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RIFLESSIONE DELLA SERA , PENSIERI, OPINIONI, IDEE, SUGGESTIONI... PER UN NUOVO GIORNO

Post n°8288 pubblicato il 16 Maggio 2015 da psicologiaforense

lo stato del disperato è una specie di penombra.  Fino a un certo punto egli sa bene, davanti a se stesso, di essere disperato; se ne accorge in se stesso, come ci si accorge di star covando una malattia; ma non vuole proprio ammettere qual è la malattia. In un momento gli è diventato quasi chiaro di essere disperato, ma poi, in un altro momento, gli sembra che il suo malessere abbia un'altra causa, che derivi da qualcosa di esteriore, da qualcosa fuori di lui; e se questo cambiasse, egli non sarebbe disperato....


 

 

 

DISPERAZIONE.
IL PARADIGMA ERRANTE

S. Kierkegaard  ha dedicato una grande attenzione all'esperienza della disperazione, da lui definita come la «MALATTIA MORTALE» tipica dell'essere umano. Tutte le altre, fisiche o spirituali, infatti, non conducono alla morte. Ma questa sì. La disperazione non consiste in uno stato d'animo passeggero. Essa è un atteggiamento profondamente radicato nell'anima di un individuo e consiste, in ultima istanza, nel «voler disperatamente sbarazzarsi di se stesso». Questa disperata volontà si può manifestare in due modi solo apparentemente opposti: il non voler essere se stessi e il voler essere a tutti i costi se stessi in modo sbagliato.  

Non sempre la disperazione è consapevole.  Certo, ci sono le sconfitte, che rivelano l'inconsistenza di ciò a cui si cercava di aggrapparsi; ma è facile, allora, attribuire la propria infelicità al fatto di non aver raggiunto i propri obiettivi, piuttosto che alla loro intrinseca incapacità di soddisfare le nostre attese. Perciò, nota Kierkegaard, di solito lo stato del disperato è una specie di penombra.  Fino a un certo punto egli sa bene, davanti a se stesso, di essere disperato; se ne accorge in se stesso, come ci si accorge di star covando una malattia; ma non vuole proprio ammettere qual è la malattia. In un momento gli è diventato quasi chiaro di essere disperato, ma poi, in un altro momento, gli sembra che il suo malessere abbia un'altra causa, che derivi da qualcosa di esteriore, da qualcosa fuori di lui; e se questo cambiasse, egli non sarebbe disperato. Oppure egli, - sostiene Kierkegaard- forse con distrazioni o in altri modi: per esempio lavorando e affaccendandosi a scopo di distrazione, cerca di mantener davanti a se stesso una certa oscurità intorno al suo proprio stato, però in modo che non si rende perfettamente conto di farlo con l'intenzione precisa di farlo  apposta per creare confusione e sconcerto.

 
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