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« RIFLESSIONE DELLA SERA,S...COSTUME E SOCIETÀ, NONN... »

LA SENTENZA DI CASSAZIONE, SESSUALITA', PROSTITUZIONE ONLINE, IMPIEGATO PUBBLICO, ESCORT, PRIVACY,

Post n°8044 pubblicato il 13 Ottobre 2014 da psicologiaforense

IL  CORPO È MIO E POSSO USARLO E VENDERLO SENZA RISCHIARE IL LICENZIAMENTO, PAROLA DI CASSAZIONE . FA SCALPORE  IL CASO DEL DIPENDENTE DELLA PROVINCIA DEL VCO CHE SI PROSTITUIVA VIA INTERNET... 
 

IL DIPENDENTE-ESCORT NON VA LICENZIATO

Non solo le abitudini sessuali sono in tutto e per tutto “cosa nostra”, ma possiamo anche pubblicizzarle come e dove vogliamo senza problema. E vale anche per chi è dipendente pubblico o privato che sia, senza che si possa configurare un qualsivoglia danno al datore di lavoro. A stabilirlo non sono sciolte anime libertine, bensì i giudici della Suprema Corte di Cassazione, che hanno bacchettato i (bacchettoni?) giudici verbanesi che viceversa la pensavano ben diversamente, concordando con i vertici della Provincia del Vco (FOTO IN BASSO) che avevano licenziato un dipendente che sostanzialmente si offriva al mercato del sesso su Internet. Dunque, primo punto fermo: le abitudini sessuali devono rimanere un fatto privato e come “dati sensibili” meritano una “tutela rafforzata”. Così secondo i Supremi Giudici, che hanno appunto affrontato il caso di un dipendente della Provincia del Vco che, finito sotto procedimento disciplinare, era stato rimosso «per avere inserito sui siti per escort annunci contenenti l’offerta di prestazioni sessuali a pagamento, in danno dell’immagine della Provincia». Alle abitudini sessuali del dipendente-prostituto in questione, ricostruisce la sentenza 21107 della Prima Sezione civile della Cassazione, si era arrivati in seguito ad una comunicazione anonima con cui si segnalava l’esercizio dell’attività di escort da parte di un dipendente. L’Amministrazione provinciale aveva effettuato controlli accedendo ai siti web indicati, ed era così scattato il procedimento disciplinare. Il Tribunale di Verbania, nel giugno 2012, aveva escluso che la raccolta di informazioni in rete fosse avvenuta violando la normativa sulla privacy  che regola il trattamento dei dati sensibili finalizzati alla gestione del rapporto di lavoro. La Cassazione è stata di diverso avviso e ha accolto il ricorso del Garante della Privacy che ha insistito sulla necessità di una tutela rafforzata per i dati che riguardano «la parte più intima della persona», come i costumi sessuali. Nel dettaglio, la Suprema Corte, riscontrando «l’illegittimità dell’operazione posta in essere dall’Amministrazione attraverso l’acquisizione dei dati informatici», ha osservato che «non possono condividersi le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata, la quale ha escluso l’applicabilità della disciplina in esame, in virtù dell’osservazione che l’attività posta in essere dall’Amministrazione non era finalizzata alla raccolta di dati inerenti alla vita sessuale del dipendente, ma alla verifica dell’avvenuta pubblicizzazione dell’attività di meretricio da quest’ultimo svolta». La Cassazione in proposito ricorda che «portata decisiva deve riconoscersi al dato oggettivo dell’acquisizione di informazioni attinenti alla vita sessuale del dipendente, di per sè sufficiente a rendere configurabile un trattamento di dati sensibili» meritevoli di «tutela rafforzata». Giusto? Sbagliato? Il dato di fatto, al di là del caso specifico, è che la sentenza fa giurisprudenza. E inevitabilmente abbatte confini forse nemmeno immaginabili.

FONTE: RIELABORAZIONE DAL CORRIERE DI NOVARA

 
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