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Rime inedite del 500 (XXXIX-3)

Post n°936 pubblicato il 30 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

[27 Di Latino Latini]

Alla signora Marchesa di Mortara quando la rividdi perche' già quindici anni non l'avevo veduta.

La suprema beltà che in voi fioriva
Nella più fresca e più tenera etade,
Congiunta con mirabile onestade
Veggio ora in voi più che mai verde e viva.
 
Mercè del gran splendor che dentro arriva
Grazia, onestà, bellezza e majestade
E alluma l'alma, onde per ampie strade
Nell'amata sua spoglia esce e deriva.
 
Ben si può dir che a sì gradita e bella
Virtù che a pochi il ciel largo destina
Non si dovea men onorato albergo.
 
Ond'io per voi, come mia fida stella,
Mirando la sembianza alta e divina
Ogni mia speme a fin più felice ergo.

[28 Di Latino Latini]

Né fra' Greci Platon seppe mai tanto,
Né di Roma l'oracol Cicerone,
Né fra gl'Ebrei quel saggio Salomone
Che lodò più che 'l riso, il mesto pianto,
 
Quanto sapete voi, prudente e santo
Riformatore della religione,
Che d'esser tale con giusta ragione
Potete sovra ognun sol darvi il vanto.
 
Poscia che contro il precetto divino
Che n'astringe ad amar come fratelli
L'un l'altro, e figli dell'eterno padre
 
Ardite d'insegnarci che 'l Latino
Cosa commune aver non de' con quelli
A cui la Duera, o la Garonna è madre.

[29 Di Latino Latini]

Chi sarà mai, signor, che ponga mano
All'osservanza di tua santa legge,
Che per salute dell'amata gregge
Desti, e per fren dell'appetito umano,
 
Se 'l Tosco, Umbro e Latino, e se 'l Romano,
Che 'l vero successor di Pietro regge,
E con pietosa verga ognor corregge
Per barbaro terrà 'l Gallo e l'Ispano?
 
Scancellasti col sangue tuo, signore,
L'orrendo scritto, ch'all'empio tiranno
Ne fe' soggetti dal peccar d'Adamo.
 
A fin che l'un con l'altro, per amore
Così stessem' uniti col dolce amo
Come in un corpo molte membra stanno.

[30 Di Latino Latini]

Indarno, signor mio, scendesti in terra
Per farne tutti eredi del tuo regno,
Vincendo col morir su l'aspro legno
L'empio tiranno nostro in giusta guerra,
 
E col dare a san Pietro, ond'apre e serra
Del ciel la porta non per vano segno;
Ma per sicuro indubitato pegno
Le sante chiavi con che mai non erra.
 
Se sarà mai vero che al Latino
Lecito sia per barbaro e nemico
Tener Gallo, Tedesco, Inglese, o Ispano,
 
E che contro il precetto tuo divino
Non faccia chi non abbia per amico
Come sé stesso ciaschedun cristiano.

[31 Di Latino Latini]

Indarno, signor mio, squarciasti il velo
Del già famoso tempio con tua morte,
E indarno dissipasti l'alta e forte
Maceria per aprirne il passo al cielo.
 
E 'ndarno acceso d'amoroso zelo
Patisti in questa vita ogn'altra sorte,
Seminando per vie lunghe e distorte
La nuova legge del santo evangelo;
 
Poiché nato è Dottor, che con altiero
Ciglio c'insegni esser vano il seguire
L'esempio scritto del Sammaritano.
 
Anzi di proibirci ha preso ardire
L'amico conversar con uomo 'Spano,
Ch'ei per barbaro tiene e per straniero.

[32 Di Latino Latini]

Da che 'l grande Appennin le genti strane
Scurò da questa chiara e bella parte,
Quelle doti ch'agli altri il ciel comparte
Tutte in lei giunse, compite e sovrane.
 
Vinser il mondo già l'armi Romane
Ond'illustri lasciar' mille e più carte;
Successe poi alla città di Marte
Quella, che fa stupir le menti umane.
 
Chiudesi il mare, ove 'l pie' pone e spande
Che la riga, circonda e la difende,
E reverente a lei senz'onda giace.
 
Quivi è quel secol sempre, che le ghiande
Vider già prima, et hor Venezia rende,
Cui senza fin die' Giove imperio e pace.

[33 Di Latino Latini]

La più salda colonna, e la maggiore,
Che sostenesse l'edificio intero,
Che fondò Cristo e consegnollo a Piero,
È rotta, e seco è spento il bel valore.
 
Piangene Roma, e mostrarà dolore
Fin ch'in mar corra il Tebro, e che l'altèro
Tarpèo si nomi, o mentre il santo impero
Conservarà da Cristo il preso onore.
 
