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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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L'occhio del coniglio 24. Mi ha telefonato la mamma di Luigi - Secondo pezzo

Post n°724 pubblicato il 31 Marzo 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

(Il primo pezzo è qui)

 

 

Settembre a Milano è il mese più bello, pensò tornando a casa dopo gli orali. Ancora due settimane prima che ricominci la scuola, non fa caldo e non fa freddo e se si ha cura di mettere la crema le gambe restano abbronzate, si può andare in giro senza calze.
Marilena aveva avuto matematica e fisica, era rientrata anche lei ma i suoi genitori erano andati in crociera, era a casa da sola, a parte la mattina che c’era la donna di servizio. Con la scusa di finire i compiti delle vacanze Anita andava da lei tutti i pomeriggi. I ragazzi le raggiungevano verso le cinque, Marilena e Gianluca andavano nella camera dei genitori, Anita e Luigi stavano in salotto sul divano.
“Se vuoi…” disse lei. Era la prima volta che stavano soli, veramente soli in una stanza. Quando gli altri due avevano chiuso la porta – a chiave - facendo ciao con la mano, avevano ridacchiato e non si erano guardati. Guardavano invece il grande divano a fiori, i ninnoli sul tavolino di vetro, le cornici d’argento sul cassettone antico, i tendoni drappeggiati con le mantovane di velluto, che lusso.
Lui sorrise senza dire niente, la spinse giù sul divano e le mise le mani sotto la maglietta. Lei si inarcò con le braccia indietro e fece scattare il gancetto, finalmente lo sentiva sulla pelle. Senza smettere di baciarla lui l’accarezzava dappertutto, sulla schiena, sui fianchi, sulla pancia, sulla cerniera dei jeans. Lei sentiva un rombo nelle orecchie e le girava la testa, con gli occhi chiusi vedeva i colori dell’arcobaleno, le mancava il fiato come dopo una corsa. Quando le sollevò la maglietta e avvicinò la bocca al suo seno sinistro non sapeva più chi era. Lui le baciava i capezzoli e la accarezzava, la mano si incagliò nel bottone, lei tirò in dentro la pancia e la lasciò scivolare sotto la stoffa ruvida.
“Fermo” disse aprendo gli occhi e tirandosi su a sedere. Lui ritrasse la mano spaventato.
“Cosa c’è?”
“Niente. Ho paura.”
Lui sorrise, la abbracciò e ricominciò a baciarla sulla bocca. E ancora carezze e ancora il respiro corto e ancora lui si avvicinò circospetto al bottone dei pantaloni e girellava con la mano sull’ombelico.
“Dai riproviamo” disse lei tra i sospiri e ancora lui si infilò tra la stoffa e la pelle, superò la barriera delle mutandine e arrivò a lambire il pelo.
“Aspetta” di nuovo lei si era seduta, lui aveva tolto la mano e la guardava sorridendo.
“Aspetta un momento, adesso mi passa.”
Lui non si spazientiva, non si arrabbiava, non chiedeva. Sorrideva e aspettava che lei dicesse vai oppure fermati. Lei voleva ma non ce la faceva. Chissà perché. Aveva una paura folle. Ma era testarda. Non si sarebbe fermata, a costo di avanzare un centimetro alla volta. Meno male che i genitori di Marilena sarebbero stati via una settimana, che pare molto o molto poco, a seconda del punto di vista, come del resto parevano molto o molto poco le loro esplorazioni, come se dovessero restare preliminari per sempre. Per quella settimana di sicuro.
Ricominciò la scuola, lui fu mandato in un diplomificio per tentare di recuperare l’anno, lei continuò nella solita classe ma non le interessava più come prima. Aspettava solo il sabato pomeriggio per andare al cinema con lui. Alternative non ne avevano, avrebbe voluto avere un posto tranquillo ma i genitori di Marilena stavano a casa. I suoi genitori uscivano alla sera ma c’era suo fratello sempre tra i piedi.
Anita fantasticava di trovare un albergo dove non chiedessero i documenti, oppure un amico grande che gli prestasse la casa, la macchina no, nessuno dei due aveva la patente, lei non aveva nemmeno l’età. Si sentiva pronta e decisa, voleva andare fino in fondo, glielo diceva alla sera al telefono. Lui non metteva in dubbio e comunque non c’era modo di verificare. Non prendeva iniziative, non si lamentava, sembrava non avesse desideri o ambizioni. Se ne aveva non li esprimeva. Non parlava mai molto ma certe volte piombava in silenzi oscuri e impenetrabili che lo avvolgevano come un campo di forza invisibile. Non rispondeva nemmeno a monosillabi, non reagiva alle effusioni, il suo corpo era lì ma lui chissà dov’era. Lei gli apriva l’eskimo e gli si stringeva addosso infilandosi in un abbraccio che lui ricambiava passivamente, a volte poggiandole il mento sulla testa, a volte chiudendo le braccia in un riflesso condizionato. Era stato così dall’inizio, aveva smesso di chiedergli “cos’hai.”
La primavera sbuca col suo passo di talpa, pensò Anita girando l’angolo dietro la scuola. L’interrogazione di italiano era andata bene e l’aria tiepida era piena di batuffoli bianchi che volavano in stormi e si accumulavano nei cantoni come mucchi di neve. Lui era lì seduto su una moto vera, con la targa. Lei non chiese di chi fosse.
“Portami a fare un giro” disse solo “chi se ne frega se arrivo a casa tardi.”
Presero viale Zara che semaforo dopo semaforo diventò viale Fulvio Testi e chissà cosa c’era davanti. A San Fruttuoso gli battè sulla spalla e fece segno verso destra, il parco di Monza.
Si inoltrarono in un vialetto asfaltato e poi un sentiero in mezzo ai cespugli. I rami erano ancora radi, solo piccole gemme luccicavano al sole. Il prato però era verde, trapuntato di margheritine con gli orli rosa. La terra era secca e dura sotto i loro passi. Trovarono una minuscola radura tra un bosso impenetrabile e una forsizia che aveva già messo le foglie in mezzo agli ultimi fiori gialli. Si sdraiarono abbracciati sull’erba fredda. Arrivando lì non avevano incontrato anima viva.
Anita comprò una scoperta scozzese. Alla mattina lo raggiungeva sotto il platano di piazza Massari e invece di andare a scuola andavano al parco.
La prima volta non riuscì a entrare dentro di lei e nemmeno la seconda e la terza. C’era ancora la paura, c’era la cocciutaggine, c’era il dolore e lei era maledettamente stretta. Ma c’era anche la pazienza, c’erano le carezze e i baci, c’era quello che lei chiamava amore. Lui non lo chiamava in nessun modo, le parole erano tutte di Anita che doveva definire, dichiarare, raccontare.
“Quello che non viene nominato non c’è” diceva, “le cose ogni tanto vanno dette o scritte, se no non esistono. Le cose, a tacerle troppo finiscono per sparire”.
Gli scriveva molte lettere, lui non rispondeva mai. Le leggeva e poi le bruciava, chiuso in bagno buttava la cenere nel water. Non gli andava che qualcuno ficcasse il naso nei suoi affari, i suoi fratelli o sua madre o chiunque altro.
Ne aveva tenuta una sola, provvisoriamente, perché era molto lunga e non era riuscito a leggerla tutta: i suoi fratelli stavano buttando giù la porta a forza di calci e pugni.
 
