Approvata la legge che consente di non ricorrere
al giudice del lavoro in caso di controversie.
Cgil in rivolta, Cisl e Uil se ne fregano, la Ugl plaude
LICENZIAMENTI, OFFENSIVA DEL GOVERNO:
ARRIVA L’ARBITRATO… O L’ARBITRIO?!
Torna l’epoca dei padroni
Adesso si scopre che la cosa era in discussione e progettazione già da DUE ANNI. Ma in questi ultimi 24 mesi né la cosiddetta “opposizione” in Parlamento, né gli organi di informazione, e tanto meno i sindacati, si sono degnati di protestare a voce alta, o perlomeno di informarci, su quanto stesse avvenendo.
Da ieri sera è legge dello Stato una riforma epocale del diritto del lavoro. Insieme a norme indubbiamente utilissime (come l’abolizione del certificato medico cartaceo e sostituzione con certificazione via mail) ne è passata una di immensa gravità: la riforma di fatto dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Gino Giugni, padre di quel corpus dottrinario, è morto pochi mesi fa. Giusto in tempo per risparmiarsi lo spettacolo indecoroso della distruzione surrettizia di un caposaldo dell’Italia repubblicana: l’impossibilità di licenziare un lavoratore senza giusta causa.
Seppur in ritardo, l’opposizione ha lottato per evitare la novità e la Cgil promette guerra. Invece Cisl e Uil pensano che non sia successo niente di grave e l’Ugl, addirittura, dice che il governo ha ragione. La tesi dell’esecutivo è che l’art. 18 resta vigente ed operativo, e non è stato certamente abolito.
Formalmente è così: ma viene introdotta una possibilità che lo disinnesca totalmente. Innanzitutto viene abolito l’obbligo di tentare la conciliazione: l’azienda non ha nessun dovere di provare a recuperare il lavoratore riottoso. Inoltre, e soprattutto, da ora in poi il datore di lavoro ed il dipendente possono derogare dal ricorso al giudice del lavoro. Possono, cioè, concordare (a priori, al momento della stipula del contratto) che, in caso di controversie, a decidere sarà un arbitro, che agirà “secondo equità” (qualsiasi cosa questa formula voglia dire) e non secondo le norme del diritto del lavoro, anche se perlomeno non contro di esse…
È evidente che questo tipo di contratti diventerà la maggioranza; basterà che l’imprenditore dica all’aspirante assunto: “Lo vuoi questo lavoro? Allora devi aderire all’arbitrato, altrimenti quella è la porta”. Tutti dovranno accettare e, in caso di controversia, si dovrà ricorrere all’arbitro. E chissà perché ho l’impressione che questi, pur senza fischietto, darà sempre ragione al datore di lavoro…
Sempre il governo Berlusconi ci aveva già provato nel 2002 ad abolire l’art. 18: ne sortì un risentimento popolare che consigliò di lasciar perdere. Sembra ieri, ma oggi ci risiamo: ed in più si cerca di prendere gli italiani con l’inganno.
La Cgil ha affermato che ricorrerà alla Corte Costituzionale, e intanto preparerà iniziative di lotta, anche se sul fronte sindacale è rimasta vergognosamente sola.
Intendiamoci: qui non si tratta di favorire gli scansafatiche, specie nella pubblica amministrazione. I poltroni devono essere cacciati a calci in culo, sia ben chiaro una volta e per tutte. Ma tornare indietro di oltre un secolo, nella storia dei diritti dei lavoratori, è un’operazione incivile, cinica, bestiale, da turbocapitalismo selvaggio. Il prof. Pietro Ichino ha avuto una certa notorietà, qualche anno addietro, con le sue analisi sui “fannulloni”, a cui ha dedicato qualche libro di successo. Non lo si può quindi sospettare di essere un amico dei nullafacenti. Eppure, stavolta si è schierato contro l’operazione del ministro Sacconi.
Intanto però è legge: bisogna farci i conti adesso.