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Un blog creato da lecittadelsud il 01/06/2010

LE CITTA' DEL SUD

Identità e decrescita sostenibile delle province duosiciliane

 
 

BREVE STORIA DELLE DUE SICILIE

da: "DUE SICILIE" Periodico Indipendente - Direttore: Antonio Pagano

www.duesicilie.org

La storia della formazione dello Stato italiano è stata così mistificata che non è facile fornire un quadro fedele di tutti gli avvenimenti che portarono all'unità. Dal 1860 in poi è stato eretto dal potere italiano un muro di silenzio  Molti importanti documenti sono stati fatti sparire o tenuti nascosti, e ancora oggi sono secretati negli archivi di stato;

 

 INDICE

Sintesi storica

Situazione sociale ed economica

Le più importanti realizzazioni

Le cause della fine del Regno

I Garibaldine e l'invasione piemontese

La resistenza duosiciliana

Conclusioni

 

 

ITINERARIO STORICO NEL REAME DELLE DUE SICILIE
tratto da Giuseppe Francioni Vespoli (1828) e Antonio Nibby (1819)

Itinerario 1 (Napoli Capitale)
Itinerario 1 (da Portici a Pompei)
Itinerario 1 (da Pozzuoli a Licola)
(Intendenza di Napoli)
Itinerario 2 (da Nola al Matese)
Itinerario 2 (dal Garigliano a Venafro)
(Terra di Lavoro)
Itinerario 3
(Principato Citra)
Itinerario 4
(Principato Ultra)
Itinerario 5
(Basilicata)
Itinerario 6
(Capitanata)
Itinerario 7
(Terra di Bari)
Itinerario 8
(Terra d'Otranto)
Itinerario 9
(Calabria Citeriore)
Itinerario 10
(Calabria Ulteriore Prima)
Itinerario 11
(Calabria Ulteriore Seconda)
Itinerario 12
(Contado di Molise)
Itinerario 13
(Abruzzo Citeriore)
Itinerario 14
(Secondo Abruzzo Ulteriore)
Itinerario 15
(Primo Abruzzo Ulteriore)
Itinerario 16
(Intendenza di Palermo)
Itinerario 17
(Intendenza di Messina)
Itinerario 18
(Intendenza di Catania)
Itinerario 19
(Intendenza di Girgenti)
Itinerario 20
(Intendenza di Noto)
Itinerario 21
(Intendenza di Trapani)
Itinerario 22
(Intendenza di Caltanissetta)

 

I SONDAGGI

 

 

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L'INESTINGUIBILE SENTIMENTO POPOLARE PER L'AUTONOMIA

Post n°120 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da lecittadelsud
 

Si vede abbastanza dal rapido progetto dianzi esposto cosa sia divenuto in due anni il reame delle due Sicilie sotto il governo invasore. I partiti si agitano, e sconvolgono il paese; la discordia divide tutti gli animi; gli uni scavalcano gli altri per montare al potere e scorticare i popoli, che nutrono odio irreconciliabile contro i piemontesi; l'amministrazione interna è un caos; le finanze sono esauste, è sopraccaricate da ingente debito pubblico, che ne obbliga contrarre altro smisuratissimo; le tasse decuplicate; rincarito oltremodo il prezzo de viveri; resa impossibile l'agricoltura e la pastorizia nelle più fertili provincie; sterilito e ridotto a nulla il commerciò; sostituito il capriccio delle soldatesche al giudizio de' Magistrati, ed al reggimento delle leggi; arresti arbitrarii d innocenti a migliaia; incendii, e devastazioni di città e borgate; fucilazioni innumerevoli senza processi, senza giudizio contro individui non di altro rei, per la maggior parte, se non di aver voluto difendere i loro focolari, la loro religione, la patria autonomia dinastica; ed in tanta confusione si fa anche correre la voce dell'abdicazione del re Vittorio Emmanuele.

Al quale, mentre nel 1860 facevasi dire di aver intesi i gridi di dolore dell'Italia, ora che le esorbitanze e gli eccessi di coloro che governano nelle provincie meridionali in suo nome formano l'onta della umanità, e dell'onore delle nazioni, si rende, così ottuso l'udito, da fargli scrivere da Napoli a' 3 maggio in una lettera all'Imperatore de' francesi, queste parole cotanto in contraddizione co' fatti flagranti: «L'ordine, che regna in queste provincie meridionali e le fervide dimostrazioni di affetto, che ricevo da tutte le parti rispondono vittoriosamente alle calunnie de nostri nemici, e convinceranno, spero, l'Europa, che la idea della Unità riposa su solide basi e si trova profondamente impressa nel cuore di tutti gl'italiani».

Ma come antitesi di codeste assertive il deputato napoletano Petruccelli nella tornata parlamentare de' 28 novembre affermava: «La unità italiana è minacciata a Roma, è minacciata a Napoli; ed io son certo, che se il presidente del consiglio avesse presentati tutti i rapporti della vigilante Autorità di Napoli, l'Europa rimarrebbe scandalizzata da' tentativi fatti dal partito Murattiano. Ma l'Imperatore Napoleone dovrebbe sapere, che se i napoletani avessero a scegliere tra un Borbone, ed un Bonaparte, non esiterebbero a scegliere un Borbone!»

Ed è nello stesso ordine naturale degli avvenimenti, che le popolazioni del reame nutrano inestinguibile e perenne il sentimento per l'autonomia dinastica; e che le loro tendenze, a costo di tanti sagrifizii sieno convergenti a tale supremo scopo.

Le masse, che non veggono migliorate, ed invece semprepiù pervertite le loro condizioni di benessere materiale, divengono oramai intolleranti del presente, e desiderano un passato che loro ricorda le più prosperanti condizioni della civile esistenza, di un pacifico, mite, e paterno ordinamento, e elle ora alimenta le loro speranze di restaurazione. Il merito, e lo stesso patriottismo il più disinteressato, feriti dalla ingratitudine, dal disprezzo, e da' più oppressivi atti del governo, rifiutano l'opera loro al paese; d'onde le frequenti domande di dimissione al posto di deputato e la continuata assenza di altri dal parlamento. I proprietarii, che non veggono garentite le loro proprietà imprecano, e maledicono gl'invasori subalpini, e rimpiangono uniformemente l'antico governo, il quale, secondo la espressiva confessione del deputato napoletano Nicotera nella tornata de' 15 dicembre, 230 aveva il gran merito di far tutelare le vite, e le sostanze de' cittadini: e, secondo l'altro deputato Ricciardi nella stessa tornata, «era così scrupolosamente osservante delle leggi, e della giustizia, che comunque vincitore dopo il 15 maggio 1848, non faceva arti restare niuno di que deputati, che apertamente ribelli, ed acerrimi nemici del Sovrano, ne aveano attentato alla Suprema Autorità».

