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Rime inedite del 500 (XL)

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XL

[1 Di Nino Nini]

Sonetti di Monsignor di Potentia Nino Nini viterbese.

Se 'l buon celeste seme ch'ora spargo

Con quest'impura mia non degna mano,
Piace al signor che non sia sparso invano,
Con dargli poi quel su' incremento largo,

Quasi da grave, eterno, alto letargo
Destar vedrassi oltra poter umano
L'eletto di Dio stuol, di cieco insano
Fatto sagace e socchiuso più d'Argo.

Vedransi ancor per questa fredda falda
Dell'appennin le voci il ciel ferire
Di gente al sant'oprar disiosa e calda.

Egli che può la speme col desire
Adempia e fondi in la gran pietra salda
Che non curin del ciel l'impeto e l'ire.

[2 Di Nino Nini]

Se d'una pianta esce l'agresto e l'uva,
Il primo acerbo e l'altro poi maturo,
D'una radice escon' ambi e d'un seme,
E, se creder si de' quel che i moderni
Scrivon(o), Pepi, son piante diverse
Del nero, e bianco, come ancor dell'uve
E tanto e l'un, come l'altro, maturo;
Né del lungo la pianta ha simiglianza
Con gli altri duoi, sì come ancor del frutto,
Onde bisogna con miglior ragione
Trovar risposta a quei che del soero
E del Pepone in una medicina
Medesma usano il seme e la radice;
Sì che d'altro che burle fa mestiero
Al nostro amico per scior' questo nodo
Senza mandar' in Grecia ambasciadori.

[3 Di Nino Nini]

Pascete, o pecorelle, i dolci campi
Pria che sugga la rugiada il giorno,
Acque pure e correnti avete attorno,
Perché la dura sete non v'avampi.

Né temete di lupo, che vi accampi,
Se il pastor vostro fa con voi soggiorno,
Ché ben vi guarda e teme danno e scorno;
Che s'egli no, chi fia che più vi scampi?

Dormite pur senza sospetto, o pena,
O ritornate al buon pasto di pria
Che franga il dente un'altra fiata e prema.

Così dicea il pastor, e già s'aprìa
L'ora del giorno e fuggìa l'altra estrema
Et attenta la greggia sua l'udìa.

[4 Di Nino Nini]

Canzone dello stesso.

Sì dilettosa valle, o colle ameno
Non vide forse mai Cipro, né Cinto
Quanto quel ch'io mirai mentre al ciel piacque.
Quivi era più che altrove il ciel sereno,
Quivi il terren più verde e più dipinto;
L'aura più grata e più salubri l'acque,
Onde nel cuor mi nacque
Alto desìo di farvi albergo eterno,
E 'l pie' fermai; ma fu pensier mal saggio,
Ché quel fiorito Maggio
Tosto cangiossi in bisso, orrido verno,
Dove continua pioggia ancor discerno.
Felice pianta in quel medesmo colle
Fu trasportata, e col favor del loco
Di picciol tronco al ciel s'andava alzando
Quando il sole ha più forza e 'l terren bolle.
Chi s'appressava a la dolc'ombra un poco
Ponea la noia e la stanchezza in bando;
Ivi s'udìa cantando
Febo scordato del suo lauro verde
Tesser' d'olmo ghirlande a le sue chiome,
Ed ecco, non so come,
Riman negletta e la vaghezza perde,
E serba appena del suo ceppo il verde.
Fior d'un bosco sacrato e verde sempre
Lasciando il nido ove pur nacque dianzi
Parvoletto leone uscia veloce.
Quell'età par ch'ogni fierezza tempre,
E con questo pensier gli corsi innanzi
Et umano il trovai, più che feroce;
Ma il troppo ardir poi noce,
Perché seco scherzando in un momento
D'ira s'accese, e con turbato aspetto
Squarciommi i panni e 'l petto;
E partissi da me con passo lento
Tal che solo a pensarvi ancor pavento.
D'oro sparso e di gemme alfine scorsi
Purpureo letto, ove dormìa soave
Giovane illustre di ferir già stanco,
Nel cui bel corpo, ove le luci io porsi
Grazia vidi e beltà quant'amor hàve;
Dove ogni stile, ogni pensier vien manco,
Ma sovra l'omer bianco
Volar faville dal mio petto acceso
Nel mirar lui, che 'l mondo accende e sforza
Così, desto per forza,
Via sen' volò quasi d'ingiuria offeso,
Io restar cieco e ne' suoi lacci preso,
Canzon mia, se di questo
Al triste avviso fui mesto a dolente,
Che fia poi che 'l mio danno è già presente?