Anita era seduta alla scrivania, stava traducendo Catullo per l’interrogazione programmata. Scriveva i paradigmi a matita sui margini sperando che la proff non pretendesse di scambiare i libri, a volte lo faceva.
La stanza era in penombra, il cono di luce della lampada sulla scrivania definiva un confine tra lei e tutto il resto.
Entrò Luisa senza bussare, chiuse con la chiave e se la mise in tasca.
“Dobbiamo parlare” disse avvicinandosi. Anita buttò fuori l’aria dal naso fino a svuotare tutti i polmoni.
“Per caso, sei andata a letto con Luigi?”
Lei non si mosse, continuando a guardare davanti a sé. Sentì l’odore di minestrone che era entrato quando sua madre aveva aperto la porta.
“Guarda che so tutto” continuò Luisa a bassa voce.
Qualcuno al piano di sopra aveva spostato una sedia strisciandola sul pavimento. O forse era nella stanza accanto. Forse suo padre si era seduto a tavola e stava versandosi il vino, facendone cadere una goccia sulla tovaglia. Una goccia che si allargava in una macchia rossa.
“No.” Disse senza alzare la testa.
“E invece sì, l’hai fatto.”
Anita accarezzò piano il libro di autori latini che aveva davanti, passer deliciae meae puellae.
“L’hai fatto e l’hai anche scritto.”
Anita alzò la testa: sua madre era in piedi a lato del tavolo, sembrava un’interrogazione, con lei seduta in cattedra a far la parte della proff.
“Mi ha telefonato la mamma di Luigi.”