I commercianti, che veggono i loro fondi in ristagno, si rivoltano contro lo attuale stato di cose, e rammentano i vantaggiosi cambii marittimi, la sicurezza de' pubblici cammini, il corso della rendita pubblica alla elevata cifra del 120; beni tutti, che si godevano sotto la Dinastia Borbonica. Gl'impiegati civili; l'Esercito; la magistratura dell'antico indipendente reame delle Due Sicilie, dopo essere stati così iniquamente maltrattati, quale attaccamento possono nutrire pei governanti piemontesi? I quali trovano quivi in ogni individuo un avversario, ed in ogni classe una sorgente di odio contro di loro, ed una reminiscenza affettuosa per gli antichi suoi sovrani; la quale è tenuta in freno da 120 mila bajonette, dalla fazione armata de' fautori del Piemonte, dalle rigurgitanti prigioni, e dalle sovrabbondanti fucilazioni.

Egli era in vista di queste manifestazioni, e delle altre officiali, ed autentiche fatte da molti deputati, già accennate nel corso di questo lavoro, che uno de' popolari giornali di Napoli stampava la seguente apostrofe: «Vengano ora i diarii officiosi a smentire gl'incendii de' villaggi, le carnificine dei contadi, lo spoglio, il saccheggio de' casali, e de' sobborghi (c del napoletano! Vittime di Pontelandolfo, di Casalduni, innocenti periti tra le fiamme di 28 paesi; madri vaganti pe' boschi in cerca de' figli periti tra gli orrori della più cruda morte, voi siete oramai ben vendicate; e vendicate per opera de' medesimi vostri nemici».

Vi è pure chi dice essere inevitabili i dissesti, e le perturbazioni in ogni mutamento politico, ancorché buono, e non doversi perciò meravigliare pe' disordini nel napoletano, che col tempo saranno sedati. Ma quivi i fatti hanno dimostrata esservi grande differenza tra que' sconci, che accompagnano le mutazioni politiche anche migliori (ed una di queste fu quando Carlo III elevò a florido e ben governato reame le due Sicilie un tempo misere provincie di lontano dominatore); e que' disordini, che nascono dacché si opera contro la natura, le tendenze, il sentimento delle popolazioni, (come ha ora agito il Piemonte soggiogando, e riducendo a Provincie infelici un regno prospero, e indipendente): i primi sconci sono parziali e col volgere del tempo cessano del tutto; i secondi per l'opposto sono generali, ingagliardiscono col tempo, e più si va innanzi, più cresce la confusione, e l'orrore.

Di questo incontrastabile sillogismo fortificano il loro ragionare autorevoli scrittori napoletani che nel corso del 1862 hanno pubblicato opere convincenti su la necessità della restaurazione autonomica nelle travagliate province meridionali.

Essi han dimostrato, che «avendo forzosamente imposto il principio della unificazione i governanti subalpini sono stati necessitati a straripare da ogni linea di, condotta assennata, ed equabile; ad essere poco scrupolosi in su i mezzi purché il fine si raggiungesse: divenne per essi una necessità, violare lo statuto, tradire il plebiscito, battere francamente la via della rivoluzione anarchica, annullando ordinamenti che prosperavano da secoli, sperimentati e vigorosi; abbattendo senza distinzione quello che poteva e doveva conservarsi; distruggendo parimenti il buono ed il mediocre; e per conseguente contraddicendo alla storia, alla natura, alla vita del popolo delle due Sicilie, nel quale non può estinguersi il sentimento della sua autonomia. Ed è singolare, che mentre il Cavour dichiarava in parlamento chiusa l'epoca delle rivolture, la sua azione governativa era tanto rivoluzionaria, quanto più si può immaginare, se rivoluzione vuol dire rovina totale degli ordini antichi, sforzo di edificare tutto da nuovo. I Montagnards della Convenzione Nazionale avevano appena osato altrettanto

A suggello delle esposte cose soccorrono le teoriche di un antico politico italiano, la cui autorità è spesso invocata da' moderni riformatori travolgendola secondo i loro gusti. Egli raccomanda come regola di prudente condotta politica di serbare ad ogni stato italiano il proprio ordinamento «impossibile essendo riunirli in uno Stato solo, perché gli uomini sono tenaci delle consuetudini; né per lunghezza di tempo, né per beneficii possono mai scordarsi de' loro modi antichi».

Che questi sieno i sentimenti innati dell'universale nel reame, se ne hanno argomenti incontrastabili ne' quotidiani avvenimenti. La pompa funebre, con cui il clero, e il popolo di Napoli accompagna nella gran via Toledo in uno de' giorni di dicembre il feretro dello arcivescovo Naselli della principesca stirpe siciliana de' Signori di Aragona, antico Cappellano maggiore del re Francesco II è riguardata generalmente come uno splendido trionfo de' legittimisti. Il Diritto di Torino n.357 se ne mostra irritato, e per l'organo del suo corrispondente napoletano si duole «per essersi fatta impunemente questa dimostrazione, che un anno dietro né pure sarebbesi potuta tentare: insomma, senza tema di esagerare, si può dire, che nelle due Sicilie l'elemento separatista va innanzi, molto innanzi, ed è audace, beffardo, provocatore...».

Se facesse il computo di quelli, che ivi sostengono le così dette reazioni, che le approvano, e né desiderano il buon riuscimento, si troverebbe esserne cosi sterminato il numero da sorgerne spontanea nel pensiero questa conseguenza, che, se, cioè, vi ha in quelle provincie unanimità di suffragio essa sta appunto nel voto di essere liberati dal giogo subalpino, Macchiavelli, in varii luoghi de Discorsi, e del Principe, e di esser lasciati vivere in pace, nella propria patria, e con la loro legittima autonomia.

Ad onta de' rigori fiscali il giornalismo napoletano ha accennato in varii rincontri «che nelle provincie, ove più ferve la reazione non si possono dimenticare i beneficii loro impartiti dalla Dinastia passata; ed esservi spesso occasione di vedere, non solo nelle classi agiate, ma anche nel minuto popolo, chi conserva come reliquia affettuosa una moneta con la effigie del re Francesco II, e mostrarla con tenerezza. Ed è come un talismano per la propria salvezza, che i viandanti di ogni condizione, e finanche gli ecclesiastici, recano una di tali monete nelle loro tasche per esibirle alle bande de' così detti briganti su' pubblici sentieri».

Non ignora che ad attenuare la forza di questi fatti, e di queste reazioni, vi è chi parla della influenza degli esuli in Roma; ma la calunniosa assertiva rimane smentita dalla stessa natura dette cose; e dalla considerazione, che i movimenti reazionarii, disgregati fra loro, sono sforniti di direzione e d'impulso, mancanti di unità e d'indirizzo; e sopratutto di unico Capo eminente, risoluto, esperto; ciò per altro ne aumenta il merito, sia per la spontaneità; sia per la scarsezza dei mezzi con che si resiste ad un poderoso esercito di oltre 220 mila uomini, ed a misure governative di una ferocia elle non trova riscontro nella storia.

Ma codesta agitazione reazionaria si rende quasi invincibile, perché mette appunto radice nello inestinguibile sentimento popolare per l'autonomia.

