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« Intervento di CLAUDIO B...Basta euro. Come uscire ... »

Toh anche Fassina si è svegliato: Va aumentato il deficit e innalzata la domanda aggregata ora ci dice!

Post n°1682 pubblicato il 25 Marzo 2014 da Lucky340
 
Foto di Lucky340

I risultati delle elezioni amministrative di domenica in Francia sono l'ennesimo segnale che l'euro-zona è sulla rotta del Titanic e che l'iceberg non sono i mercati finanziari, ma i mercati rionali afflitti da sofferenza economica e sociale. La campana suona anche per noi in vista del Documento di Economia e Finanza (Def) per il 2014-16 e del Programma Nazionale di Riforme (Pnr). È un passaggio decisivo perché dai numerini lì scritti si evidenzia l'effettiva riconquista di autonomia culturale e dipende in misura significativa l'intensità della ripresa, ossia il fatturato delle imprese, l'occupazione, l'andamento della finanza pubblica e, non ultimo, lo svuotamento dei populismi.

Affinché sia "la svolta buona", l'intervento sull'Irpef va fatto senza "copertura". Il Def presenti obiettivi di deficit innalzati, rispetto all'andamento tendenziale, di 10 miliardi all'anno, almeno per un triennio, così da dare efficacia all'intervento sull'Irpef. Così da migliorare il Pil potenziale, il saldo strutturale oltre che nominale e l'andamento del debito pubblico nel medio periodo. "Coprire" il taglio di tasse con un altrettanto ampio taglio di spesa determinerebbe un effetto recessivo sul Pil e provocherebbe effetti negativi sull'occupazione e sul debito pubblico. È un fatto documentatissimo: il moltiplicatore della spesa è molto più elevato del moltiplicatore delle tasse (il Fondo Monetario Internazionale ha avuto il coraggio di fare autocritica). È un fatto prevedibile e previsto. Purtroppo, ancora negato dagli ostinati difensori di un neo-liberismo oramai diventato "teo-liberismo".

Sia nella conferenza stampa, sia nella discussione in Parlamento in vista del vertice di Bruxelles del 20 e 21 Marzo, il governo ha dato chiare indicazioni di discontinuità sulla politica di bilancio, fino a definire "anacronistico" il vincolo del 3% per il rapporto tra deficit e Pil. Finalmente. Finalmente, chi ha la massima responsabilità di governo prende atto che non funziona la linea mercantilista praticata nell'euro-zona. Austerità e svalutazione del lavoro, alla ricerca di competitività di costo per l'export, determinano ulteriore contrazione della domanda interna, sofferenza economica e sociale e impennata del debito pubblico. Non solo in Italia, ma ovunque.

La ragione del circolo vizioso sempre più soffocante non è la carenza di riforme strutturali, come si continua a leggere nei documenti della Commissione, segnata da ideologia cieca e ubbidienza agli interessi nazionali, declinati in modo miope, della Germania e di poteri finanziari senza patria. La ragione è la carenza di domanda aggregata: le imprese non investono perché non vedono consumatori, non perché non possono licenziare persone oramai ovunque senza protezione efficace. Il Pil medio nell'euro-zona è 3 punti al di sotto del 2007. Sette milioni di disoccupati in più. Debito medio salito dal 65 al 95 %. Prospettive di ripresa anemica, elevata disoccupazione, deflazione e insostenibile debito pubblico. Di quali dati abbiamo ancora bisogno per ammettere che non possiamo crescere tutti attraverso le esportazioni? Il modello tedesco non è generalizzabile e, senza credito facile ai Piigs, incomincia a ingolfarsi anche in Germania. Non può funzionare per un'area economica così grande e così ricca in termini di reddito medio pro-capite. Chi può importare l'enorme flusso di beni e servizi necessari a una ripresa dell'euro-zona sufficiente a scalfire la disoccupazione? Le economie emergenti anche esse tenacemente concentrate sull'export? Oppure gli Stati Uniti, per due decenni consumatore di ultima istanza, ma ora bloccati da un enorme debito estero e con un dollaro arrivato a 1,40 sull'euro? Le mitiche riforme strutturali sono drammaticamente più difficili nella disperazione e stagnazione. E comunque hanno effetti negativi almeno nella fase iniziale.

