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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
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Rime inedite del 500 (XL)
Post n°937 pubblicato il 30 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Con quest'impura mia non degna mano, Piace al signor che non sia sparso invano, Con dargli poi quel su' incremento largo, Quasi da grave, eterno, alto letargo Destar vedrassi oltra poter umano L'eletto di Dio stuol, di cieco insano Fatto sagace e socchiuso più d'Argo. Vedransi ancor per questa fredda falda Dell'appennin le voci il ciel ferire Di gente al sant'oprar disiosa e calda. Egli che può la speme col desire Adempia e fondi in la gran pietra salda Che non curin del ciel l'impeto e l'ire. [2 Di Nino Nini] Se d'una pianta esce l'agresto e l'uva, Il primo acerbo e l'altro poi maturo, D'una radice escon' ambi e d'un seme, E, se creder si de' quel che i moderni Scrivon(o), Pepi, son piante diverse Del nero, e bianco, come ancor dell'uve E tanto e l'un, come l'altro, maturo; Né del lungo la pianta ha simiglianza Con gli altri duoi, sì come ancor del frutto, Onde bisogna con miglior ragione Trovar risposta a quei che del soero E del Pepone in una medicina Medesma usano il seme e la radice; Sì che d'altro che burle fa mestiero Al nostro amico per scior' questo nodo Senza mandar' in Grecia ambasciadori. [3 Di Nino Nini] Pascete, o pecorelle, i dolci campi Pria che sugga la rugiada il giorno, Acque pure e correnti avete attorno, Perché la dura sete non v'avampi. Né temete di lupo, che vi accampi, Se il pastor vostro fa con voi soggiorno, Ché ben vi guarda e teme danno e scorno; Che s'egli no, chi fia che più vi scampi? Dormite pur senza sospetto, o pena, O ritornate al buon pasto di pria Che franga il dente un'altra fiata e prema. Così dicea il pastor, e già s'aprìa L'ora del giorno e fuggìa l'altra estrema Et attenta la greggia sua l'udìa. [4 Di Nino Nini] Canzone dello stesso. Sì dilettosa valle, o colle ameno Non vide forse mai Cipro, né Cinto Quanto quel ch'io mirai mentre al ciel piacque. Quivi era più che altrove il ciel sereno, Quivi il terren più verde e più dipinto; L'aura più grata e più salubri l'acque, Onde nel cuor mi nacque Alto desìo di farvi albergo eterno, E 'l pie' fermai; ma fu pensier mal saggio, Ché quel fiorito Maggio Tosto cangiossi in bisso, orrido verno, Dove continua pioggia ancor discerno. Felice pianta in quel medesmo colle Fu trasportata, e col favor del loco Di picciol tronco al ciel s'andava alzando Quando il sole ha più forza e 'l terren bolle. Chi s'appressava a la dolc'ombra un poco Ponea la noia e la stanchezza in bando; Ivi s'udìa cantando Febo scordato del suo lauro verde Tesser' d'olmo ghirlande a le sue chiome, Ed ecco, non so come, Riman negletta e la vaghezza perde, E serba appena del suo ceppo il verde. Fior d'un bosco sacrato e verde sempre Lasciando il nido ove pur nacque dianzi Parvoletto leone uscia veloce. Quell'età par ch'ogni fierezza tempre, E con questo pensier gli corsi innanzi Et umano il trovai, più che feroce; Ma il troppo ardir poi noce, Perché seco scherzando in un momento D'ira s'accese, e con turbato aspetto Squarciommi i panni e 'l petto; E partissi da me con passo lento Tal che solo a pensarvi ancor pavento. D'oro sparso e di gemme alfine scorsi Purpureo letto, ove dormìa soave Giovane illustre di ferir già stanco, Nel cui bel corpo, ove le luci io porsi Grazia vidi e beltà quant'amor hàve; Dove ogni stile, ogni pensier vien manco, Ma sovra l'omer bianco Volar faville dal mio petto acceso Nel mirar lui, che 'l mondo accende e sforza Così, desto per forza, Via