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I Trovatori (5)

Post n°1080 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

LXVII. Ora passando a un altro ordine di fatti, nel 1250 (e dietro le scoperte da noi fatte, può dirsi quasi lo stesso nel 1178), noi troviamo una numerosa schiera di trovatori siciliani, pugliesi, romani, marchigiani, bolognesi, romagnoli, umbri, senesi, perugini, fiorentini, pisani, lucchesi, genovesi, lombardi e veneziani, i quali volendo con bella gara trovare per illustrare i loro volgari nativi, benché diversi d' idee e di stile, senza avvedersene, scrivono finalmente tutti la medesima lingua italiana. La lingua del capuano Pier delle Vigne è perfettamente simile a quella del padovano Bandino, del siciliano Lanciotto, del genovese Boria, del faentino Ugolino, del pavese Saladino, del messinese Mazzeo, del fiorentino ser Baldo, del trivisano Albertino, e del pievano veneto da casa Quirino. La lingua della Compiuta donzella fiorentina è perfettamente simile a quella della siciliana Nina di Dante.

LXVIII. Ora io domando, come avvenne che appena all'uscir della barbarie, e ai primi vagiti della lingua e della poesia, e senza libri, senza dizionari e senza grammatiche, si trova tanta concordia e tanta uniformità nel linguaggio dei trovatori in tutte le città, e da un capo all' altro d' Italia, in un tempo in cui le province, le citta, e le più piccole terre, per situazione geografica, per ragion politica, e per ispirito di partito, eran tutte isolate le une dall' altre, e divise -, e non solo isolate e divise ma rivali, ma nemiche tra loro? In un tempo in cui il commercio tra le province italiane era nullo, le comunicazioni erano interrotte e dillìcili, le strade guaste e mal sicure: in un tempo in cui lo spirito municipale era portato al più alto entusiasmo, e ciascuna citta non sapeva trovar altro di buono di bello al mondo, tranne le sue mura, i suoi edifizi, i suoi ordini, le sue leggi, i suoi costumi, il suo proprio volgare?

LXIX. Dov'è nata questa lingua? Come e quando, e per mezzo di chi si è diffusa e tanto profondamente radicata per tutta Italia, e nelle isole del mare mediterraneo, in tanta diversità di caratteri, di fortune, di costumi e di reggimenti? Questo accordo e questa armonia non è effetto del caso, non è opera di una generazione ne di un secolo; ma è opera della forza e del senno di molte generazioni e di molti secoli.

LXX. Però è d'uopo trovare, o una provincia che abbia avuto da Dio il dono di questo linguaggio, e, facendosene
maestra, abbia insegnate, e colla sola influenza morale propagale e diff'use lo regole e le norme della favella a tutta la nazione, o un popolo che per la sua gran potenza abbia imposto a tutta la nazione il suo linguaggio, colla forza dell' armi, e colle leggi, e mediante una lunga e gloriosa dominazione.

LXXI. Ma questo centro della lingua, questa provincia maestra e insegnatrice dell'italica favella, non si trova nella storia del medio evo, e il gran filosofo e poeta Dante Allighieri nel suo libro della volgar eloquenza dimostra chiaramente, che nessuna citta e nessuna provincia si può dar vanto di aver insegnato la favella alle altre, e che tutte le citta italiane hanno concorso del pari a formare questa lingua, questo volgare illustre. «Ora si può discernere, dic' egli, il volgare che di sopra cercavamo, essere quello che in ciascuna citta appare e che in ninna riposa. Può ben più in una che in un' altra apparerò, come fa la semplicissima delle sostanze, che è Dio, il quale più appare neir uomo che nelle bestie, e che nelle piante, e più in queste che nelle miniere, ed in esse più che negli elementi, e più nel fuoco che nella terra. E la semplicissima quantità che è uno, più appare nel numero dispari che nel pari: ed il semplicissimo colore che è il bianco, più appare nel citrino che nel verde. Adunque ritrovato quello che cercavamo, dicemo, che il volgare illusi re, cardinale, aidico e cortigiano in Italia, è quello il quale ò di tutte le cittìi italiane, e non pare che sia di niuna; col quale i volgari di tulle le città d' Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare.