“Mi ha detto che ha trovato una lettera.”
“Balle.” Appoggiò la testa sul libro circondandola con le braccia. Non avrebbe risposto più una sillaba. Non avrebbe nemmeno ascoltato.
“Dimmi la verità. Non ti faccio niente.” Luisa si appoggiò al tavolo, le toccò una spalla.
Balle, pensò lei, serrando le mascelle.
“Papà è preoccupato, vuole che ti portiamo dal ginecologo. È per il tuo bene.”
Le si riempirono gli occhi di lacrime. Attraverso il muro partì la sigla del telegiornale.
“Non vogliamo che ti rovini la vita. E se resti incinta? Papà ha detto che se non parli ti toglie da scuola. Ma prima ti portiamo dal ginecologo.”
Piuttosto scappo di casa, pensò. Vado con gli zingari. Vado al circo a pulire le gabbie degli animali. Vado.  Ma dove cazzo vado. Le uscì un singhiozzo.
Luisa le accarezzò la testa. Anita piangeva forte adesso, sua madre le diceva paroline dolci all’orecchio, come quando da piccola la cullava e la consolava di un torto subito.
Volle sapere tutti i particolari con domande precise alle quali Anita non riusciva a rispondere con le parole, faceva sì no con la testa, gli occhi bassi e la faccia che scottava, un rombo continuo nelle orecche.
Non la portarono dal ginecologo. Non la fecero più uscire. Misero un lucchetto sul disco telefono. Mino la andava a prendere a scuola e la accompagnava in macchina tutte le mattine, non andava via fino a che non l’aveva vista entrare. Lei attraversava l’atrio, scendeva in cortile e usciva dal cancello sul retro. Luigi l’aspettava all’angolo.
In casa non la lasciavano mai sola, piuttosto facevano venire la nonna come quando lei e suo fratello erano piccoli. Rina qualche volta cedeva alle suppliche e le dava la chiave del lucchetto. Una sera l’aveva anche lasciata uscire per un’ora, di nascosto. Ma poi Mino l’aveva scoperto, avevano litigato.
“Cosa vuoi che faccia in un’ora?” gli aveva detto la nonna.
“Non è quello. È il principio,” aveva risposto lui, “e poi, senti chi parla.”
Rina si era offesa e questo aveva troncato la discussione. Restava il mistero di chi avesse fatto la spia, non lo sapeva nessuno a parte lei, la nonna e Luciano. Luciano no, non poteva essere stato. Erano sempre stati complici, si erano coperti a vicenda da quando erano piccoli, avevano rotto vasi di cristallo tirando calci al pallone in casa, giocato al dottore all’ora della siesta nella villa al mare, rubato gli spiccioli dal borsellino della mamma. Avevano praticato la più stretta omertà, a costo di prenderle ingiustamente l’uno per l’altra, poteva davvero essere stato lui? era forse impazzito?
“Io mio padre lo odio” disse a Marilena nell’intervallo.
“Hai presente il figlio di Peregalli?”
“L’ingegnere?” disse lei pulendosi un baffo di rossetto con il fazzoletto.
“Futuro ingegnere, sta solo al primo anno. Ieri sera mi fa, perché non esci con Carlo che è un bravo ragazzo, invece che con quel morto di fame. Non gli ho neanche risposto.”
Marilena alzò gli occhi al cielo.
“Che poi l’ho visto una volta o due. Mi ha accompagnata a casa quella volta delle bici, te l’avevo detto no?”
“Ma scusa, esci con lui qualche volta. Poi gli dici che hai mal di pancia e vai da Luigi.”
Anita la guardò scuotendo la testa, “eggià, e  ti pare che quello non glielo va a dire?”
Marilena chiuse con uno scatto lo specchietto e alzò le spalle.
“Dipende” disse dopo un po’.
“Dipende da cosa?”
Fece un sorrisetto e sbattè due volte le ciglia.
“Ma sei scema?” disse Anita gettando indietro i capelli con uno scatto della testa, “tu sei scema. Ma neanche morta.”
La prima sera Carlo andò a prenderla con la Porche di suo padre. Quando lei uscì dal portone lui scese dalla macchina per aprirle la portiera. Mino le aveva dato il permesso di stare fuori fino alla una. Andarono al ristorante e poi in un piano bar dove si poteva anche ballare. C’era un grande acquario all’ingresso e il cameriere li aveva accompagnati a un tavolo d’angolo, c’era sopra il cartellino riservato. Era quasi buio, la musica era bassa.
Carlo le aveva scostato la sedia, le versava da bere e lei dovette ammettere tra sé che non era neanche antipatico. Gli piacevano i Led zeppelin, sapeva suonare la chitarra e  aveva due moto.
“Due moto?” aveva ripetuto lei con gli occhi sbarrati.
“Una è da cross” aveva minimizzato lui. “Balliamo?” Le porse la mano e lei ci appoggiò sopra la sua.
La pista era piena di vecchi di trent’anni e anche di più.
(continua)


boschetto

Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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