 

(Tratto da : Colpo d'occhio su le condizioni del reame delle due sicilie nel corso dell'anno 1862, di Francesco Durelli)

 
 
 

QUELLE GRIDA DI DOLORE CHE VENGONO DAL SUD

Post n°118 pubblicato il 29 Settembre 2011 da lecittadelsud
 

Il 10 gennaio 1859, Vittorio Emanuele II si rivolse al parlamento sardo con la celebre frase del «grido di dolore» che cosi recitava: “Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli d'Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi!

Ma oggi sappiamo che quel grido di dolore non esisteva ma fu’, come riporta il deputato Giuseppe Massari che partecipò alla stesura di quel discorso, suggerito da Napoleone III che, insieme a Cavour ed in seguito agli accordi Plombières, cercarono disperatamente un pretesto «non rivoluzionario» per muovere guerra all'Austria sul suolo italiano.

In particolare in base a tali accordi il Regno di Sardegna, la Pianura padana fino al fiume Isonzo e la Romagna pontificia avrebbero costituito il Regno dell’Alta Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele, il resto dello Stato Pontificio, eccetto Roma e i suoi dintorni, con il Granducato di Toscana avrebbe formato il Regno dell’Italia centrale, Roma, assieme ai territori immediatamente circostanti, sarebbe rimasta al papa ed, infine, il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto sotto la guida del sovrano dell’epoca, Ferdinando II.

Questi quattro Stati italiani avrebbero formato una confederazione, sul modello della Confederazione germanica, della quale si sarebbe data la presidenza onoraria al papa.

Se le cose fossero andete cosi, oggi non staremmo qui a parlare di “questione meridionale” e forse la confederazione Italiana (o Italica), nonostante la crisi, svolgerebbe un ruolo economico di primissimo piano e godrebbe di maggior rispetto a livello internazionale.

E invece è successo che il Piemonte non si accontentava solo della fetta del Nord, ma voleva tutta la torta. E cosi si mise in atto una campagna prima denigratoria verso il regno delle Due Sicilie per screditare la monarchia Borbonica e giustificare l’intervento militare dei piemontesi, poi militare con l’instaurazione dello “stato d”assedio” e la violenta repressione che duro’ fino al 1870.  E questa volta “le grida di dolore” dovevano provenire dalle popolazioni meridionali, le quali sebbene fossero già liberate da tempo dallo straniero, avessero una loro patria indipendente ed una economia industriale che muoveva i primi passi, non conoscessero fenomeni come la disoccupazione o l’emigrazione, “dovevano” essere aiutate dal magnanimo re galantuomo Vittorio Emanuele II e dal filantropo e missionario Cavour.

Fu solo dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie e il successivo stato d’assedio necessario, come detto, per reprimere la reazione del popolo duosiciliano all’invasione dei piemontesi, che le condizione della “bassa Italia” cominciarono a peggiorare irrimediabilmente.

Fu distrutta l’economia, tolte le terre ai contadini e consegnati i territori al controllo delle mafie dei baroni siciliani e della camorra napoletana. In sostanza l’unità d’Italia è stata per il Sud, come ha scritto Gramsci nel 1920, “una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti”. Già, perchè i meridionali, da un giorno all’altro, da sudditi del Regno delle Due Sicilie diventarono tutti briganti, e alla storia non importa se fossero, in gran parte, partigiani che per lottavano per difendere la loro terra da un invasore straniero che disprezzava il popolo meridionale e a cui negava ogni diritto oltre che la dignità di uomini.

Fu quindi dopo l’unità d’Italia che cominciarono a levarsi le “vere” grida di dolore dalle province meridionali e questa volta non solo non furono ascoltate ma si usò contro di essa la violenza, le deportazioni, gli eccidi di massa, gli stupri, le condanne a morte senza processo. E questi crimini furono commessi dai “fratelli” italiani del Nord che venivano al Sud a liberare i loro sfortunati fratelli terroni dallo straniero oppressore, o come diremmo oggi vennero ad esportare democrazia.

Ma per fortuna tutte queste cose ritornano pian piano alla luce e si scopre cosi che il mezzoggirono non era questa area arretrata ma aveva un prodotto interno lordo che si equivaleva (se non addirittura superiore) a quello degli altri stati preunitari. Questi dati sono stati pubblicati da due ricercatori del CNR, Malanima e Daniele, che hanno ricostruito il prodotto delle regioni italiane dal 1891 al 2004 ed un stima del prodotto del Nord e del Sud dal 1861 fino ad oggi. La loro ricerca e quelle recenti sulla crescita ineguale dell’Italia inducono a ritenere che divari rilevanti fra regioni, in termini di prodotto pro-capite, non esistessero prima dell’Unità; che essi si siano manifestati sin dall’avvio della modernizzazione economica (più o meno fra il 1880 e la Grande Guerra); che si siano approfonditi nel ventennio fascista; che si siano poi ridotti considerevolmente nei due decenni fra il 1953 e il 1973; che si siano aggravati di nuovo in seguito alla riduzione dei tassi di sviluppo dell’economia dai primi anni ’70 in poi.

Alla data dell’Unità, quindi, non esistevano differenze tra le due aree del paese. Per i vent’anni successivi all’Unità l’entità del divario tra Nord e Sud rimane trascurabile: assai probabilmente non superò i 5 punti percentuali. Nel 1891, la differenza tra il Pil pro capite meridionale e quella del resto del paese è di 7 punti percentuali. Nel ventennio fascista, il divario Nord-Sud aumenta sensibilmente, passando da 26 a 44 punti percentuali. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il divario tra Nord e Sud è massimo. Un recupero si osserva a partire dalla fine degli anni Cinquanta. In quegli anni, in cui l’Italia compie il processo di “catching- up” nei confronti delle economie più avanzate, si compie una fase di convergenza tra le due aree del Paese. Il tasso di crescita medio annuo del Mezzogiorno è allora del 5,8 per cento annuo, mentre quello del Nord è del 4,3. Il divario tra le due aree si riduce sensibilmente e, nel 1973, il Pil pro capite meridionale raggiunge il 66 per cento di quello del Nord. Dopo il primo shock petrolifero la crescita italiana, però, rallenta sensibilmente e il Mezzogiorno sembra accusare più del Centro-Nord il rallentamento della crescita. Il divario si riapre di nuovo, in un processo di divergenza che si protrae ininterrotto fino ai giorni nostri.

L’Italia è quindi la somma di due nazioni diverse per cultura, per economia, per occupazione, per prodotto interno lordo, e con una sistema politico che non è piu’ in grado di rimettere in pari Nord e Sud, cosi come, per esempio, ha fatto la Germania tra Est ed Ovest ed in soli 10 anni, investendo somme da capogiro e facendo pagare la ricostruzione ai tedeschi dell’Ovest. Immaginate se dovessimo chiedere ai “fratelli padani” di pagare piu tasse per rimettere in pari il Sud quale potrebbe essere la loro reazione.

