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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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L'occhio del coniglio 24. Mi ha telefonato la mamma di Luigi.

Post n°723 pubblicato il 31 Marzo 2013 da LaDonnaCamel
 
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Stavolta mi tocca spezzarlo in due, quel cretino dell'editor del blog mi ha appena detto che il messaggio è troppo lungo! E io che volevo fare un'eccezione. Invece no, e approfitto per dirti buona Pasqua, se ci credi, se no buona domenica anche se piove.

Domani o stasera metto la seconda parte e poi parlerò dell'EDS appena passato, non mi sono dimenticata e non faccio la gnorri ;)

 
 
“Mi ha telefonato la mamma di Luigi”.
“Luigi chi?” disse Mino voltandosi con i calzoni in mano.
“Luigi Ravasi. Il moroso di Anita” disse Luisa, come per scusarsi. Era in piedi vicino al letto, aveva scostato le coperte e aspettava.
Lui si rimise a piegare i suoi pantaloni, li accarezzò per lisciare una grinza e li appoggiò alla sedia. Si slacciò i bottoni della camicia, cominciando dai polsini.
“E cosa voleva?” continuò dopo un po’, visto che lei taceva.
“Gli ha trovato una lettera.”
“Che lettera?” Mino si era tolto la camicia. Si tolse anche le mutande e si sedette sul letto.
“Una lettera che gli aveva scritto lei.”
“Lei chi? Ma cosa c’entriamo noi?”
“Sembra che siano andati a letto insieme” disse lei tutto in una volta. Era ancora in piedi e lo guardava.
Lui si voltò di scatto “Sei sicura?”. Una vampata di rossore gli era salita dal collo.
“No, non sono sicura. A lei non ho detto ancora niente. Non sapevo cosa fare.”
Luisa si tolse la vestaglia e la appese all’attaccapanni dietro la porta, poi si infilò sotto le coperte ma restò seduta, senza appoggiarsi ai cuscini.
Lui abbassò gli occhi “domani chiediglielo, fatti dire tutto. Se fosse vero…” si infilò anche lui sotto le coperte, si girò dall’altra parte e spense la lampada sul comodino.
“Se fosse vero?”
“Chiediglielo.”
“Cosa devo fare?”
“Non farmi incazzare Luisa che poi non riesco a dormire.” Disse voltando la testa verso di lei.
Lei si mise sdraiata e si tirò su il lenzuolo fino al naso.
 