[5 Di Nino Nini]

Standomi sol co' miei pensieri un giorno
Cose vedea di maraviglia piene,
Che presagio fur' poi d'angoscia e pianto.
Caro armellin di sua bianchezza adorno,
Che pur col pie' facea le piaggie amene,
Vago m'apparve e mi passò d'accanto.
Era leggiadro tanto
Che ciascun' alma nobile e cortese
Bramò d'aver sì bella fiera in mano;
Ma perfido villano
Col fango intorno la rinchiuse e prese
Onde pietate e sdegno il cuor m'accese.
Quasi in quel punto agli occhi miei s'offerse
Dolce, amoroso, candido colombo,
Né tale il carro a la sua dea sostenne
Dal cielo, ove le nubi eran disperse.
Quasi un augel calar vedeasi a piombo
E fender l'aria senza mover penne
Da traverso poi venne
Griffagno augello e di rapina ingordo,
E seco trasse l'innocente e puro
Col fiero artiglio e duro,
Ch'era di furti e d'altre macchie lordo
E sospiro qualor me ne ricordo.

[6 Di Nino Nini]

Sonetti di monsignor Potentia

Ch'aspro dolor vi prema è ben ragione,
Se il vostro danno e il pubblico stimate,
E se quanto vi spinge la pietate,
Di pianto eterno siete alta cagione.

Ma riguardando in chi tutto dispone,
Che ritoglie et in questa e 'n quell'etate
Chiunque egli vuol, ond'è che vi turbate
E divien l'alma qual'è la stagione.

Ché non correte a quel dolce liquore
Che pronto agli altri sovente porgete
Onde salve ne son mille ferute.

Vostra non si può dir quella virtute,
Ch'aita altrui, e 'l vostro gran dolore,
Non lieva, né sanarvi ivi potete.

[7 Di Geremia Guglielmi]

Canzone del Guglielmi.

Benigno amor, che col tuo lume santo
Il tutto allumi e dolcemente reggi,
Priegioti che propizio a me ti mostri,
E dai superni chiostri
Mentre le lodi tue rinnovo e canto
Fa che l'impresa il mio poter pareggi.
Tu che le prime leggi
Di poesia dettasti, oggi a me chiare
Le mostra, e 'l don rivolgi in tuo favore
Acciò che 'l mondo impare
Quanto sei grande e sei divin, o Amore!

[8 Di Cesare Malvicini]

Di Cesare Malvicini.

Per mostrar quanto possa un cuor mortale
Quando per camin dritto al cielo è volto
Colui che a morte con sua morte ha tolto
L'umane gente sì smarrita e frale

Mosse di Catarina esempio tale
Ch'è il mondo tutto in gran stupore involto:
Ne gode il ciel di lei mirando il volto,
Non men qui che lassù fatto immortale.

Di Cristo ella si attese all'aspra vita
Che quant'anni ei portò terrestre soma
Tant'il seguìo pur coi sensi afflitti.

Ei l'alme al cielo, ella i suoi scettri a Roma
Rivolse, e se ei ferito, ella ferita
Si vidde il cor, le mani e i pie' trafitti.

[9 Di Annibale Di Osma]

Di m. Annibal d'Osma.

Il bel raggio, signor, lucente e chiaro
Che il sol delle virtù vostre diffonde,
Cotanto all'alma mia splendore infonde
Che d'ir volando al ciel la strada imparo.

Ecco già già comincia essermi caro,
Assiso all'ombra della sacre fronde
Fra fior diversi e 'l mormorio dell'onde
Far' ingiuria cantando al tempo avaro.

Oh chi fia che mi dette le parole
Pari al pensier, onde la mente è piena,
Mentre al vostro cantar tutta s'accende.

Venga d'Apollo il coro, o, s'egli attende
Per coronarvi il crin, pur, come suole,
Prestatemi il dir voi, l'arte, e la vena.

[10 Di Scipion Da Castro]

Versi sciolti di Scipion da Castro.