Eppure il Sud (sfatiamo questo altro luogo comune) ha avuto dallo stato aiuti percentualmente sempre minori rispetto a quanto investito al Nord. A partire dalla parole del primo governatore della Banca d’Italia, Carlo Bombrini, che voleva un Sud non piu’ in gradi di intraprendere (perchè tanto odio verso di noi?), si è avuta una progressiva riduzione sia dei capitali investiti che degli investimenti pubblici Dopo la seconda guerra mondiale, il Piano Marshall, sebbene il Sud avesse subito piu’ danni di guerra, andò completamente a sostegno delle fabbriche del Nord. Successivamente il piano della Cassa per il Mezzoggiorno si è rilevato fallimentare perchè quel poco che è stato investito (solo lo 0,3 % del PIL nazionale), e per lo piu’ senza controllo e senza un piano strategico, in molti casi è ritornato al al Nord attraverso “strani” cambi di sede legale delle aziende tosco-padane. E si continuerà fino ai giorni nostri con lo scandalo dei fondi FAS, inizialmente destinati per l’85% nel Mezzogiorno e per il 15% nel Centro-Nord, ma che le manovre del governo hanno ridistribuito in maniera iniqua allocando 18,9 miliardi al Mezzogiorno e 19,4 miliardi al Centro-Nord (4,6 miliardi sono stati destinati a diversi interventi post-terremoto in Abruzzo). Tali manovre, pertanto, hanno determinato uno spostamento dal Sud al Centro-Nord di 16,5 miliardi di euro, e questo ha comportato un onere fortemente concentrato sui cittadini del Sud, a cui questo governo sta facendo pagare in maniera sproporzionata ed iniqua la crisi del paese.

Oggi, quelle grida di dolore sono ancora presenti sebbene continuino ed essere inascoltate dallo stato italiano, mentre nessuno si accorge che la crisi dell’Italia la sta pagando il Sud, che ora comincia ad avere difficoltà a mettere il piatto a tavola e di conseguenza non puo permettersi di acquistare piu quei beni di consumo la cui produzione è concentrata al Nord. E se il Sud non consuma il Nord va in crisi, e, allora, invece di inveire continuamente contro il mezzogiorno e chiedere continuamente la secessione, la Lega Nord dovrebbe chiedersi come farebbe il Nord a vivere senza l’energia prodotta al Sud o senza un mercato di sbocco dei propri prodotti. Il Nord senza il Sud è piu’ debole. Ma queste sono domande che la Padania non si pone rilanciando solo finte battaglie il cui fine è quello di fare del Sud la palla al piede, il capro espiatorio di una condizione che, al contrario, è stata generata da 150 anni di politica miope che ha preferito investire solo in una parte del paese lasciando l’altra morire lentamente.

Eppure il miracolo economico italiano non si fondò sulla finanza, ma sul lavoro, sulla fatica dei lavoratori. E la maggioranza di questi lavoratori erano meridionali costretti a lasciare la propria terra e ad andare a lavorare per i padroni del Nord. Quei lavoratori, con la loro fatica, hanno arricchito il Nord. Senza il Sud il miracolo italiano non ci sarebbe stato. Ed il Sud ha pagato un prezzo enorme alla sua emigrazione: ha perduto le braccia più forti, i cervelli migliori, le persone più capaci e più piene di spirito di iniziativa.

Secondo il Rapporto SVIMEZ 2011 sull’economia del Mezzogiorno, il Sud Italia ha dunque subito più del Centro-Nord le conseguenze della crisi: una caduta maggiore del prodotto, una riduzione ancora più pesante dell’occupazione che ha raggiunto complessivamente il 25%, e la desertificazione del già debole tessuto industriale.

Due giovani su tre nel Sud Italia sono senza lavoro  Ma le cattive notizie per il Sud non finiscono qua. Su 533mila posti di lavoro in meno in tutto il Paese dal 2008 al 2010, ben 281mila sono stati nel Mezzogiorno. Con meno del 30% degli occupati italiani, al Sud si concentra dunque il 60% della perdita di posti di lavoro.

Ma Sud e Nord sono legati indissolubilmete da un unico filo: se non cresce l’uno non cresce l’altro. Se non cresce il Sud, l’italia non esce dalla crisi ed il rischio di una deriva Greca al Sud trascinerà l’intero paese nel baratro della bancarotta.

Come ha piu volte dichiarato il presidente dello SVIMEZ Giannola: “occorre puntare sulla ritrovata centralità del Mediterraneo, in cui il Sud ricopre una posizione avvantaggiata; sulla fiscalità differenziata, da rivendicare con totale fermezza in sede europea, per permettere una maggiore attrazione di investimenti italiani e stranieri; una politica industriale centrata su logistica, fonti energetiche (alternative e tradizionali) e su una dotazione di risorse ambientali nettamente superiore a quella del resto del Paese. Il Mezzogiorno non si deve presentare come "palla al piede", ma come opportunità strategica per dare nuovo impulso al sistema Italia”.

Allora se si vuole tenere unito il paese bisogna che finalmente si ascoltino queste grida di dolore (stavolta vere e non inventate come 150 anni fa) e che il divario Nord-Sud diventi il primo interesse del governo italiano. Oggi siamo al bivio, o si risolve la questione meridionale o dopo 150 anni, l’esperianza unitaria della penisola italiana potrebbe essere messa a serio rischio e forse il Sud, una volta indipendente, con le sue eccellenze, le sue risorse, con l’aiuto della comunità internazionale e guardando di nuovo, e finalmente, al mediterraneo, potrà ritornare ad essere orgoglioso di se stesso. Chi ci perderà saranno solo i nostri fratelli settentrionali.

 
 
 

SMART CITY: IL NUOVO MODELLO DI CITTA' SOSTENIBILE PROPOSTA DALL'UE

Post n°117 pubblicato il 23 Settembre 2011 da lecittadelsud
 

ecologia

L'Europa ha previsto investimenti di circa 11 miliardi di euro nei prossimi dieci anni per il progetto comunitario che incentiva le Smart city, città di medie dimensioni capaci di coniugare città sostenibili e competitività. L’Europa incoraggia quindi le comunità 'intelligenti' che vadano verso soluzioni “integrate e sostenibili

Le città consumano il 70% dell’energia dell'UE. Su questo enorme potenziale di risparmio energetico le istituzioni europee fanno leva per ridurre del 20% le emissioni entro il 2020 e al contempo sviluppare un'economia low carbon entro il 2050. La formula individuata associa l’utilizzo più razionale delle risorse all’integrazione delle tecnologie pulite. L’Europa incoraggia quindi le comunità 'intelligenti' – come le ha definite il Commissario per l’energia Günther Oettinger alla presentazione dello scorso luglio – che vadano verso soluzioni “integrate e sostenibili in grado di offrire energia pulita e sicura a prezzi accessibili ai cittadini, ridurre i consumi e creare nuovi mercati in Europa e altrove”. In particolare, la sfida è rivolta alle realtà urbane di medie dimensioni, che uno studio condotto nel 2007 dal Politecnico di Vienna, l’Università di Lubiana e il Politecnico di Delft, stima in circa 600 (ospitando quasi il 40 % di tutta la popolazione europea urbana). A dispetto dell’enorme potenziale, queste città sono spesso oscurate delle grandi metropoli. Individuate tra le comunità con un numero di abitanti tra 100.000 e 500.000, un bacino d’utenza inferiore a 1,5 milioni di persone e almeno un’università, troverebbero proprio nella ridotta estensione territoriale il loro punto di forza. È la flessibilità che ne deriva, secondo gli studiosi, a renderle 'smart', in altre parole brave, intelligenti, dinamiche. Il termine 'smart' l’UE lo riferisce, in particolare, a quelle città capaci di incidere positivamente sulla qualità urbana secondo una valutazione basata sui parametri economico, sociale, culturale, ambientale, abitativo e gestionale.

