fere è fatto e d'augelli esca,
per arricchire ancor di quel primo oro.

Già in prezioso cibo o 'n gonna d'oro
non crebbe, anzi tra querce e 'n povera esca,
virtù, che con questi anni ha sdegno e guerra.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 323



LXII

Già lessi, e or conosco in me, sì come
Glauco nel mar si pose uom puro e chiaro,
e come sue sembianze si mischiaro
di spume e conche, e fersi alga sue chiome;

però che 'n questo Egeo che vita ha nome
puro anch'io scesi, e 'n queste de l'amaro
mondo tempeste, ed elle mi gravaro
i sensi e l'alma ahi di che indegne some!

Lasso: e soviemmi d'Esaco, che l'ali
d'amoroso pallor segnate ancora
digiuno per lo cielo apre e distende,

e poi satollo indarno a volar prende:
sì 'l core anch'io, che per sé leve fôra,
gravato ho di terrene esche mortali.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 57 (pag. 29)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 325

Note:
E' fra i sonetti chiosati dal Garigliano per gli Umoristi. La favola ci dà Esaco convertito in corvo marino, e risponde all'Egeo della vita. Ma chi spiega l'amoroso pallore dell'ali? Volle forse alludere alla propria passione; ma è frase di senso chiuso, benché non le manchi vaghezza.
(Carrer, cit., pag. 313)



LXIII

O dolce selva solitaria, amica
de' miei pensieri sbigottiti e stanchi,
mentre Borea ne' dì torbidi e manchi
d'orrido giel l'aere e la terra implica,

e la tua verde chioma ombrosa, antica
come la mia, par d'ognintorno imbianchi,
or, che 'nvece di fior vermigli e bianchi
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica,

a questa breve e nubilosa luce
vo ripensando, che m'avanza, e ghiaccio
gli spirti anch'io sento e le membra farsi;

ma più di te dentro e d'intorno agghiaccio,
ché più crudo Euro a me mio verno adduce,
più lunga notte, e dì più freddi e scarsi.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 58 (pag. 30)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 326

Note:
Sonetto mirabile, scritto, come credo, presso al Montello, di che vedi le note qui adietro al sonetto LII. Abbiamo nelle lettere del Casotti molte varianti, che per essere di gran maestro, e sopra componimento finitissimo, sarebbero da consultare. Ecco la principale (versi 3-4):
Mentre al bel colle tuo gli omeri e i fianchi
Ignudi agghiaccia aspra stagion nemica.
Tutti sentiranno il perchè della scelta fatta dell'altro modo.
(Carrer, cit., pag. 313)



LXIV

Questa vita mortal, che 'n una o 'n due
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda, involto avea fin qui la pura
parte di me ne l'atre nubi sue.

Or a mirar le grazie tante tue
prendo, ché frutti e fior, gielo e arsura,
e sì dolce del ciel legge e misura,
eterno Dio, tuo magisterio fue.

Anzi 'l dolce aer puro e questa luce
chiara, che 'l mondo a gli occhi nostri scopre,
traesti tu d'abissi oscuri e misti:

e tutto quel che 'n terra o 'n ciel riluce
di tenebre era chiuso, e tu l'apristi;
e 'l giorno e 'l sol de le tue man sono opre.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 59 (pag. 30)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 327

Note:
Sonetto commentato a dilungo da Torquato Tasso in una lezione, e levato a cielo nel dialogo intitolato La Cavalletta. E chi non si contentasse dell' esame del Tasso, legga Francesco d'India che dettò un discorso per dichiarare il concetto filosofico del componimento.
(Carrer, cit., pag. 314)

 
 
 
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