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Il Meo Patacca 01-2

Post n°1180 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Canto Primo, ottave 16-30

Hor questi erano i guai, questo il terrore,
Per cui s'era la gente ammuinata,
In pensà con tamanto schiattacore,
Che la povera Vienna era assediata;
E paccheta s'haveva a tutte l'hore,
Che non fusse da' Turchi rampinata,
E s'un po' di garbuglio se sentiva
A ogn'un la cacatreppola veniva.

Intanto da pertutto communelle
Si favano, e più circoli e ridutti;
A fè' più non si dava in bagattelle,
Ma a batter sodo incominzorno tutti;
Saper voleva ogn'un, s'altre novelle
Fusser venute, et insinenta i putti,
Cosa, che prima mai non succede,
Dicevano tra lor: "Che nova c'è?"

S'a cavallo garzon di vetturino
Curriva a caso, o pur capovaccaio,
Subbito alla finestra el cittadino,
E favasi alla porta el bottegaro;
Dicevano all'amico, et al vicino:
"Ecco un Curriero, non c'è più riparo;
La nova porterà, che Vienna è presa,
O almen, ch'al Turco perfido s'è resa".

Mà scacciato un timor, l'altro s'accosta.
Perchè in realtà venuta è la staffetta;
Currono molti là, dov'è la Posta,
E quel, che porta, de sentir s'aspetta.
L'intrattenè, par che sia fatto a posta,
Ogn'un di calche taccolo suspetta,
E non se po' sapè, se si misura,
Se sia più la speranza, o la paura.

Fan così giusto giusto i litiganti,
Quanno se dà in giudizio la sentenza,
Si piantano de posta tutti quanti
Dove i Giudici fanno residenza:
Aspettano de fora spasimanti,
Fann'altri certe smorfie d'impacenza,
Altri ce stanno poi col collo teso,
Co' i cigli alzati, e col penzier sospeso.

Ma poi quanno la porta s'è raprita,
Entrano in furia, e c'urtano de petto;
Vanno a sapè, come la causa è ita:
S'è vinta fanno allegri un bel ghignetto,
Par che tornati sian da morte a vita,
Sarpan via lesti con un passo stretto;
Ma colui, che l'ha perza è mezzo morto,
Fa l'occi stralunati, e 'l mucco torto.

Hor questo è propio quel, che fa' la gente,
Che vuò sapè, che porta el postiglione;
Non si cura di calca, nè di spente,
Nè manco d'abbuscà più d'un urtone;
Scatenaccia la porta alfin si sente,
Più s'affollano allora le perzone,
Poi s'azzittano, e in circolo assai stretto,
Un che drento l'havè, legge il Foglietto.

In sentì, che la Piazza se difenne,
Ch'alle batoste incoccia, e che fa testa
A quella razza sporca, e non se renne,
Fa prauso granne ogn'uno, e fa gran festa.
Va via, per raccontà l'opre stupenne
De i bravi difenzori, e là s'arresta,
Dove l'amici in communella trova,
E sciala, in daghe una sì bella nova.

Se vien l'avviso poi, che fu sfiancato
Un baloardo, o che zompò una mina,
O come presto, o come s'è mutato
Il dolce in un amaro, che ammuina!
Languidi l'occi, e 'l viso sfigurato
Mostra chi questo ha inteso, e si tapina;
Ritorna a casa sua burboro e muto
Col capo basso, e tutto pensieruto.

Così un regazzo, ch'è ghinaldo e tristo,
Che lo studia gnente gli va a fasciolo,
che dal su' Mastro a insolentà fu visto,
Facenno in te la strada el sassaiolo,
Da quello in scola havè solenne un pisto,
Ritorna a casa piagniticcio, e solo,
Va savio savio, benchè a ciò non uso,
O sfugge li compagni, o gli fà el muso.

Hor mentre da per tutto si borbotta,
E si fanno lunarii dalle genti,
E chi cruda la vuò chi la vuò cotta,
Se sentono discorzi differenti.
Chi dice: "È una canaglia assai marmotta
Quella de i Turchi, e so' poco valenti".
Chi dice: "O come restaremo brutti.
Se bignerà fuggì da Roma tutti".

Un certo Toga-lunga, e Barba-quatra,
Con panza innanzi, e con la schina arreto.
Ch'in te i circoli fa' del caposquatra,
E quanno parla, vuò ch'ogn'un stia queto,
Fece un discorzo un dì, che tanta quatra
Gli dette un tal, di genio assai faceto,
Ch'io ridirlo imprometto, e così giusto,
Ch'ogn'un tre giulii ci haverà di gusto.

Era questo un Pedante pettoruto,
Ch'a Demostene manco la cedeva,
Era in tel portamento sostenuto,
E un giorno, attorno certi scioti haveva;
Pe' fa' tra quei tavàni del saputo,
La gran falda del fongo, che penneva
Innanzi all'occi unta e bisunta, e guitta,
Su la fronte s'alzò con la man ritta.

Prima un raschio magnifico e sonoro,
Poi fece un sputo tonno, e allor pian piano
Strisciò la spasa barba, e ver coloro
Acconcia in un bel gesto alzò la mano;
Poi con gran pausa così disse a loro:
Ma ch'io tralassi, non vi para strano
Per un poco il mio stil da romanesco,
E vi parli col suo, ch'è pedantesco.

"Consocj dilettissimi che havete
Con i precordii miei stretta amicitia,
Ditemi causam quare hilari siete,
Quando affligger vi deve alta mestitia?
Forse li Turchi exterriti credete,
Perchè c'è qualche avviso di letitia?
Il temer è politica da dotto,
L'Ottomano è potente in gradu ut octo".

Giuseppe Berneri
Tratto da: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.

 
 
 
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