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Rime di Celio Magno (201-215)

Post n°1079 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

201

Del tu' ardor sol m'appago, e ben l'intendo
quasi dagli altri lumi un sol distinto;
né scior mai potrò 'l laccio ond'ho 'l cor cinto
se per te mille vite ognora io spendo.

E d'esser tal ver te speranza prendo
quando anco io sia di questa spoglia scinto;
ma 'l tuo dir di rossor m'ha 'l viso tinto
vil oro in premio a tanta fé porgendo.

E che giova ogni don, s'ha forza tale
ch'in te rimansi, [e poco] io l'alma implico
sì ch'è congiunto il ben, congiunto il male.

Ma impoverir per me più sembra oblico
se più del tuo che del mio ben mi cale:
ed amando, ad amor ti fai nemico.

202

Alla compagnia che recitò la rappresentazione fatta al serenissimo principe il giorno di santo Stefano 1585

Schiera gentil, ch'i nudi incolti carmi
del mio finto Parnaso ornasti tanto
che del vero Parnaso il suono e 'l canto
men potea ricco e glorioso farmi.

Divino il tuo cantar, divino parmi
de la tua cortesia l'affetto e 'l vanto;
ma qual vinca di lor vo dubbio, e in tanto
di doppio nodo al cor sento legarmi.

So ben c'hanno ambeduo forza infinita,
versando in me piacer sì largo e novo
che fia cibo perpetuo a la mia vita.

Sol un amaro in tanto dolce io provo:
ch'ove d'animo grato ardor m'invita,
nulla al tuo merto il proprio sangue trovo.

203

Dopo la vittoria

Pur con tue forze il Trace in mar vincesti,
fatta di gloria a par del sol lucente,
Vinezia mia; pur in tua man possente
l'arbitrio quasi e 'l fren del mondo avesti.

Quinci al fero Ottoman si manifesti
che teco sol può rimaner perdente;
quinci tu 'l valor proprio e l'altrui mente
scorgi, e qual grazia il re del ciel ti presti.

Ma l'avanzo del ben da prima offerto
serbò, qual padre un don ch'a dolce figlia
mostri, e 'l prometta ad altro tempo e merto.

Tu segui ov'ei ti chiama, e speme piglia
che n'avrai poscia ogni alto premio e certo,
del mondo ancor reina e meraviglia.

204

Né quel Caton che 'l ferro in sé converse
de' cesarei trofei, da l'odio spinto,
né qualunque altro mal, cedendo vinto,
le crude man del proprio sangue asperse,

de la fortezza il vero lume scerse:
ch'anzi in lor fu da ciechi affetti estinto;
e 'l vizio in ciò sotto sembiante finto
de la virtute agli occhi lor sofferse.

Di fortuna sprezzar l'ira e 'l furore
por freno al senso, e quando fuor tempesta
n'assale, dentro aver tranquillo il core.

Sol in pro de la patria ed in onore
di Dio sacrarsi a vital morte onesta
è de' più forti eroi norma e splendore.

205

Musica del signor Giovanni Florio sopra la precedente canzone della vittoria.

Come in leggiadra larva adorna il viso
con ricca pompa suol ninfa mostrarsi,
che del men vago ascoso ode lodarsi
per l'eterna beltà ch'inganna il viso;

così la mia che 'l Trace in mar conquiso
musa cantò con nudi accenti e scarsi,
sente, da te vestita, in pregio alzarsi,
Florio, con armonia di paradiso.

Ché chi le sue parole ode al tuo canto
e la contempla a' tuoi bei fregi mista,
s'inganna, e l'orna del tuo proprio vanto.

Quinci il volo da te mia fama acquista,
e la tua verso il ciel s'innalza tanto
ch'altri ne perde, ad un col cor, la vista.

206

Qual frutto acerbo suol d'inculta pianta
ch'in povero terreno il ciel nodrisce,
che, s'in licor soave altri il condisce
rende sapor ch'ogni uman gusto il vanta;

tal il mio stil che 'l Trace oppresso canta,
nato d'ingegno in me che mal fiorisce,
d'aspro dolce diventa, or che s'unisce
da te con melodia celeste e santa.

Che chi le note tue divine ascolta
crida ch'Orfeo con quelle avria potuto
Euridice impetrar più d'una volta.

Ma poi fra 'l dolce grave e 'l dolce acuto
perdendo l'alma in quel concento involta,
riman per meraviglia un sasso muto.

207

Cortese albergo amico,
che larga entrata desti
a' piacer nostri, e noi stanchi accogliesti;
di che benigno cor creder debbiamo
il tuo signor gentile,
s'in te desio troviamo
d'acquistar lode in seguitar suo stile?
Dunque allor ch'egli a ritrovar se n' viene
de le sue cure in te dolce riposo,
gli dì che ben possiamo
bramargli, come al suo valor conviene,
altro assai più di te ricco e pomposo
e real tetto adorno,
ma nullo a par di te dolce soggiorno.

208

[A Giulia Recanati]

Quante, pria che da te faccia partita,
cose udirò, che lunga istoria e bella;
quante ancor tu da me, dolce sorella,
più cara a me de la medesma vita.

Ma quando al giunger mio dolce ferita
ti darà al cor la subita novella,
come festosa in atto ed in favella
ti vedrò presta al lieto nunzio uscita.