Luigi Ravasi era uno con l’aria sempre arrabbiata, non dava confidenza a nessuno e sembrava un po’ più grande della sua età, oltre al fatto che era ripetente. A scuola girava voce che rubava e forse era anche vero, che era amico di Vallanzasca, ma questo lo dicevano tutti i ragazzi che abitavano alla Comasina, che aveva un coltello a serramanico di venticinque centimetri con la lama che scattava fuori appena schiacciava un bottoncino. Quando doveva essere interrogato faceva quasi sempre scena muta ma la sua faccia, più che da bullo sembrava una faccia da scemo, lo sguardo vuoto e distante, le braccia molli e le spalle curve. La cosa che lo rendeva diverso da tutti gli altri erano i capelli corti, la sfumatura alta sulla nuca come nemmeno gli adulti portavano più. Era una fissa di sua madre, una donnina piccola e dura come una scheggia di ossidiana che mandava avanti la sua famiglia alla maniera di una truppa d’assalto dei marines - del resto sei figli maschi come si fa a tirarli su senza marito.
Luigi entrava in classe con la faccia scura, sbatteva forte i libri e le penne sul banco, teneva la testa bassa e non salutava nessuno come nessuno salutava lui. Si sedeva sempre dove capitava, non aveva un posto fisso e quel giorno l’unico banco libero era quello a fianco di Anita - la sua amica Marilena era assente.
Per tutta la mattina Anita ebbe cura di guardare in un’altra direzione, fuori dalla finestra, la lavagna, la professoressa che spiegava. Lo sentiva muoversi di fianco così vicino da far accapponare la pelle. Non poteva dire di averne paura, lì davanti a tutti non poteva succedere niente. E però sentiva la sua presenza, come aver vicino un cane ringhioso legato a una catena corta.
Alla fine della quinta ora, mentre univa con l’elastico la pigna di libri lasciò scivolare una rapida occhiata verso di lui. La stava guardando e questo le fece salire un tremito, l’elastico le sfuggì e colpì il banco con un suono secco. Lei ci mise sopra la mano, ormai troppo tardi. Lui alzò le sopracciglia.
Marilena restò a casa tutta la settimana e lui si sedette sempre lì. Il secondo giorno nell’ora di inglese si schiarì la voce e le chiese in prestito una penna. Il terzo giorno la incontrò sulle scale e le disse ciao. Ogni volta Anita aveva un tremito dentro, ma poi passava e non ci pensava più.
Il sabato pomeriggio si era fatta dare un po’ di soldi da suo padre e aveva preso appuntamento con Marilena alla Standa di largo Cairoli. Si trovavano sempre lì e poi giravano per negozi a caso, via Dante, via Meravigli per finire da Sem in corso Vittorio Emanuele o da Fiorucci, un negozietto dietro via Torino, uno dei pochi che aveva i Levis. Stava provandosi anelli di bigiotteria prendendoli da un espositore e ogni tanto buttava un’occhiata verso la porta, ravanava nel mucchio senza voglia per passare il tempo e se lo trovò davanti.
“Luigi.”
“Cosa fai?” rispose lui.
“Niente.” Appoggiò al banco l’anello che aveva in mano e si guardò intorno indecisa. Le tremavano le gambe.
Poi non avrebbe saputo dire come si erano ritrovati fuori e nemmeno il sole tra le foglioline – così tenere sui rami neri delle piante intorno al castello, né il vento tra i capelli che faceva piegare gli spruzzi della fontana, non avrebbe saputo ricordare chi aveva incominciato a parlare e perché non si era stupita, perché non aveva paura, perché non aveva pensato più a Marilena. Si ricordò bene invece la faccia di lui mentre faceva comparire dal nulla un anellino con una margherita di smalto verde, “era quello che ti stavi provando?” La prima volta che lo vedeva sorridere. Bei denti, tra l’altro.
Marilena il giorno dopo l’aveva chiamata, le aveva chiesto spiegazioni e si era anche un po’ arrabbiata per il bidone ma lei non sapeva che dire, ci si trovava in mezzo e non voleva ragionamenti e prediche. Sapeva solo che prima non si era accorta che lui fosse così. Non aveva capito che non era taciturno ma timido, che non era incazzato ma triste.
Cominciarono a uscire insieme senza che lui gliel’avesse mai chiesto. Nemmeno lei gli aveva chiesto niente, tecnicamente non erano fidanzati, o insieme. Si vedevano ogni volta che potevano anche se non erano niente, non si erano mai baciati. Lo fecero due settimane dopo, in piazza Massari sotto il platano. Al ritorno dal cinema lui la accompagnò a casa e metà strada si fermò, così, a caso, si girò e appoggiò la bocca su quella di lei.
