Kremuzio

“Eccomi là. Cioè Alex e i miei tre drughi. Cioè Pit, Georgie e Dim. Eravamo seduti nel Korova milkbar arrovellandoci il gulliver per sapere cosa fare della serata. Il Korova milkbar vende " latte+ ", cioè diciamo latte rinforzato con qualche droguccia mescalina, che è quello che stavamo bevendo. È roba che ti fa robusto e disposto all'esercizio dell'amata ultraviolenza”

Esempio di Nadsat, slang scritto da Burgess e felicemente tradotto in italiano per ricreare quella atmosfere futuristiche che sembrano attuali oggi. Frase iniziale di “Arancia meccanica”, “Clockwork Orange” capolavoro del grande maestro Stanley Kubrick.

Ricordo la prima volta che lo vidi, naturalmente accompagnato dai genitori, in un cinema dalle atmosfere contemporanee nel 1971. E quelle parole cominciarono a girarmi in testa, a farmi girare la testa. Quelle frasi entrano e trapanano il gulliver e ti fanno desiderare di vestirti da matto, con la camicia ed i pantaloni attillati bianchi, le bretellone, la bombetta ed il naso finto. Forse anche gli occhi truccati. E durante un carnevale, mi vestii proprio così, e mi mostravo con gli amici per le strade dedite al gran giro delle maschere, con il mio manganellino di plastica, a far lo scemo. Ma senza cantare singing in the rain dando calci ad un vecchietto.

La superviolenza era comunque un modo di sentirsi stupidamente diversi, ma non proprio per la violenza in sé. Erano le parole che mi ristagnavano e che all’inizio non comprendevo. Neanche avevo la voglia di ripetere, certo che nessuno le avrebbe capite. E rimanevano attaccate alla memoria, incollate alle immagini del mio giovane cervellino, intrise di stupidità e portatrici di quell’abbinamento con il sesso che non poteva lasciarmi indifferente durante l’adolescenza.

“Fu nei paraggi del teatro abbandonato che ci imbattemmo in Billyboy e i suoi quattro drughi, si apprestavano a somministrare una lieve dose del dolce su e giù a una piangente giovane devočka catturata a questo scopo” e mi turbava vedere la carne rosa della donna alla quale venivano strappati i vestiti, più della violenza stessa nella casa. Con i simboli fallici facenti parte dell’arredamento, non riuscivo ad immaginare come sarebbe stato il futuro di lì a poco tempo. Avevo ancora i neuroni completamente fusi da “2001 odissea nello spazio” ed il futuro non poteva non essere astronavi in viaggio verso Giove ed oltre l’infinito. Ma sulla Terra, nelle megalopoli piene di gente, la vita si sarebbe svolta come sempre? Quale poteva essere il rapporto tra i due film? Magari oggi mi rendo conto che nessuna delle due pellicole avrebbe rappresentato la società odierna, sebbene la vita sia molto più vicina a quella descritta nelle storie con protagonista Alexander deLarge, sapientemente interpretato da un giovane Malcom McDowell.

Turbato ma non scioccato. Già a quei tempi riuscivo a controllare le mie sensazioni, castrando ogni tentativo di ribellione, che oggi sarebbe sembrata eccessivamente stupida. Era solo un film con la violenza finta, il sangue finto, e le finte torture. Nulla a che vedere con l’orrore descritto da un Dario Argento o uno spreco di finti globuli rossi dei film splatter. Quando Alex è legato alla sedia con la camicia di forza, gli occhi spalancati su immagini che all’inizio gli fanno piacere, magari lo eccitano, ma poi lo fanno vomitare dopo averlo programmato ad abbinare immagini violente a nausea e, purtroppo per lui, alla musica di Beethoven, che lui adorava. “È un Delitto! Delitto! Delitto! Delitto! Usare Ludovico Van in questo modo! Lui non ha mai fatto male a nessuno! Beethoven ha solo scritto musica! Non è giusto!”

Superviolenza contro superviolenza. Questa la vendetta della società civile verso il ribelle, questa la vita virtuale di un universo parallelo al nostro, immaginato tanti anni fa da visionari, descritto magistralmente e purtroppo molto simile al nostro. L’unica differenza forse, sta nella colonna sonora: niente Ludovico Van nelle nostre teste: al massimo un rap sgrammaticato nei gulliver dei drughi di oggi.