LXXII. Furono già molti scrittori, d' altronde presi ani issùni, nel cinquecento, ed anche prima, i quali si credettero fermamente aver trovata in Firenze e nella Toscana (jucsla (.itlà, e questa provincia maestra e insegnaIrice dell' italiana favella. Ma questa loro opinione è contraddetta dalla storia dei fatti, e dalla grande autorità di Dante Alligliieri. Perchè all' epoca della prima formazione della lingua italiana Firenze era una terra piccola e di ninna importanza; e i fiorentini, ancor rozzi e incolti, eran detti i montanari dei pisani. E la Toscana, divisa in cento reggimenti, gli uni agli altri diametralmente opposti; democratica in Siena e in Pisa, feudale in Valdisieve e in Casentino; teocratica in Cortona, e in Volterra; aristocratica in Perugia, e in Firenze, prima della battaglia di Montaperti; aveva ben poca influenza nella politica italiana.

LXXIII. E prima di quell' era memorabile, i volgari delle citta toscane erano inferiori al volgar siciliano, e allo stesso volgar bolognese, come dimostra chiaramente il sommo filosofo e poeta Dante Allighieri nel libro primo, capitolo decimoterzo, del tante volte citato aureo trattato della volgar eloquenza; dove scrisse <(... Vegnamo ai toscani, i quali per la loro pazzia insensati, pare che arrogantemente si attribuiscano il titolo del volgar illustre; ed in questo non solo l'opinione de' plebei impazzisce, ma ritrovo molti uomini famosi averla avuta, come fu Guitton d' Arezzo, il quale non si diede mai al volgare cortigiano, Bonaggiunta da Lucca, Gallo pisano, Mino Mocato senese, e Brunetto fiorentino; i detti dei quali, se si avrà tempo di esaminarli, non cortigiani ma propri delle loro cittadi si ritroveranno. Ma conciossiachè i toscani sieno più degli altri in questa ebbrietà furibondi, ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la pompa a ciascuno dei volgari delle citta di Toscana. I fiorentini parlano e dicono: «Manuchiamo introcque». I pisani: «Bene andonno i fanti di Fiorenza per Pisa». I lucchesi: «Io voto a Dio, che ingassaria lo comune de Lucca». I senesi: «Onche rinegata avesse io Siena». Gli aretini: «' Votu venire ovelle». Di Perugia, Orvieto, Viterbo, e Città Castellana, per la vicinità che hanno con romani e spoletani, non intendo dir nulla. Ma come che quasi tutti i toscani sieno nel loro brutto parlare ottusi, nondimeno ho veduto alcuni aver conosciuto la eccellenzia del volgare, cioè Guido (Cavalcanti), Lapo (Gianni), e un altro, (intende parlar di se stesso) fiorentini, e Cino pistoiese.... Adunque se esamineremo le loquele toscane, e considereremo, come gli uomini onorati si sieno da esse loro proprio parliti, non resta in dubbio che il volgare (illustre), che noi cerchiamo, sia altro che quello che hanno i popoli di Toscana».

LXXIV. Vero è che i popoli di Toscana, che fino a Dante erano quasi tutti nel loro brutto parlare ottusi, al suo tempo, e dopo di lui tanto polirono e tanto ingentilirono i loro volgari, che in progresso acquistarono veramente quella preminenza incontrastabile sopra tutti i volgari italiani, ond' ebbero a buon dritto per tre secoli il vanto di maestri della buona favella a tutta la nazione. Ma qui ne basti aver dimostrato coli' autorità di Dante, colla storia, e colla ragione, che la Toscana non ebbe, in origine, quella raffinata coltura di linguaggio, che venne acquistando nel trecento, quattrocento e cinquecento, e che non fu, né potev' essere, in principio, come da molti si crede, maestra della buona lingua alle altre città italiane.