sen' volò quasi d'ingiuria offeso, Io restar cieco e ne' suoi lacci preso, Canzon mia, se di questo Al triste avviso fui mesto a dolente, Che fia poi che 'l mio danno è già presente? [5 Di Nino Nini] Standomi sol co' miei pensieri un giorno Cose vedea di maraviglia piene, Che presagio fur' poi d'angoscia e pianto. Caro armellin di sua bianchezza adorno, Che pur col pie' facea le piaggie amene, Vago m'apparve e mi passò d'accanto. Era leggiadro tanto Che ciascun' alma nobile e cortese Bramò d'aver sì bella fiera in mano; Ma perfido villano Col fango intorno la rinchiuse e prese Onde pietate e sdegno il cuor m'accese. Quasi in quel punto agli occhi miei s'offerse Dolce, amoroso, candido colombo, Né tale il carro a la sua dea sostenne Dal cielo, ove le nubi eran disperse. Quasi un augel calar vedeasi a piombo E fender l'aria senza mover penne Da traverso poi venne Griffagno augello e di rapina ingordo, E seco trasse l'innocente e puro Col fiero artiglio e duro, Ch'era di furti e d'altre macchie lordo E sospiro qualor me ne ricordo. [6 Di Nino Nini] Sonetti di monsignor Potentia Ch'aspro dolor vi prema è ben ragione, Se il vostro danno e il pubblico stimate, E se quanto vi spinge la pietate, Di pianto eterno siete alta cagione. Ma riguardando in chi tutto dispone, Che ritoglie et in questa e 'n quell'etate Chiunque egli vuol, ond'è che vi turbate E divien l'alma qual'è la stagione. Ché non correte a quel dolce liquore Che pronto agli altri sovente porgete Onde salve ne son mille ferute. Vostra non si può dir quella virtute, Ch'aita altrui, e 'l vostro gran dolore, Non lieva, né sanarvi ivi potete. [7 Di Geremia Guglielmi] Canzone del Guglielmi. Benigno amor, che col tuo lume santo Il tutto allumi e dolcemente reggi, Priegioti che propizio a me ti mostri, E dai superni chiostri Mentre le lodi tue rinnovo e canto Fa che l'impresa il mio poter pareggi. Tu che le prime leggi Di poesia dettasti, oggi a me chiare Le mostra, e 'l don rivolgi in tuo favore Acciò che 'l mondo impare Quanto sei grande e sei divin, o Amore! [8 Di Cesare Malvicini] Di Cesare Malvicini. Per mostrar quanto possa un cuor mortale Quando per camin dritto al cielo è volto Colui che a morte con sua morte ha tolto L'umane gente sì smarrita e frale Mosse di Catarina esempio tale Ch'è il mondo tutto in gran stupore involto: Ne gode il ciel di lei mirando il volto, Non men qui che lassù fatto immortale. Di Cristo ella si attese all'aspra vita Che quant'anni ei portò terrestre soma Tant'il seguìo pur coi sensi afflitti. Ei l'alme al cielo, ella i suoi scettri a Roma Rivolse, e se ei ferito, ella ferita Si vidde il cor, le mani e i pie' trafitti. [9 Di Annibale Di Osma] Di m. Annibal d'Osma. Il bel raggio, signor, lucente e chiaro Che il sol delle virtù vostre diffonde, Cotanto all'alma mia splendore infonde Che d'ir volando al ciel la strada imparo. Ecco già già comincia essermi caro, Assiso all'ombra della sacre fronde Fra fior diversi e 'l mormorio dell'onde Far' ingiuria cantando al tempo avaro. Oh chi fia che mi dette le parole Pari al pensier, onde la mente è piena, Mentre al vostro cantar tutta s'accende. Venga d'Apollo il coro, o, s'egli attende Per coronarvi il crin, pur, come suole, Prestatemi il dir voi, l'arte, e la vena. [10 Di Scipion Da Castro] Versi sciolti di Scipion da Castro. Alta cagion, che in un momento desti Alle cose create ordine e stato, Stabil motor, fonte dell'esser vero, Che ti pasci di fuoco e in fuoco alberghi, Porgi l'orecchio e gira gli occhi insieme Alle dolenti mie parole estreme. Voce e lingua son' io degli elementi, E di quanto è quaggiù sotto la luna, Io sono, o re del ciel, quella