“Finalmente ti sei deciso” disse lei, “credevo non l’avresti fatto più.” Lui ridacchiò e le mise un braccio intorno alle spalle. Adesso erano proprio insieme, pensò infilando il suo braccio a cingergli la vita, quello era il gesto ufficiale.
A scuola facevano finta di niente, si ignoravano più o meno come prima, non facevano apposta, sembrava naturale e opportuno a tutti e due. Però qualche occhiata ogni tanto scappava, senza contare che ogni volta che Marilena era assente lui si metteva al suo posto. Non c’erano ancora chiacchiere vere e proprie ma le ragazze cominciarono a evitare Anita. Appena entrava nel bagno delle donne smettevano di parlare e guardavano da un’altra parte, non la invitavano a studiare, la stavano isolando e lei non se ne accorgeva neppure. Aveva un pensiero tanto grosso in testa che non restava spazio per altro.
Tornando da scuola si infilavano in certe vie strette dove non passava mai nessuno e limonavano in piedi, appoggiati ai muri di cinta delle villette, sotto qualche siepe di glicine che spandeva un odore da far girare la testa.
Un giorno le fece una sorpresa, arrivò su un motorino marca Aspes rosso con i parafanghi bianchi.
“Salta su che ti accompagno a casa” le disse.
“È tuo?”
“Mavà.”
“E di chi è? Te l’hanno prestato?”
“L’ho preso.”
L’ha rubato, pensò lei alzando la gamba per salire. Neanche duecento metri dopo li fermò un vigile. Un sudore freddo lungo la schiena, Anita batteva i denti e tremava di paura.
“Vai a casa” le disse, “stai tranquilla”.
Stai tranquilla un cazzo, pensò lei per tutto il tragitto, le gambe molli e il cuore in gola. Lo metteranno in prigione, non ci vedremo mai più. Non aveva idea di cosa avrebbe potuto succedere davvero, pensava ai carcerati dei film con le divise a righe e le guance emaciate, grigie di barba, agli interrogatori della polizia americana con le lampade puntate sui sospettati, quelle stanze buie piene di fumo, gli schiaffoni per farli parlare e piangeva piena di paura, ferma al semaforo rosso non si accorgeva che i bambini con le cartelle sulle spalle la guardavano e tiravano la giacca alla mamma.
Che poi lui era minorenne e probabilmente al Beccaria non gliele mettevano le divise a righe ma non era questo il punto. Avrebbe fatto meglio a restare lì e affrontare il pericolo insieme e invece lui aveva voluto salvarla e si era preso tutta la colpa per non metterla nei guai. E allora piangeva ancora più forte, tutto il corpo scosso dai singhiozzi e tremante di paura, tanto che entrata in casa si infilò di corsa in bagno perché nello specchio dell’ascensore aveva visto la sua faccia tutta devastata dal rimmel colato.
Nel tardo pomeriggio le telefonò.
“Dove sei?” gli chiese senza nemmeno dire ciao, pensando che avesse sprecato l’unica telefonata dal carcere per chiamare lei invece che l’avvocato.
“A casa, perché?”
“Ti hanno rilasciato?”
“Ah, il vigile.” Ridacchiò quando capì, “tutto a posto, gli ho raccontato una favoletta.”
Gli avrebbe picchiato la testa contro il muro per la paura che aveva provato. E lui rideva, disgraziato. Ma rise anche lei, alla fine era andata bene.
Questo fatto però non lo raccontò a Marilena. Era l’unica che le era rimasta e si sentivano tutti i giorni dopo la scuola, stavano ore al telefono. Litigava in continuazione con Gianluca, il suo ragazzo. Poi facevano la pace e ogni volta doveva raccontarle tutto per filo e per segno. I motivi erano sempre gli stessi: lui voleva fare cose e lei gliela faceva cadere dall’alto. Anita non capiva quale fosse il problema vero, visto che poi facevano come voleva lui e a lei piaceva eccome, tanto valeva dire di sì subito. Non li capiva anche perché tutto questo a loro non succedeva, si baciavano e basta, Luigi non aveva altre pretese. Del resto, cosa avrebbero potuto fare per strada, se pure in angoli poco frequentati. Al sabato pomeriggio andavano al cinema e si tenevano abbracciati guardando il film, qualche rara volta lui le accarezzava il seno attraverso i vestiti. Lei lo lasciava fare, le piaceva molto, l’avrebbe incoraggiato se solo lui si fosse fatto avanti. Non c’erano altre occasioni, alla sera lei non poteva uscire e nemmeno durante la settimana, in questo i suoi genitori erano molto severi. Suo padre soprattutto voleva sapere dove andava, con chi era, come si vestiva. La minigonna, per esempio, era proibita: se la doveva mettere di nascosto in ascensore o meglio, in ascensore si toglieva il gonnellone scozzese a pieghe che ci metteva sopra e al ritorno faceva l’operazione inversa, le toccava portarsi dietro delle borsette gigantesche.