La formula individuata associa l’utilizzo più razionale delle risorse all’integrazione delle tecnologie pulite

Il progetto Smart City fa parte del Piano strategico per le Tecnologie Energetiche (Set), nel cui ambito l’Unione europea prevede la creazione di una rete di trenta smart cities da selezionare entro il 2020. Una sorta di modello prototipale dell’efficienza energetica da avviare a un percorso di sviluppo economico e urbano dai bassi costi e dal ridotto impatto ambientale. Auto elettriche ricaricabili con l’energia prodotta negli edifici, zone low-carbon e messa in rete dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, sono alcuni esempi delle tecnologie suggerite per un diverso sistema edilizio e di mobilità urbana. Il primo bando di Smart City è di circa 70-80 milioni per progetti di ristrutturazione del patrimonio immobiliare pubblico e privato e delle reti energetiche. Con l’apertura della call del 7° programma quadro lanciata lo scorso 19 luglio, le città e i partner industriali potranno richiedere finanziamenti UE nei settori della gestione integrativa di energia urbana tra cui soluzioni per la mobilità sostenibile, le acque e i rifiuti. Il tema sarà affrontato prossimamente al convegno della Fondazione Univerde a ZeroEmission Rome 2011, in programma a Roma venerdì 16 settembre, dal titolo Le città solari: rinnovabili, bioedilizia e smart cities, la sfida della nuova economia.

di Lucia Russo - 2 Settembre 2011
Fonte:
http://www.ilcambiamento.it/abitare/
smart_city_citta_sostenibili.html

 
 
 

ITALIA PRIMA: CONFEDERAZIONE

Post n°116 pubblicato il 20 Settembre 2011 da lecittadelsud
 

Lettera appello di Italia Prima alle formazioni meridionaliste

Compatrioti meridionali,

non c’è zolla dei nostri territori Duosiciliani che non reclami il diritto delle nostre popolazioni a vivere nella dignità e nel rispetto.

Molti di noi si battono da decenni per un diverso destino che oggi sembra essere a portata di mano.

Sacrifici di ogni genere sono stati i compagni costanti in questo nostro percorso, spesso in solitudine e – soprattutto in passato – nell’indifferenza, nell’incomprensione e, talvolta, persino nella commiserazione di quanti abbiamo sempre considerato nostri fratelli inconsapevoli..

A 150 anni dagli infausti eventi che condannarono il Mezzogiorno ad una subalternità che mai abbiamo considera degna di un Paese civile, molte cose sono cambiate. I vincitori di allora e il mondo che gente come loro ha costruito nel tempo, è sulle soglie di un baratro. Il loro sistema non regge più. Dagli USA all’Europa, la crisi economico-finanziaria sta travolgendo chi pensava potesse reggere sul culto del denaro e sulla spirale del debito infinito di Stati e Popoli. Una tale follia sta per concludersi.

La nostra antica cultura, un’economia e una società fatta di solidarietà e di valori, ringraziando il cielo e grazie all’impegno di noi tutti, hanno fatto sopravvivere questa nostra concezione profonda e alternativa di visione del mondo.

In questa fase della nostra Storia, senza il timore di cadere nella retorica e con certezza possiamo dire che c’è bisogno di noi.

Affiora una sensibilità nuova, una voglia reattiva, una coscienza di popolo.

Noi tutti abbiamo il dovere morale e civile di dare oltre quanto abbiamo sin’ora fatto. Dobbiamo dare segnali nuovi e forti.. Se sarà così, daremo definitivo senso alla generosità ed alla dedizione profusa in questi anni, viceversa, rischieremmo di annullare tutto per vanità, per puerili incomprensioni o per vuoti personalismi. Né vanno sottovalutati i “colpi di coda” del sistema di potere che cerca di ammannire per meridionaliste, aggregazioni politiche spurie e asservite alla vecchia logica di “lampedusiana” memoria.

Il giudizio sul nostro operare spetta oggi alla popolazione meridionale, e da questo non possiamo esimerci.

Non possiamo abbandonare le famiglie all’indigenza economica; alla partitocrazia multicolore e autoreferenziale asservita agli interessi antimeridionali del capitale del Nord; ai sacrifici richiesti ai deboli e alla intangibilità dei ricchi.

Dobbiamo operare un “salto di qualità”.

Le nostre bandiere non vanno riavvolte, anzi. Esse potranno sventolare in una selva più numerosa e più fitta. E dovranno testimoniare di un’idea unica, grande, vivace e compatta.

Pertanto Italia Prima,

fa appello

al senso di responsabilità,  di tutte le forze meridionaliste, onde giungere, nel più breve tempo possibile ad una

Confederazione

che faccia perno sui seguenti principi programmatici:

  1. revisione storica e riaffermazione della dignità e dell’orgoglio meridionale:
  2. risoluzione della questione meridionale in tutte le espressioni e le forme necessarie;
  3. macroregione meridionale (art. 132 della Carta costituzionale);
  4. sovranità economica e monetaria;
  5. nessun accordo con la partitocrazia.

Invita

Movimenti, Partiti e Formazioni politiche che si riconoscano nei cinque punti indicati e siano consapevoli della necessità e dell’urgenza di perseguire l’obiettivo confederativo, a dare la propria disponibilità attraverso comunicazione mail al seguente indirizzo: italiaprima.bari@gmail.com

Il Coordinatore del Movimento Federalista  Italia Prima

Antonio Dell’Omo

 
 
 

LIBERIAMOCI DAL MERIDIONALISMO E DAL SICILIANISMO

Post n°115 pubblicato il 20 Settembre 2011 da lecittadelsud
 

 


Quando calarono i “figli della nebbia”... potrebbe iniziare così l’adagio, sulla scia degli innumerevoli lamenti che ci hanno visto protagonisti ieri,  oggi e – probabilmente – anche domani, noi meridionali.

Un adagio sommamente consolatorio che scarica sui “cattivi” venuti dal nord che ci hanno invaso, conquistato, colonizzato, spogliato dei nostri averi, tutti i mali presenti e futuri del Sud-Italia. Poi si potrebbe aggiungere noi che fummo e ci sentiamo magnogreci fino al midollo e, ancora, la famosa frase del gattopardo siciliano sulle “magnifiche civiltà”.

La dobbiamo smettere!