stupenda Opra della tua man, la qual pur dianzi Traesti fuor de la confusa massa Quando in sul carro del tuo amor portato Era lo spirto tuo sopra gli abbissi Dell'indigesta mole, or vaga e bella. Fur' le bellezze mie di così estrema, Di sì profonda meraviglia all'occhio Dell'angelica mente, che io talora Le piacqui al par de' suoi stellanti chiostri, Perché imagine son di quell'eterne Idee, che impresse dal tuo raggio han vita Nel sen dell'increata e prima mente Per l'altissimo parto a te sol noto. Ma tra quanto crear giamai ti piacque Dall'antartico all'Orse nel mio grembo, Tu sai, padre del ciel, che l'uomo solo Fo dell'opere tue l'ultimo colmo; Perché cinto di gloria e d'onor pieno, Alla sembianza tua lungi da morte Poco minor degli angeli il formasti Quasi un signor dell'universo in terra. Questo fu sol partecipe e consorte Dell'immortalità fra gli elementi; A questo sol fu destinato il cielo (Come spron che sovente il purga e mova) Il desìo del saper l'eterne cause Delle cose create, e l'intelletto Potente a penetrarla, atto ad unirsi Col su' fattor; e alfin volesti ch'egli Solo fra quanto scalda e gira il sole Fusse arbitro dell'opra eccelsa e magna, Tutto creando a lui, cui per te solo Il mondo un tempio, egli era un sacerdote Che delle glorie tue la notte, il giorno Offrirti il sacrificio sol potea, Perché sol ti conosce, e sol ti adora. Oggi è caduto, oggi è caduto, o padre, Questo gran sacerdote, e fatto servo Del cieco senso, e del serpente antico; Oggi nel trasgredir l'alto precetto Al giusto sdegno, all'ira tua destina Tutta la massa ne' suoi lombi ascosa Del seme uman della futura gente. Questa è la porta, ond'oggi entra nel mondo Superbamente trionfando morte; Oggi il peccato al re dell'ombre dona L'imperio della vita, e nell'inferno Registra di sua man l'obligo eterno Dell'immortal morir, che l'uomo ha seco. Veramente infinita è la sua colpa, Veramente condegne son le pene, E giusta veramente è la sentenza. O autore della vita, mai potrai Consentir ch'altri ad altro fin rivolga Questo miracol tuo, quest'opra altera, Questa sembianza tua, che tanto amasti? De le tue lodi risonar l'inferno Non potrà mai; né cosa nel mio seno Creasti che lodar sappia il tuo nome; Chi solo il potea far, morte ci ha tolto. Però sovienmi, alto monarca, come Tutto quel ch'egli in Dio, è Dio anch'esso, Né mancar gli si può, né si conviene. Son dell'essenza tua parti supreme (Se pur nell'unità si trovan parti). Con la giustizia, la clemenza insieme, Queste leggiadre due vaghe sorelle Fur' sempre teco pria che 'l moto al tempo Desse principio, e nel formar del mondo Furno dell'opre tue fide ministre. Alla giustizia ha sodisfatto a pieno Oggi conforme al temerario fallo E 'n giusta parte la sentenzia cadde. L'altra dormir non può perpetuamente, O fonte di pietà, nel vostro petto; Ma sarà forza alfin ch'ella si desti, Non perché io sappia dir come, né quando Ch'io non entro per me senz'altra scorta; Né quegli alati tuoi corrieri ardenti Né l'infinito mar, ne gli alti abissi Del tuo profondo incognito consiglio; Ma sol ti prego, mio signore e padre, Ch'affretti il tempo, e dal tuo grembo tosto Si vegga uscir quel desïato giorno Che la clemenza abbia l'impero in mano. Si vedran poi delle divine grazie Tutti i fonti versar, tutte le vene, Tutti i tesori tuoi partir coll'uomo, Perché siccome nel formarlo hai vinto Tutte l'altre stupende meraviglie Nel riformarlo vincerai te stesso. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
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il 17/04/2023 alle 16:00
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il 15/04/2023 alle 00:02