LXXV. Se non vi ha città che si possa dar vanto dì aver pacificamente diffuso in tutte le province italiane questo volgare illustre; se il sommo pregio della lingua non è di nessuna, e si trova in tutte le città italiane; necessariamente è d' uopo conchiudere che il volgare italico ò antichissimo patrimonio indiviso di tutti i popoli italici, e del pari altissimamente radicato ab antico in tutte le province e le città italiane. Or è da ricercare qual popolo antico ebbe tanta possanza, da imporre colla forza e colle leggi la sua lingua a tutti gli abitatori di questa contrada.

LXXVI. Non furono i romani, i quali avversi alla lingua italica, ebbero sempre per massima di profonda politica di combattere, distruggere e annientare la lingua italica, e imporre a tutti, massime agli italici, il costume e il dire latino. Dopo la caduta dell' impero romano, l' Italia non fu mai più unita, se non sotto il regno di Teodorico: ma questo re magnanimo non fece che restituire gli ordini, le leggi e i costumi della repubblica e dell' impero -, e la lingua officiale del governo degli ostrogoti era la latina, come si prova colle lettere di Cassiodoro. D' altronde nel breve periodo di cento, di dugent' anni non si cangia la lingua di un popolo. Dopo il glorioso regno di Teodorico mai più l' Italia e stata unita, mai più sottoposta a un solo governo. Degli stati diversi che si formarono di poi, non ve ne fu mai alcuno di tanta potenza, di tanta superiorità, da poter imporre, o coli' influenza morale, o per forza d' armi la sua lingua agli altri.

LXXVII. Quel che si è detto del volgare illustre cittadinesco si può in certo modo applicare eziandio ai dialetti di contado. Si odono ancor al dì d' oggi, nelle più riposte valli delle alpi marittime, cozzie, retiche, appennine ne' monti toscani, lombardi, umbri, sabini, latini, campani, siciliani, illirici e corsi, mille voci e termini, e nomi di arnesi, di vesti, di usanze, di piante, di animali, modi, dettati e proverbi, che mai furono scritti, e che solo per tradizione dalla viva voce dei maggiori si apprendono; i quali son comuni a tutti i dialetti contadineschi di un capo all' altro d'Italia, e manifestano chiaramente la loro prima origine comune. E 'l più delle voci antiche, ora disusate, dei trovatori itahani, hanno radice nei dialetti ond' ebbe origine il volgar illustre nazionale dei trovatori e dei poeti, del foro e della corte, degli storici e degli oratori.

LXXYIII. Così per mezzo dei dialetti e della lingua noi siamo inevitabilmente condotti alla scoperta di un' anlica nazionalità italiana, anteriore alla romana-, di un' era antichissima, in cui l' Italia tutta fu dominata per lungo giro di anni da un gran popolo, il quale mediante le armi le arti, il commercio, il sapere e la religione, fece di tutte le italiche membra un sol corpo compatto, di tanti volghi una gran nazione, unita sotto il medesimo impero, governata dalle medesime leggi, retta dalla medesima religione, e parlante la medesima lingua; lingua, religione, legge e impero della gran nazione osca, la gente ausonia dei greci, stipite e ceppo dal quale derivarono, dopo la caduta dell' impero degli oschi, tutti i popoli italici antichi siculi, umbri, sabini, piceni, latini, rutuli, ornici, equi aurunci, peligni, marsi, campani, sanniti, lucani, bruzzi, danni, calabri, o sallentini, tutti affini tra loro, benché politicamente divisi, di sangue, di costumi, e di linguaggi: nello stesso modo che al disfacimento dell' impero romano sorsero tanti popoli indipendenti, quante erano le province e le citta italiane, veneti, lombardi, genovesi fiorentini, bolognesi, romani, pugliesi e siciliani, che dettero il nome allo stato di cui cran principi, conservando tuttavia in tanta diversità di fortuna, li stessi costumi, la stessa religione e la stessa favella.