Noi li invitammo quei figli della nebbia, aprimmo loro le porte delle nostre città, delle nostre dimore, dei nostri salotti buoni, delle nostre banche stracolme di liquidità.

Tutto in nome di una fregola forestiera: “la modernità”.

Stavamo avviandoci – e in gran parte ci eravamo già riusciti – verso la modernità col nostro passo, un passo da meridionali quali eravamo e quali siamo, con una dinastia – la borbonica – che si era napoletanizzata, al punto da parlare finanche la nostra lingua. Invece no, bisognava fare in fretta, e farlo con quei ‘fratelli’ italiani che forestieri si sarebbero dimostrati per davvero occupandoci con truppe guidate da ufficiali che parlavano francese.

Il primo assaggio, noi meridionali, lo avevamo avuto nel non lontanissimo 1799. Uno scontro fratricida tra sciammerghe (giubba lunga con falde, marsina, simbolo di quella borghesia che impadronendosi del demanio pose fine agli usi civici) e occupanti francesi da un lato, lazzari e filoborbonici dall’altro con decine di migliaia di morti. Alla storia gli uni sono stati consegnati come martiri della libertà, gli altri come i sanfedisti sanguinari che annientarono il fior fiore della borghesia meridionale!

I francesi coi loro eserciti insanguinarono tutta l’Europa e anche le nostre contrade meridionali, ma non è politicamente corretto dirlo, scriverlo o dimostrarlo, fonti alla mano.

Chi vince decide chi è patriota. Lo furono veri patrioti i martiri napoletani del 1799. E così sia.

La storia si ripeté nel 1860 e i morti furono centinaia di migliaia, praticamente non se ne conosce il numero e né lo si vuol conoscere. Molti documenti furono distrutti nel cosiddetto “forno della carta” e altri sono stati per decenni e sono ancora non facilmente accessibili.

I contadini siciliani prima e i contadini meridionali del continente poi furono utilizzati dai vari comitati liberali antiborbonici come forza d’urto contro l’esercito meridionale facendolo sciogliere come neve al sole. Nel giro di pochi mesi – passata l’illusione garibaldina – furono quegli stessi contadini a reimbracciare i fucili e ad insorgere contro il nuovo regime che si stava rivelando peggiore del vecchio.

Una guerra civile decennale – 1860-1870 – che terminò con la sconfitta degli insorti meridionali e la consacrazione manu militari del nuovo stato.

Da questa guerra e dagli avvenimenti di questi primi dieci anni di unità, discende tutto: questione meridionale, meridionalismo e sicilianismo.

Durante questi anni o si era unitaristi o traditori della patria con tutto ciò che ne conseguiva sul piano lavorativo e personale. Anni in cui il potere militare determinava scelte e comportamenti e contro il quale si poteva reagire solo con le armi. Tanto è vero che i giornali che provarono a criticare il nuovo regime furono tutti chiusi, uno dopo l’altro e spesso i responsabili imprigionati. La stessa parola “borbonico” era divenuta pericolosa da pronunciare o – nel migliore dei casi – sinonimo di “reazionario”. E lo resterà fino ai giorni nostri. Per i più lo è ancora, per noi che scriviamo è termine consegnato alla storia del paese meridionale: non ne facciamo un mito e non ce ne vergogniamo, anzi per noi ha un suono familiare, di qualcosa che ci appartiene e ci fa stare meglio.
I liberali che avevano lottato per la caduta dei borbone si trovarono stretti tra il rinnegare se stessi e la propria opera (vedi le Lettere Meridionali di Villari del 1861 e del 1875) e magari rimetterci di persona – schierandosi apertamente contro il nuovo regime – oppure fare buon viso a cattivo sangue, guadagnandoci pure qualche incarico e un buon stipendio.

La relazione della commissione Massari (meridionale, pugliese) e la legge Pica (meridionale, abruzzese) furono le antesignane di tutte le successive commissioni, inchieste, relazioni, provvedimenti sul mezzogiorno fino ad oggi.

Un paese – quello meridionale – la cui economia veniva messa in ginocchio da una guerra civile diventava un luogo da studiare, capire, aiutare!

Ci aiutarono. Prima a suon di schioppettate e campi di concentramento (Forte di Fenestrelle ed altri), poi con qualche provvedimento legislativo per tenerci buoni. E continuano a farlo pure oggi, con la nostra complicità ovvero di quelli che ancora credono nella storiella dell’atavica questione meridionale.

Noi non ci crediamo più e da anni, ormai.

Per noi la questione meridionale così come fu posta in quegli anni di guerra fratricida e come viene ancora posta dagli epigoni di quei liberali meridionali che aiutarono i piemontesi a precipitarci nel baratro, non esiste e non è mai esistita.

Per questo è ora che buttiamo alle ortiche tutto ciò che ne consegue e cioè quell’armamentario culturale pseudo-scientifico detto meridionalismo (e sicilianismo) che non è servito altro a trovare pezze giustificative al “disastro meridionale” (Cfr. L’unità truffaldina - L’origine politica del capitalismo padano e del disastro meridionale di Nicola Zitara).

Concludiamo queste righe citando pochi ma interessanti casi di studiosi o politici – chiamateli meridionalisti o come vi pare – che hanno espresso pareri forti e che però tali pareri sono pressoché sconosciuti e non solo al grande pubblico.

 

GRAMSCI: "Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti". Ordine Nuovo" 1920

 

SALVEMINI: “[ ... ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell'Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d'America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant'anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l'Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant'anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant'anni i cosiddetti democratici”. Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo 1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81.

 

STURZO: "Che le regioni italiane abbiano finanza propria e propria amministrazione secondo le diverse esigenze di ciascuna, e che la loro attività corrisponda alle loro forze... è razionale e giusto... Io sono unitario, ma federalista impenitente.

Lasciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da noi, da noi disporre il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere la responsabilità delle nostre opere; non siamo pupilli, non abbiamo bisogno della tutela interessata del Nord". La Regione, 1901

 

di Zenone di Elea, 17 Febbraio 2006

Fonte:

http://www.eleaml.org/sud/den_spada/liberiamoci_
meridionalismo.html

 
 
 