Mille e mille anni volgeransi pieni
Pria che di morte si ristauri tanto
Danno, che col crudel colpo n'ha fatto.
 
Degno fu delle chiavi e del gran manto,
Già il ciel non volle, invido ai nostri beni,
Hor le nemiche parche se l'han ratto.

[34 Di Latino Latini]

Quando mi volto tutto in quella parte
Dove l'immensa tua bontà riluce
Mercè del raggio dell'eterna luce
Ch'agli occhi ciechi tua bontà comparte,
 
S'infiamma sì di lei la fragil parte
Ch'al lungo errar mi fu ministra e duce,
Che d'ardenti sospir, ch'ognor produce,
E di lagrime al duol faccio ampia parte.
 
Poscia mirando indietro il gran periglio,
A cui lontan da te fui sì vicino
Raddoppio il pianto e con temenza grido:
 
Pietoso padre, che all'unico figlio
Per me non perdonasti, e 'n cui mi fido,
Volgi i miei passi al tuo dritto camino.

[35 Di Latino Latini]

Che fai, alma, che pensi? Avrà mai tregua
L'avida sete delle furtive acque,
Che già gran tempo in sul fiorir si nacque,
O fia ch'all'ultim'ora ancor si segua?
 
Non vedi che per essa si dilegua
Ogni onesto pensier, che pria ti piacque,
Quando agli orecchi del tuo cuor non tacque
Quella ch'a cori angelici n'adegua?
 
Che fia d'onde di te gravoso pondo
Poscia che per saziar l'ingorda sete
Assai fiume non t'è stagno, o palude?
 
Porrai forte la bocca al mar profondo,
Ove amo mai non penetrò, né rete,
E che la terra in te raccoglie e chiude?

[36 Di Latino Latini]

Quando ai bei raggi dell'eterno lume
Alzerai gli occhi, alma smarrita, e quando
Del lungo error accorta, lacrimando
Sarai breve ruscel, non ch'ampio fiume?
 
E quando dal tiranno empio costume
Il pie' veloce indietro ritirando
Darai pur finalmente un giorno bando
Al pigro sonno, all'ozïose piume?
 
Destati, neghittosa, anzi che l'ombra
Della perpetua notte agli occhi vete
Il mai più riveder l'amata luce;
 
Ch'aver non può la cieca infelice ombra
Dopo l'eterno oblìo del freddo Lete
Per addietro tornar ministra, o duce.

[37 Di Latino Latini]

L'ardita lupa, che da' crudi artigli
Dell'aquila rapace ha scosso il dorso,
E rotto 'l duro e insopportabil morso
Che la tenea fra tanti perigli.
 
Tutta sanguigna, e lieta ai cari figli
Dicea rivolta: hor'è pur tronco il corso
Delle miserie nostre, or' che soccorso
Ne vien' sì fido dagli aurati gigli.
 
Guardate come dagli acuti et empi
Morsi ne tolgon dell'augel' nemico
Tante ferite nel mio corpo impresse.
 
Ergete dunque a questi altari e tempi,
Ove scritto si legga: al grande Enrico
Liberator delle cittadi oppresse.

[38 Di Latino Latini]

Ne la venuta di Monsignor di Potentia a monsignor Tommaso Sperandio da Fano.

Prendiam dell'odorate e pure fronde
Per far con riverenza al sacro altare
Solenne festa; poiché grazie rare
L'alto signor ai nostri voti infonde.
 
Falde di vaghi fior d'ambe le sponde
Pendano, e sovra prezïose e care
Spoglie, che dotte mani, e non avare,
Abbian tessuto e d'arte, e d'or feconde.
 
Quivi stendendo insieme al ciel le palme
Cantiam lode al fattor, ch'oggi ne renda
In patria salvo il nostro car' signore.
 
E tu dalla cui man benigna pende
Ogni ben, longo tempo in tuo favore
Lo serba a glorïose, eterne palme.

[39 Di Latino Latini]


A monsignor Maffei per monsignor mio. Risposta.

Un Semiviterbese (un) Arcipreta
Nella guardia degli orti molto dotto,
Monsignor mio, ha tutta Roma indotto
A tenerlo per vero e gran profeta. 
Ei scrisse già, che la carota acqueta
Dolor di corpo senza mosto cotto
Prendendone unce sedici, o diciotto
Per dietro pasto, a guisa di cupetta. 
E che da questa gli animi egri e stanchi
Dallo spettar riceve(v)a più sostanza
Che d'infinito numer(o) di baiocchi.
Né fu mai vero che Germania, o Franza
Ne mandasse a Tiberio, anzi balocchi
Son stati questi chiosator sì franchi.
Se non avete granchi
Pigliatene ad ogn'or, ché in questa vita
Fa i sani ella gioir, gl' infermi aìta.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 
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Data di creazione: 26/04/2008
 

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