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Il Brigante Chitaridd

Post n°2019 pubblicato il 21 Ottobre 2011 da luger2
 

Le vicende del Brigante "Chitaridd" hanno sempre incuriosito i materani di ogni età e fino ad alcuni decenni or sono era possibile ascoltare il racconto delle sue disavventure dalla viva voce di alcuni concittadini che si ricordavano di quei terribili fatti accaduti durante la loro infanzia. La vita di Chitaridd si tinge di leggenda anche per la erronea definizione di brigante legatagli addosso, che ha contribuito a creare un alone di mistero sul personaggio, nonostante la sua storia sia stata ricostruita minuziosamente dall'Avv. Niccolò de Ruggieri (1899 - 1993) attraverso gli atti processuali e con i connotati di una seria inchiesta.   Il suo vero nome era Eustachio Chita, ma per la sua bassa statura fu soprannominato Chitaridd, cioè piccolo Chita. Nacque a Matera il 30 novembre del 1862, da Michele e Caione Maria Giuditta, e morì il 26 aprile 1896. Come molti materani di quel periodo, i suoi genitori erano contadini e pastori, ma benestanti, infatti coltivavano diversi tomoli di terreno e possedevano un centinaio di pecore. A causa della vita scellerata del genitore, la condizione economica della famiglia, nel tempo, peggiorò continuamente fino a cadere nella miseria, perchè tutta la sua proprietà fu sequestrata e venduta all'asta per soddisfare i creditori. L'indole violenta del padre influenzò profondamente la vita della famiglia, continuamente mortificata dalle sue malvagità, aggressioni fisiche e maltrattamenti. Eustachio, infatti, veniva spesso picchiato, bastonato e lasciato senza cibo a guardare le pecore, fu anche ferito al capo da una pietra e colpito da una scure al torace. Questa situazione insopportabile spinse Eustachio ad andar via ed a vagabondare in cerca di lavoro nelle campagne. Suo padre morì nel 1889 a causa della sifilide, e sua madre, dopo una vita di stenti, finì i suoi giorni colpita da mania religiosa.
L'ultima volta che Eustachio fu visto a Matera era il mese di dicembre del 1888 e da allora furono trovate tracce della sua presenza vicino Potenza ed in Calabria, sempre come mandriano o guardiano di pecore. In Puglia, lavorò anche alla costruzione della ferrovia Spinazzola - Rocchetta S. Antonio. Il suo carattere non era certo facile ed i suoi compagni di lavoro, durante il suo peregrinare, lo descrivano sempre come un uomo litigioso, inaffidabile e violento.
Nel frattempo, nei dintorni di Matera si verificarono feroci aggressioni e terrificanti delitti e, proprio su Chita, si concentrarono i maggiori sospetti, ma, per la sua vita nomade, non fu possibile trovarlo per arrestarlo ed interrogarlo. La frequenza degli omicidi fece aumentare ogni giorno di più la tensione e l'angoscia nella popolazione e nelle Forze dell'Ordine, che furono accusate di non condurre indagini mirate, di non essere in grado di trovare il colpevole per riportare sicurezza nella gente. Oggi, si sarebbe affermato che si era alla ricerca del "mostro da sbattere in prima pagina". Nel primo pomeriggio del 26 aprile 1896, Chita Eustachio fu avvistato a Matera in chiesa ad ascoltare la messa, in piazza San Pietro Caveoso dove si fermò a parlare con qualcuno, in piazza Plebiscito (odierna piazza Vittorio Veneto) vicino il palombaro piccolo, comprò due fichi secchi da una contadina e, all'ora di pranzo, entrò in una cantina per mangiare un pò di trippa. Dopo queste apparizioni, si diresse certamente verso lo Jazzo Vecchio, quello che presumibilmente era il suo rifugio abituale, in contrada Murgecchia, nei pressi del complesso rupestre della Palomba, in una grotta che ancora oggi porta il suo nome.  Francesco Paolo Tarantini, un pastore tredicenne, mentre pascolava le pecore, intravide, nel buio di quella grotta, un fucile ed alcuni indumenti, ma fuggì subito impaurito. Rientrò all'ovile verso le 18, e riferì dell'accaduto ai due soci Falcone e Nicoletti, che gli dissero che sarebbero andati nella grotta il giorno seguente, congedando il ragazzo che ritornò in città con tutto il gregge. Appena arrivò a Matera, il pastorello vide lo stesso Falcone parlare con i Carabinieri e fu invitato a seguirli nella grotta dove aveva visto il fucile, in quanto lì dentro c'era un uomo che era stato ucciso durante una colluttazione. Non si sapeva ancora chi fosse la vittima.
Dagli atti processuali e dalla ricostruzione fatta dall'Avv. Niccolò de Ruggieri, si viene a sapere che Falcone e Nicoletti riferirono al pastore Nicola Rondinone (44 anni) che il piccolo Tarantini aveva visto un fucile a due canne nella grotta dello Jazzo Vecchio e, sebbene avessero deciso di andare il giorno seguente a verificare cos'altro ci fosse, furono sollecitati dal Rondinone a non perdere tempo e di approfittare del buio per sorprendere chi si fosse nascosto lì dentro. Si diressero insieme verso quella località tutti e tre armati alla meglio, Falcone aveva una scure, Nicoletti un coltello e Rondinone un bastone. Giunti in silenzio all'ingresso della grotta, avvertirono dei movimenti e Rondinone, che andava avanti, chiese ad alta voce <<chi c'è>>, ma non ebbe risposta, e decisero di fare irruzione insieme. In quel momento sentirono uno sparo di fucile e Rondinone si spinse con rabbia dentro la grotta agitando il suo bastone per colpire lo sconosciuto, seguito da Falcone e da Nicoletti, che analogamente si scagliarono con tutte le loro forze contro quella persona che continuava a sparare verso di loro. Rondinone, che fu colpito ad un piede e che rimase ferito per terra, gridava ritetutamente ai compagni di fermare quell'assassino. Nella concitazione del momento, sia Falcone che Nicoletti, si avventarono con violenza su quell'uomo per cercare di fermarlo, ma non riuscirono ad immobilizzarlo, perchè si dimenava con forza, riuscendo anche a morderli. Dichiararono che, per paura di essere uccisi, furono costretti a colpirlo con la scure sulla fronte e con il coltello alla gola, fino a quando non lo videro inerme. A questo punto, informarono la Forza Pubblica e scoprirono che si trattava di Eustachio Chita, cugino di Falcone e Nicoletti. Durante il processo i tre invocarono la legittima difesa e così fu. Il cadavere fu portato a Matera a dorso di un asino, scortato dai carabinieri ed accompganato da cinque facchini e dal Giudice istruttore.

 
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