IL REALE OFFICIO TOPOGRAFICO, LA RICERCA GEOGRAFICA ALL'AVANGUARDIA NEL REGNO DI NAPOLI

Post n°114 pubblicato il 25 Agosto 2011 da lecittadelsud
 



Fra i tanti primati del Regno delle Due Sicilie uno è da ricercare in un istituto che è stato il precursore della ricerca geografica e che è il Reale Officio Topografico di Napoli, nato in modo eroico sull'influsso dell'Illuminismo settecentesco, sfidando lo scetticismo conservatore che regnava, le gelosie e le invidie di coloro che erano portatori di altre verità che le nuove conoscenze stavano debellando. 
L'abate Ferdinando Galiani, consigliere di Ferdinando IV, aveva in­tuito quale valore importante avesse la conoscenza cartografica dello Stato ai fini della difesa, della sicurezza interna e di un eventuale con­flitto con altri Paesi che ambivano alla conquista del Regno napoletano. 
In questa prospettiva, il Galiani, che era a Parigi poco dopo la metà del Settecento come segretario dell' ambasciata del Regno di Napoli, concorse nell'idea della realizzazione di una carta del suo Regno attra­verso l'opera del cartografo padovano Giovanni Antonio Rizzi Zannoni che per vicende varie era stato costretto a vivere in quella città. Parigi, al­lora, occupava un ruolo eminente nel contesto della cultura europea e vi­veva un momento particolare anche nel campo cartografico per la pre­senza di illustri cartografi tra cui J.B. Bourgnigond'Anville (1697-1782). La carta geografica pubblicata in quattro fogli fu un contributo valido per la rappresentazione dell'Italia meridionale e rimase insostituibile per diversi decenni. Da questi contatti tra il Galiani e il Rizzi Zannoni scaturì l'invito rivolto al cartografo perché si trasferisse a vivere a Napo­li, ponendo il suo impegno al servizio di Ferdinando IV e iniziasse la pre­parazione di una moderna carta del Regno di Napoli su basi geodetiche, attraverso il rilevamento diretto del territorio da rappresentare. 
Giovanni Antonio Rizzi Zannoni arriva a Napoli nel 1781 con il compito di fondare e dirigere il primo Reale Officio Topografico di Na­poli, destinato a divenire una delle prime istituzioni cartografiche di Stato in Europa, portando con sé tutti i suoi strumenti e tutto il suo ar­chivio geografico. 
Favorito dalla benevolenza di Ferdinando IV, sempre molto atten­to al progresso scientifico, e vincendo le opposizioni dei contempora­nei l'abate Galiani, superate varie e complesse opposizioni nella corte reale, promosse l'acquisto di strumenti moderni, suggeriti da Rizzi Zannoni, e ottenne locali molto ampi (nella zona del Rosario di Palaz­zo) dove furono impiantati i laboratori cartografici e lui stesso fu no­minato Commissario dell'impresa. 
Con l'istituzione dell'Officina Topografica giunsero a Napoli im­portanti disegnatori, cartografi e matematici che entrarono a far parte del laboratorio il quale divenne una scuola di alto livello nella prepara­zione di carte geografiche, contribuendo a farne conoscere i suoi docu­menti fino alla caduta della dinastia borbonica. 
I tecnici del Reale Officio Topografico, e lo stesso Galiani finché vis­se, percorsero e rilevarono il territorio del Regno di Napoli, suscita anche pericolose curiosità nelle popolazioni poco abituate a tali presenze. Il comportamento a vette ostile delle popolazioni nei confronti dei tecnici dell'Officio Topografico cominciarono a creare preoccupazioni tanto che non mancarono aggressioni a questi rilevatori del territorio e si rese, per­tanto, necessario organizzare drappelli di soldati per la loro protezione
Cominciarono ad essere prodotti i primi lavori del laboratorio tra cui una Pianta della Città di Napoli, una Topografia dell'Agro Napoletano con le sue adiacenze ( 1793), l'Atlante Geografico del Regno di Napoli, la Carta del­la Sicilia, l'Atlante Marittimo del Regno di Napoli1, la Carta di Cabotaggio della costa del Regno delle Due Sicilie bagnata dall'Adriatico, dal fiume Tron­to al Capo di S.ta Maria di Leuca. Nel 1845 fu disposta la realizzazione di una carta generale del Regno in quattro fogli che fu pubblicata dopo l'u­nità d'Italia (1861) con il titolo Carta delle province meridionali d'Italia in­dicante le tappe militari ed i rilievi postali costruita nel Regio Officio Topogra­fico di Napoli sui migliori elementi geodetici e topografici. Tante furono le opere che videro la luce nel Regio Officio Topografico che suscitarono su­bito l'ammirazione di tutte le corti europee per la loro peculiarità e il loro pregio artistico e che ancora oggi dimostrano il ruolo fondamentale della cartografia borbonica nel contesto degli europei del tempo. L' attività del Reale Officio Topografico portò nuova linfa vitale an­che nell'economia del Regno; infatti, furono commissionate grandi lastre in rame per le incisioni, strumentazioni di nuova concezione e car­te speciali per la stampa delle opere geografiche di grandi dimensioni, cosa non solita per quei tempi, prodotti questi che venivano realizzati molto dagli opifici nazionali che raggiunsero alta specializzazione. Tra questi ricordiamo la Cartiera di Scauri in Terra di Lavoro. Il Reale Officio Topografico, per la sua peculiare e specialistica at­tività, continuò la sua attività anche durante il decennio francese che la rese ufficiale con legge del 1814 del Re Gioacchino Murat". Questa istituzione continuò ad operare fino al 1860 attraverso la pubblicazione di carte del territorio e di piante di centri abitati. Con l'I­talia unita l'Officio fu di fatto soppresso anche se ufficialmente rimase attivo fino al 1879 anno in cui fu definitivamente trasferito presso l'at­tuale Istituto Geografico Militare di Firenze, dove ancora sono deposi­tate molte delle opere prodotte e le apparecchiature scientifiche. Anco­ra una volta un'istituzione scientifica del Regno delle Due Sicilie veni­va arbitrariamente inglobata, con tutte le ricchezze rappresentate dalla tradizione, dagli impianti e dalla scienza profusa da tanti scienziati in un'altra istituzione costituita dopo l'unità d'Italia. 

Franco Ciufo
(delegato per il Basso Lazio del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio)


Fonte:http://istitutoduesicilie.blogspot.com/2011/08/il-reale-officio-topografico-la-ricerca.html

 
 
 