In tale contesto, è deprimente sul piano intellettuale e depressivo sul piano economico l'ennesimo intervento sulle regole del marcato del lavoro alla ricerca dell'occupazione perduta. È un'operazione di ulteriore svalutazione del lavoro, data l'impossibilità di svalutare la propria moneta, secondo la logica mercantilista. Aumenta la precarietà, quindi riduce ulteriormente la capacità negoziale e le retribuzione dei lavoratori e lavoratrici, quindi la domanda e l'attività produttiva. E, inevitabilmente, riduce l'occupazione. Va cambiato in Parlamento sia sulla portata dei contratti a tempo determinato senza causalità, sia sul contratto di apprendistato mutilato di formazione e una minima quota di stabilizzazioni.

Va percorsa la strada opposta: innalzare la domanda aggregata. È l'obiettivo della riduzione dell'Irpef per i lavoratori e lavoratrici a reddito medio-basso. Il governo ha fatto bene. Meglio avrebbe fatto a eliminare i contributi sociali a carico di tutti i lavoratori e lavoratrici. Così, avrebbe aiutato anche "gli/le incapienti", i/le quali sono in condizioni ancora più difficili e hanno una propensione al consumo più elevata di chi, a 1.500 euro mensili, può beneficiare dell'innalzamento delle detrazione per reddito da lavoro dipendente e assimilato. E così avrebbe beneficiato anche la marea di giovani a partita Iva, i lavoratori autonomi, i professionisti.

Affinché l'intervento del governo abbia efficacia sull'andamento dell'economia reale per arrestare l'emorragia di lavoro deve essere accompagnato da un allentamento del deficit. Ovviamente, la spesa pubblica italiana va riqualificata. Liberata da sprechi e ruberie. Ma è la più bassa dell'euro-zona e va riallocata: innanzitutto sulla boccheggiante scuola pubblica, per finanziare ammortizzatori sociali universali e aiutare le famiglie in povertà, sempre più diffusa, e pagare i debiti in conto capitale delle pubbliche amministrazioni.

Il governo non si faccia intimidire da chi continua a recitare il mantra teo-liberista a Bruxelles e a Roma. Sono loro i colpevoli di scaricare sulle spalle dei nostri figli un debito sempre più elevato (30 punti percentuali di Pil in 5 anni di austerità cieca, 24 al netto dei trasferimenti al Fondo Salva Stati e dei pagamenti dei debiti arretrati verso le imprese), oltre che un vertiginoso vuoto di lavoro e dignità. I famosi mercati finanziari capiscono. Sanno bene che soltanto la rianimazione dell'economia può evitare la ristrutturazione del nostro debito pubblico, insostenibile in uno scenario di Pil reale anemico e inflazione vicina a zero. Sanno bene che, oltre al 3%, anche il fiscal compact è anacronistico, anzi radicalmente controproducente, come il secondo comma dell'articolo 81 della Costituzione: un capolavoro ideologico di autolesionismo. Abbiamo scritto che "Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali". Combattiamo a Bruxelles per la golden rule ma, grazie ai "responsabili" legislatori guidati dal Governo Berlusconi e dal Governo Monti e alla subalternità culturale di larga parte del Pd, gli investimenti in deficit sono, per la nostra Costituzione, un principio eversivo. Così come inammissibile è anche la spesa in conto capitale per co-finanziare i fondi strutturali.

Il conformismo imposto dagli interessi forti e il pensiero unico dei sacerdoti di Bruxelles portano l'euro, non soltanto l'Italia, al naufragio. Il governo vada avanti nell'inversione di rotta per una politica di bilancio anti-ciclica: non soltanto le grandi banche sono "too big to fail". Anche l'Italia.

Stefano Fassina su Huffingthon Post

 

 
 
 
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Data di creazione: 04/05/2010
 

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