Dirai, porgendo a me la fida mano,
colma gli occhi di pianto e di diletto
- O lungamente desiato invano! -

E anch'io, teco a lagrimar costretto,
languirò di dolcezza: - O senso umano!
O mirabile in noi fraterno affetto! -

209

Al signor Orsatto Giustiniano

Piaga in ver troppo acerba, e cruda sorte
fu 'l perder lei, che vi produsse in vita:
donna d'alto valor, saggia e gradita,
or fatta dea ne la celeste corte.

Ma ciò più ch'altro il duol tempri e conforte:
che quinci in voi pietà rara infinita
scoprio ver sé, mentre per darle aita
pronto v'offriste a spaventosa morte.

Non potea 'l vostro cor più ardente segno
dar del su' affetto, e 'n più certo periglio
mostrarsi a noi d'ogni alto pregio degno.

Né d'ella ancor più gloriosa il ciglio
chiuder potea che con lasciar per pegno
di sé nel mondo un così nobil figlio.

210

In morte dell'illustrissimo signor Paolo Contarini

Mentre al celeste dal terren suo polo
sciolta e lieta se n' gia l'anima eletta,
s'udì l'altera sua patria diletta
con tai voci sfogar l'acerbo duolo:

non piango io già ch'a sì felice volo
te n' poggi dove il tuo Fattor t'aspetta;
vattene a vita pur vera e perfetta,
ch'ivi ogni nostro ben riposto è solo!

Ma sol piango il mio mal; ché teco è morto
de l'antica mia gloria un novo sole,
né trovo al mio dolor pace o conforto.

Se non ch'a queste luci orbate e sole
risplende il lume tuo, vivo e risorto
in più d'un sol de la tua chiara prole.

211

In morte di messer Francesco Colombo

Perché sì tosto, ohimè, Colombo amato
spiegasti il volo al tuo celeste nido?
E in duro pianto e doloroso strido
lasciasti a morte il nostro cor piagato?

Tu d'ogni santo e bel costume ornato,
d'ogni valor, d'ogni più caro grido,
facendo un paradiso il nostro lido
potevi ancor qua giù viver beato.

Ma perché, stolti, a quest'umana sorte
pareggiar la divina? E pianger tanto
ch'in ciel tu goda, agli angioli consorte?

Scusa l'error, felice spirto e santo,
poich'al senso non diè fortuna o morte
mai sì giusta cagion di doglia e pianto.

212

In morte dell'illustrissimo signor Andrea Badoaro

Piangea qual orba madre in nero manto
Vinezia estinto il suo diletto figlio,
ne 'l cor mai le trafisse e bagnò 'l ciglio
più grave duol con più dirotto pianto.

Era, qual padre, il ciel lieto altrettanto
veggendol fuor d'ogni mondan periglio,
né raccolse giamai da lungo essiglio
altr'alma in sé con più letizia e canto.

Quando d'alto s'udio lingua divina
gridar: - Dio tel prestò, Dio l'ha produtto,
or per sé 'l vuole, o d'Adria alma reina.

Però del largo a te concesso frutto
lodar più tosto il dei, divota e china,
che render quel ch'è suo con doglia e lutto. -

213

In morte di messer Bernardo Viviano

Mentre il Viviano, a vera gloria intento
tenendo il franco e generoso core,
fa del suo giovenetto, alto valore
noi lieti, e d'Adria il sen ricco e contento;

Morte, che del più bel caro ornamento
sempre ne spoglia, e del maggior splendore,
ha questo di virtù vivace fiore
con ogni nostro ben reciso e spento.

Ma Dio fu sol che sì gradito pegno
ritolse a questo vil secolo e tristo,
perch'era ben di possederlo indegno.

Piange or ciascuno, e dice, afflitto e tristo:
- Non perdé 'l mondo più lodato ingegno,
né 'l ciel fe' mai di più degn'alma acquisto. -

214

In morte di madonna Lucrezia Zorzi

Già sovra il sol de' begli occhi lucenti
cieca nube spiegava invida morte,
e dicea 'l mondo: - Ahi, che men dura sorte
fora a veder de l'altro i raggi spenti! -

Amor, com'uom che riparar pur tenti
con arte al suo destin malvagio e forte,
da le luci già quasi estinte e morte
tolse il bel foco in mille faci ardenti.

- Vivrà - dicendo, - almen perpetuo in queste;
e fia racceso ognor ne l'altrui petto
dal grido sol de la beltà celeste:

che potrà il suon del chiaro nome eletto
fiamme destar via più cocenti e preste
che 'l mirar vivo ogni più vago aspetto. -

215

In morte del signor Giovan Francesco Lavezuola

O d'umane speranze iniqua sorte!
Ch'ove di maggior ben frutto s'attende
ivi più tosto e d'improviso stende
sue man rapaci invidiosa morte.

Mentre d'ogni bel don che gloria apporte
te, Gianfrancesco, il ciel sì adorno rende
e Verona per te più chiara splende,
cadesti, ohimè, per destin empio e forte.

Tal vago e nobil fior ch'in ricco prato
sua pompa spiega, il capo a terra inchina,
da ria tempesta o cruda man troncato;

pianse questa di morte alta rapina
povero e mesto il mondo in ogni lato;
e lieta al ciel poggia l'alma divina.

 

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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