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Il Meo Patacca 01-3

Post n°1181 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Canto Primo, ottave 31-45

Ma hercle, non poss'io non expavescere,
Quando recogitando va il pensiero,
Che tribus ab hinc annis, io splendescere
Viddi nel cielo un Cometon sì fiero,
Che dall'Oriente incominciando a crescere
Diu passeggiò sul nostro alto emisfero;
Fu poi visto svanir in Occidente,
Presago di quel mal, ch'oggi è presente.

Dalla coda lunghissima, che stese
La nuova Stella in quella striscia ignifera,
Ch'esser doveva a noi, ben si comprese,
Malefica, assai più, che salutifera.
Pur troppo da i più dotti allor s'intese
Il parlar fosco della lingua astrifera;
Profecto, inver fu questo un chiaro inditio,
Che imminebat a noi l'ultimo exitio.

Vienna cadrà; timor superlativo
Sconvolge i sensi, e gelido sudore
Va per le membra, e vix, appena io vivo
Pensando all'ottoniannico furore;
Son già essoso a me stesso, e prendo a schivo
Vitam ducere". Intanto un bell'umore,
S'accosta, e dice: "Ahimè, ci havemo dato,
L'Astrologo d'Abruzzo ha già parlato".

El Pedagogo in tel sentì lo sbeffo,
S'acciglia, increspa el collo, e si rabbuffa,
Mozzica il labro, e fa assai brutto el ceffo,
Col naso fatto a tromba, e soffia e sbuffa.
Imbraccia el pietro suo, ch'è un pò tareffo,
Par che voglia andà a fa' calche baruffa;
Tra sè e sè, un non so che ciangotta,
Va via con furia, e sempre più borbotta.

Si fa allora in tel ridere schiamazzo,
S'ogn'un di quei, che resta, glie la pista,
Chi dice: "Ha dato volta, o come è pazzo!
Ci vuò fa' el dicitor, l'indovinista;
Ne sa poi meno assai d'ogni regazzo,
Perchè propio ha un cervel di cartapista".
Ma doppo varj motti, e belle botte,
Tornano tutti a casa, perch'è notte.

L'alba del dì seguente era vicina,
E già segno ne davano i ferrari
Con battere la mazza alla fucina,
E con taglià la carne i macellari,
Con gridàne: "Acquavita soprafina"
Col lanternone in man l'acquavitari,
Con carri, e con barozze i carrettieri,
Con le some del vino i mulattieri.

Hor giusto allora, un certo tal si sveglia,
Ch'assai poco la notte havea dormito,
Sendo stato molt'hore in dormiveglia,
Irresoluto, inquieto, impenzierito.
Poi ritorna a i penzieri, e li risveglia,
Presto si schiaffa addosso un bel vestito,
Ma il miglior, bono assai pel su' disegno,
Non lo pigliò, perchè l'haveva in pegno.

Pe' fa' compariscenza non ingrata
Di tela bianca un gipponcin galante,
Una corvatta al collo merlettata
Si mette con un cappio sverzellante.
Ha neri li bigonzi, et attillata
La calza incarnatina sfiammeggiante,
Le fibbie alle fangose, el fongo bianco,
El pietro biscio, e la saracca al fianco.

Costui tra' Romaneschi è il più temuto,
S'è il capotruppa della gente sgherra,
Ben disposto di vita, e nerboruto,
Bravo alla lotta i più forzuti atterra.
Quanno poi de fa' sangue è risoluto
Fa prove cò la fionna, e con la sferra,
E ben lo sa, chi con lui buglie attacca.
Se chiama, e se ne grolia, MEO PATACCA.

Spunta sul babbio la famosa appena
Lassa un filetto a foggia di zerbino,
Figlio di mastro Titta, e monna Lena,
Conforme loro è lui trasteverino;
Cacciator, cui non manca ardir, nè lena,
Azzecca col su' schioppo in tun quatrino.
Benchè figlio di gente mammalucca
Ha spiriti guerrieri, e sale in zucca.

S'arrabbia in tel penzà, che la canaglia
Del Turco infame habbia da fa' 'sto chiasso;
Volà vorria là, dove tal marmaglia
Fa tante quellerie, tanto fragasso;
Gli spiace di non esser in battaglia,
Ch'i Turchi vorria mettere in sconquasso;
Di Vienna intanto, intento alla difesa,
Rumina col penziero un'alta impresa.

Va in cerca d'altri sgherri, e presto presto
N'ammassa una decina dei più sbarri:
A moverzi al su' fischio ogn'un è lesto,
Perchè sanno ch'in testa ha de' catarri;
Scrulla a più d'un la polvere, e per questo
Nisciun c'è proprio che con lui la sgharri;
Hor questi dieci, che pur son parecchi,
Gli fanno ad uno ad un salamelecchi.

MEO PATACCA però, ch'a un tempo stesso
Sa essere cortese, et intosciato,
A tutti fa un saluto un pò rimesso,
Che civiltà dimostra, e maggiorato:
Gli vanno questi scarpinanno appresso,
E nisciuno s'arrischia annagli al lato;
Ma bensì ogn'uno rispettoso, e queto,
Un mezzo passo e più gli va dereto.

Come fa de' soldati un caporale,
Quanno marcià alle volte gli conviene
Con la su' truppa, e lo fa in modo tale,
Ch'un tantinetto innanzi a star gli viene;
Così PATACCA, e con sussiego uguale,
Tutti un pò lontanetti se li tiene,
E se forze a chalch'un parla pian piano,
Lui crope, e l'altro sta col fongo in mano.

Si volta, e dice poi da ogn'un sentito
Con certa gravità, che non è orgoglio:
"Oggi a gran cose, o fidi miei, v'invito,
Ve voglio tutti fa' stupi' ve voglio".
Poi s'azzitta, e fu 'l viaggio proseguito
Verzo il Tarpeo, là dove è il Campidoglio,
Del quale assai la fama ha già parlato,
E parlarà, sin che ce perde el fiato.

Giuseppe Berneri
Tratto da: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.

 
 
 
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