Piano piano le confidenze di Marilena cominciarono a roderla dentro. Come mai Luigi non chiedeva o non creava situazioni per chiedere? C’era forse qualche cosa in lei che non andava bene? Non gli piaceva abbastanza? Non la voleva? Chi lo sa. Non aveva esperienza in queste cose, quei due o tre che aveva avuto prima erano state solo pomiciate tra ragazzini che erano durate poco, con Luigi era insieme da tre mesi e tutto sembrava fermo alla prima sera. Non aveva da lamentarsi, sia chiaro, non litigavano mai, andavano d’amore e d’accordo. Lui non parlava molto, è vero, in compenso parlava lei per tutti e due e andava bene così, quando lo guardava lui le sorrideva e questo era già tanto, anzi tantissimo. Le aveva pure detto ti amo. Una volta sola e anche un po’ troppo presto a dire il vero - era la prima sera. Però l’aveva detto. Forse era stato in qualche modo sollecitato, lei gli aveva chiesto come mai uscivano insieme così tanto spesso, era strano, no? lui si era fermato, l’aveva guardata, “si vede che ti amo” le aveva detto e l’aveva baciata, prima sulle labbra e poi con la lingua, aveva aperto un po’ la bocca e le aveva fatto sentire quei bellissimi denti. Era stato tutto molto dolce, però Marilena non solo aveva già fatto sesso normale ma anche orale e lei si sentiva sminuita e anche un po’ infantile. Chissà cosa mi racconterà la prossima volta, pensava, chissà quale porcheria lui le chiederà e lei rifiuterà – o farà finta di rifiutare. Cose che Anita non sapeva nemmeno esistessero al mondo.
“Sarà normale?”  le chiedeva. “È normale, è normale” sospirava lei con rassegnazione. Come faceva a saperlo, come facevano tutti a sapere sempre tutto. Tutti tranne lei che era ancora fin troppo vergine per la sua età.
Pensò di provare a parlarne con Luigi, lui non si arrabbiava mai o non lo dava a vedere, certe volte non rispondeva nemmeno. Gli voleva chiedere se c’era un motivo preciso oppure semplicemente non aveva voglia, non ci pensava o non ci teneva. Non voleva certo fare la figura della ragazza facile ma in qualche modo voleva fargli capire, molto velatamente, che sarebbe stata disposta a una conoscenza più profonda e intima, qualcosa che aveva a che fare con l’amore e l’affetto. Non sapeva bene da che parte cominciare, l’avrebbe presa molto alla lontana.
“Marilena mi ha detto che Gianluca vuole che lei gli faccia i pompini fino in fondo” disse uno degli ultimi giorni di scuola mentre tornavano a casa. Stavano attraversando i giardinetti, silenziosi a quell’ora, si sentivano solo gli uccelli gridare, le panchine riflettevano i bagliori del sole a picco, faceva caldo. Lo guardò con la coda dell’occhio, lui sorrideva.
“Ma lei gli ha detto di no, ha detto che fino in fondo non le va.” Lui non cambiò espressione, sbattè solo due volte le palpebre.
“Tu cosa ne pensi?” continuò lei, fermandosi e guardandolo in faccia.
“Non lo so” sospirò passandosi una mano sulla fronte, “non ho mai provato. Non ho mai avuto una ragazza.” Lei lo guardò con gli occhi spalancati.
“Prima di te, intendevo.”
Gli si rannicchiò contro, strofinando il naso sul suo collo con gli occhi chiusi. Chi l’avrebbe detto. E però, certo, con quel carattere così silenzioso, a volte perfino ombroso, tutto tornava.
Durante le vacanze si videro poco, lei andò prima a Forte dei Marmi, poi a Cortina mentre lui era rimasto a Milano. Si scrissero qualche lettera, si telefonarono anche, due o tre volte. Lui purtroppo era stato bocciato, chi lo sa cosa avrebbe fatto a settembre. Lei aveva avuto latino e matematica e quello che avrebbe fatto lo sapeva per forza.
 
 
(continua)

castello


Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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