LXXIX. L' idioma umbro, secondo Plinio, era in tutto conforme all' etrusco, ed uniforme n' era pure la pronunzia e la scrittura. «Dalla Sabina insino all'estremità della Calabria, scrive il Micali, si favellava osco, volgare antichissimo, ed in alcuni particolari alllne coll' etrusco.... Voci comuni, dice Varrone, usavano etruschi e sabini, laddove il dialetto dei Marsi, totalmente osco, tenea maggior identità con quello dei sabini e degli crnici stessi, per naturai medesimezza di sangue e di parlari. Similmente i sanniti e altri sabelli, i campani, sidicini, appuli, lucani e bruzzi, erano a un pari di lingua osca, come apparisce con tutta certezza per l' autorila dei grammatici, per le storie e i monumenti. Grande alterazione in queste lingue, come che derivale da una stessa madre, veniva dalla pronunzia aspra e forte dell' aspirazione, la quale di sua natura per deviazioni frequenti vien creando a poco a poco insieme particolari dialetti.
L' elemento principale della lingua osca si rinviene assai chiaramente nel prisco latino. Voci e locuzioni drittamente osche porgono i frammenti di Ennio. Così nel vecchio latino, come nel dialetto osco, usavasi uguale troncamento ruvido nelle parole. Suoni barbarici eran questi agli orecchi dei greci, e nondimeno suoni o pronunzie sì tanto usuali alle genti latine, che in Roma stessa s' intendevano da tutti le popolari commedie osche. Adducono inoltre i grammatici non pochi vocaboli sabini ed etruschi, i quali sono senza alterazione nella lingua latina, o facilmente si riducono a quella».

LXXX. Varrone, il più dotto dei romani, deriva una gran parte del latino dalle voci osche. Quintiliano va ancora più oltre. Egli teneva per romane tutte le voci d'Italia.

LXXXI. Se non che, per arricchir se stessa, la lingua consolare dei latini non impoveriva già il volgare italico del popolo; che anzi prendeva anch' egli delle voci nove dal latino, da quel novo ordine di cose, da quella nova civiltà romana, secondo che afferma Quintiliano nelle isliluzioni oratorie; che «il latino a tutti diede vocaboli, e da tutti li ricevette».

LXXXII. La profonda politica de' romani non solo tendeva a imporre ai popoli sottoposti, e soprattutto agli italici, le leggi, ma ancora il costume e il dir latino. A questo fine mai vollero trattare co' popoli vinti o alleati, se non colla sola lingua latina. Con quella si dettavan le leggi, si pubblicavan le paci, si tenea giudizio, si rendeva ragione. Con queste norme, con questo fermo volere la lingua latina si diffuse per mezzo delle armi e dei commerci, in tutte le province del mondo dove si estesero le armi, l' autorità o l' influenze romane; cioè sino agli estremi confini del mondo conosciuto: di modo che al tempo di Traiano imperatore, scrive Plutarco nelle quistioni platoniche, «quasi tutti i mortali parlavano romanamente».

LXXXIII. Ma questo parlar romanamente di tutti i mortali si deve intendere per gli uomini colti delle citta civilizzate, e per quelli che occupavano gli uffici pubblici in tutte le province dell' impero, o seguivano in qualunque regione le bandiere romane; e per quelli che trattavano commerci, o che mantenevano corrispondenze e relazioni coir Italia, colle province più centrali dell' impero; perchè il popolo di contado non cangia mai affatto lingua -, e dura impresa, e da non mai poterne venir a capo, sarebbe stata quella di voler far apprendere a gente di nessuna coltura di lettere, e di corto intendimento, la dotta, la nobilissima lingua latina; la quale fu solo creata per un gran popolo, per un popolo di alto intendimento, per un popolo sovrano. E quando questo popolo, di intelligente e sovrano, divenne ignorante e schiavo dovette egli stesso deporre un linguaggio che non poteva più intendere, perchè non era più da lui, né si addiceva più a condizioni servili.