Alta cagion, che in un momento desti
Alle cose create ordine e stato,
Stabil motor, fonte dell'esser vero,
Che ti pasci di fuoco e in fuoco alberghi,
Porgi l'orecchio e gira gli occhi insieme
Alle dolenti mie parole estreme.
Voce e lingua son' io degli elementi,
E di quanto è quaggiù sotto la luna,
Io sono, o re del ciel, quella stupenda
Opra della tua man, la qual pur dianzi
Traesti fuor de la confusa massa
Quando in sul carro del tuo amor portato
Era lo spirto tuo sopra gli abbissi
Dell'indigesta mole, or vaga e bella.
Fur' le bellezze mie di così estrema,
Di sì profonda meraviglia all'occhio
Dell'angelica mente, che io talora
Le piacqui al par de' suoi stellanti chiostri,
Perché imagine son di quell'eterne
Idee, che impresse dal tuo raggio han vita
Nel sen dell'increata e prima mente
Per l'altissimo parto a te sol noto.
Ma tra quanto crear giamai ti piacque
Dall'antartico all'Orse nel mio grembo,
Tu sai, padre del ciel, che l'uomo solo
Fo dell'opere tue l'ultimo colmo;
Perché cinto di gloria e d'onor pieno,
Alla sembianza tua lungi da morte
Poco minor degli angeli il formasti
Quasi un signor dell'universo in terra.
Questo fu sol partecipe e consorte
Dell'immortalità fra gli elementi;
A questo sol fu destinato il cielo
(Come spron che sovente il purga e mova)
Il desìo del saper l'eterne cause
Delle cose create, e l'intelletto
Potente a penetrarla, atto ad unirsi
Col su' fattor; e alfin volesti ch'egli
Solo fra quanto scalda e gira il sole
Fusse arbitro dell'opra eccelsa e magna,
Tutto creando a lui, cui per te solo
Il mondo un tempio, egli era un sacerdote
Che delle glorie tue la notte, il giorno
Offrirti il sacrificio sol potea,
Perché sol ti conosce, e sol ti adora.
Oggi è caduto, oggi è caduto, o padre,
Questo gran sacerdote, e fatto servo
Del cieco senso, e del serpente antico;
Oggi nel trasgredir l'alto precetto
Al giusto sdegno, all'ira tua destina
Tutta la massa ne' suoi lombi ascosa
Del seme uman della futura gente.
Questa è la porta, ond'oggi entra nel mondo
Superbamente trionfando morte;
Oggi il peccato al re dell'ombre dona
L'imperio della vita, e nell'inferno
Registra di sua man l'obligo eterno
Dell'immortal morir, che l'uomo ha seco.
Veramente infinita è la sua colpa,
Veramente condegne son le pene,
E giusta veramente è la sentenza.
O autore della vita, mai potrai
Consentir ch'altri ad altro fin rivolga
Questo miracol tuo, quest'opra altera,
Questa sembianza tua, che tanto amasti?
De le tue lodi risonar l'inferno
Non potrà mai; né cosa nel mio seno
Creasti che lodar sappia il tuo nome;
Chi solo il potea far, morte ci ha tolto.
Però sovienmi, alto monarca, come
Tutto quel ch'egli in Dio, è Dio anch'esso,
Né mancar gli si può, né si conviene.
Son dell'essenza tua parti supreme
(Se pur nell'unità si trovan parti).
Con la giustizia, la clemenza insieme,
Queste leggiadre due vaghe sorelle
Fur' sempre teco pria che 'l moto al tempo
Desse principio, e nel formar del mondo
Furno dell'opre tue fide ministre.
Alla giustizia ha sodisfatto a pieno
Oggi conforme al temerario fallo
E 'n giusta parte la sentenzia cadde.
L'altra dormir non può perpetuamente,
O fonte di pietà, nel vostro petto;
Ma sarà forza alfin ch'ella si desti,
Non perché io sappia dir come, né quando
Ch'io non entro per me senz'altra scorta;
Né quegli alati tuoi corrieri ardenti
Né l'infinito mar, ne gli alti abissi
Del tuo profondo incognito consiglio;
Ma sol ti prego, mio signore e padre,
Ch'affretti il tempo, e dal tuo grembo tosto
Si vegga uscir quel desïato giorno
Che la clemenza abbia l'impero in mano.
Si vedran poi delle divine grazie
Tutti i fonti versar, tutte le vene,
Tutti i tesori tuoi partir coll'uomo,
Perché siccome nel formarlo hai vinto
Tutte l'altre stupende meraviglie
Nel riformarlo vincerai te stesso.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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