LXXXIV. Perchè gli uomini colti parlassero latino, il volgo delle citta italiche non dimenticò giammai l'antico volgare, (ho era continuamente parlato e nelle citta italiche e nella stessa Roma, Avvi nella storia un fatto significantissimo. Vi fu un tempo in cui l' Italia, sdegnata del giogo romano, si pose in core di voler frangere la superba tirannia dei latini. Otto popoli italici convennero a segreta congiura, e per solenne giuramento confederatisi tra loro, presero le armi -, risoluti di voler abbattere una citta nemica della pace di tutti i popoli. Al nome dell' indipendenza e della liberta italiana, ruppero guerra ai romani ad un tempo nel paese dei marsi e dei sanniti, con un esercito di centomila combattenti. Istituirono nova repubblica, crearono novi consoli, ordinarono novi magistrati, e batterono moneta propria, e in quelle monete scrissero subito la lingua italica, ossia l' antico volgare degli oschi.
Prevalse la disciplina e la fortuna dell' aquile latine, e i popoli italici furono vinti e oppressi; e con loro la fortuna, la lingua e lo spirito nazionale.

LXXXV. Ma quando Costantino trasferì la sede dell' impero sulle sponde del Bosforo, e, mutati i costumi romani, vennero meno le tradizioni della politica romana, e la severità delle antiche istituzioni, e il rispetto alla maestà dell' impero, il bando, che la politica dei latini aveva dato alla vinta favella italica, cessò di aver forza e vigore.
Il popolo italiano, rimasto libero dalla presenza dei Cesari, che in ogni lato oppressiva incombeva su tutti gli animi vedendosi quasi abbandonato a se stesso, cominciò a risorgere alquanto, e riprendere in parte lo spirito e il linguaggio nazionale. Sopravvenner le invasioni dei barbari, e le loro guerre sterminatrici. Disperse le accademie, chiuse le scuole, venne sempre più mancando l' istruzione e la coltura, e l' amor del sapere, e lo studio della dotta lingua latina.

LXXXVI. Le crudeli violenze che i barbari esercitarono su un popolo vinto e prostrato, ma non mai dimentico del suo antico valore, destarono il coraggio abbattuto, nel core degl'italiani. Allora, all'aspetto de' novi e continui pericoli, e al rammento dei danni e degli oltraggi sofferti dai Barbari, gli animi degl'italiani si accesero di un magnanimo sdegno; l' amor di patria, il sentimento del proprio diritto e del proprio onore si ridestarono, le Virtù guerriere e cittadine rinacquero; gli italiani presero le armi, avvisarono alla propria difesa, e valorosamente combatterono pei loro focolari. Da questa gran confusione di principi d' interessi e di razze, dal fumo degli incendi, e dal sangue su tante battaglie sparso, ne uscì fuori un popolo forte, una nazione guerriera, che alla memoria della passata grandezza, alle tradizioni del senno antico, univa il coraggio dei barlìari, e il valore degli antichi romani. Il torrente devastatore de' barbari percosse tutte le altezze: le più ricche e le più potenti famiglie, o abbandonarono le città, e si fortificarono con torri e castella in contado, o caddero nel conflitto: i principali tutti i cittadini per nobiltà per ricchezze grandi nella nazione, disparvero; e, cessata la guerra, il popolo rimase signore del campo, e raccolse i frutti del suo coraggio e del suo valore. Allora si ordinarono noi municipi, all' ombra della lontana autorità imperiale, i reggimenti popolari. Poiché, dopo aver provveduto col suo valore alla difesa dello stato, pretese il popolo d' intervenire nei pubblici consigli e di aver parte uel reggimento. Questa è la prima origine delle repubbliche italiane: di qui ebbe principio il risorgimento del popolo. Col risorgimento del popolo risorse ancora la lingua popolare; e coli' incivilimento progressivo del popolo si operò il perfezionamento del linguaggio nazionale.

 
 
 
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