NICOLA ZITARA E LA STRADA DEL SEPARATISMO MERIDIONALE

Post n°113 pubblicato il 17 Agosto 2011 da lecittadelsud
 

NORD_SUD

Le disavventure in cui i meridionalisti s'imbattono in occasione delle ricorrenti tornate elettorali dello Stato italiano hanno portato le nostre interne contraddizioni a esplodere. E' infatti assurda la pretesa di partecipare alla vita pubblica senza altro progetto che farsi eleggere a qualcosa. I fiaschi amareggiano, ma ancor peggio sarebbe un successo finalizzato a portare borracce ai mestatori dell'Italia padanista. Andrebbe sprecato sull'altare della vanità e del vaniloquio il proficuo lavoro di recupero culturale fatto fin qui.
Le motivazioni politiche e umane del separatismo sono state esposte parecchie volte. Si è detto che non è questione di bandiere, di fanfare, di uniformi, di dinasti, e meno che mai di lingua e di cultura. Niente che abbia a che fare con Dante con Michelangelo con Cesare Beccaria con Gaetano Donizzetti con Alessandro Manzoni con le nevi delle Alpi o con le nebbie della Palude Padana. E neppure con gli altri italiani qualunque. L'indipendenza riguarda la funzione regolatrice dell'ente Stato nell'economia, nei rapporti sociali, nella vita privata, sul risparmio, sul destino degli individui e delle famiglie, sull'onore di ciascuno, nelle finalità che un paese libero si prefigge. Relativamente al nostro paese, principalmente la produzione, che sta alla base dell'occupazione.
Una nazione unitaria per cultura, per religione, per principi morali, per lingua e territorio può dar luogo a più formazioni sociali, cioè a collettività che in un momento dato si pongono finalità pratiche diverse. E' il caso italiano, con un Centronord che gode della piena occupazione, che anzi importa manodopera extracomunitaria per coprire i vuoti demografici e che si prefigge un più alto grado di competitività internazionale, utilizzando a tal fine anche il risparmio e le altre risorse che le popolazioni meridionali possono offrire, e un Sud che non controlla le proprie risorse e che versa in un miserando vuoto produttivo e occupazionale.
Il punto di partenza dell'indipendentismo risiede nel diritto/dovere di rispettare il nostro passato, i nostri morti, le risorse che da loro abbiamo ereditato e il nostro stesso lavoro, che stiamo buttando al vento. Il punto di arrivo è una profonda rivoluzione sociale.
Per un'estrema esigenza di chiarezza ribadisco ancora una volta che il progetto separatista non configura un'azione militare contro chicchessia, all'interno o all'esterno del paese. La fondazione di un nuovo ordinamento giuridico s'impernia intorno al riordino del peso politico ed economico che hanno le classi sociali nel nostro sistema, il quale è stato fissato d'autorità dall'esterno e contro l'interesse generale, al momento dell'unificazione sabauda, e mai riequilibrato in appresso.
Lo Stato è impersonato e diretto dagli uomini, o per essere più precisi dalle classi storicamente dirigenti. Da questo angolo visuale il paese meridionale ha il problema negativo di dover soggiacere all'arrangismo, al parassitismo, al loggismo, alla strategica e programmata inefficienza di una borghesia priva di un proprio status economico, e pertanto sempre disposta ad allungare la mano per una mancia lasciata cadere da Roma, da Milano, da Genova.
Inutile nascondersi dietro il dito. La nascita dello stato meridionale comporta una rivoluzione contro i discendenti ed eredi spirituali di quei generali, ammiragli, maggiori, capitani, avvocati, medici, notai, poeti e filosofi, che svendettero la patria e rinnegarono il giuramento fatto, per i quattro soldi che gli emissari di Cavour e i consoli inglesi distribuivano nelle città e nei porti duosiciliani. In primo luogo il Sud deve condurre una rivoluzione morale che ristabilisca fra la sua gente l'idea d'onore privato e pubblico.
La conquista del potere avverrà dal basso, comune per comune. La pressione dal basso svuoterà di peso politico le rappresentanze romane. La secessione parlamentare sancirà la separazione.
Lo stato assumerà la forma di una monarchia amministrativa retta dal legittimo discendente di Francesco II di Borbone. Ciò prima di tutto per pagare il debito morale contratto dalle popolazioni meridionali verso una dinastia amante del popolo e amata dal popolo, che seppe emancipare il paese dai ritardi e dai pesi ereditati dal Viceregno spagnolo e che, nonostante le immense difficoltà, ebbe la saggezza e l'immaginazione per riportarlo sulla strada dello sviluppo economico e materiale.
In secondo luogo, avendo il re il carattere di un mito terreno, la forma monarchica darà coesione a un paese moralmente disgregato e degradato, che non riconosce più se stesso.
In terzo luogo, il Sud indipendente dovrà contare su un esercito e su forze di polizia disciplinatissimi. Per chiunque indossi una divisa, le gerarchie sono funzionali al ruolo. Un capo designato per diritto dinastico, e quindi indiscutibile, rinsalda i ranghi militari e conferisce alla funzione gerarchica una valenza immediata e istintiva.
Se a un certo punto del suo governo, il re vorrà sottoporre al popolo la permanenza della forma monarchica, il gesto avrà un gran peso per la maturazione del paese.
Le opinioni saranno libere, la manifestazione delle idee sarà garantita e assistita economicamente dallo stato. I sondaggi d'opinione saranno condotti da istituzioni indipendenti dal potere politico e resi pubblici.
I partiti politici potranno e dovranno sorgere sin dal primo giorno dell'indipendenza al fine di formare la gente a giudicare l'azione del potere governante e perché essi stessi si preparino per il momento in cui il paese passerà al sistema elettorale.
Sarà garantita la libertà religiosa. La libera espressione dei culti non dovrà rivelarsi pregiudizievole per la morale corrente. Le associazioni e i circoli cattolici goderanno del sostegno pubblico nell'opera di guidare moralmente i giovani al rispetto di sé e degli altri.
La certezza del diritto e l'indipendenza della magistratura saranno un pilastro del nuovo Stato. L'istruzione sarà un servizio pubblico. Le scuole elementari e le scuole medie avranno carattere comunale o circondariale. Gli insegnanti saranno designati dal senato scolastico comunale o circondariale. Le scuole tecniche dipenderanno dal ministero competente per materia. I licei e le università dipenderanno da un organo centrale. Le scuole primarie saranno insediate preferibilmente fuori dai centri urbani, in modo che ogni ragazzo venga a conoscenza delle pratiche agricole. La manualità negli antichi e nei nuovi mestieri costituirà un obiettivo primario nella formazione giovanile. I libri e il materiale didattico saranno a carico dello Stato. Saranno previsti dei corsi di eccellenza per gli studenti più promettenti. L'ingresso alle università avverrà per esami. Gli studenti universitari riceveranno un salario fino alla laurea. I laureati non occupati otterranno come tutti i disoccupati un contributo pubblico per il sostentamento.
Nel vigente sistema le grandi aziende sono dirette da dipendenti cointeressati al profitto, mentre la proprietà è divenuta rendita pura, come nel feudalesimo. Lo Stato è al servizio dei ceti parassitari e interviene a loro favore in modo obliquo alimentano l'idea che essi siano i fattori portanti dell'economia nazionale. In effetti sono le aziende piccole e medie a realizzare gran parte della produzione e a far fluire cospicue rendite al parassitismo delle banche nazionali. Il carico della spesa pubblica ricade in proporzione vicina al 100 per cento sulle spalle dei lavoratori.
Nel nuovo Stato le aziende apparterranno alla proprietà privata di chi ci lavora dentro e di chi rischia i propri risparmi nell'impresa. Il lavoro dipendente dovrà essere superato attraverso forme societarie fra i produttori. Si tratta della forma più vera di liberalismo.
L'unità monetaria sarà ancorata all'oro e/o alle valute forti. Il sistema bancario sarà statale e diviso per settori in banche industriali, banche agricole, banche commerciali e banche per il consumo. La banca per l'assistenza ai bisogni familiari andrà rivitalizzata. Il sistema creditizio andrà diviso a più livelli, con banche comunali, banche regionali e banche nazionali. La loro attività andrà resa pubblica e sarà pubblicamente discussa, in quanto (anche oggi) l'attività bancaria è propriamente attività politica e quindi non va esercitata dietro cortine fumogene.
Le abitazioni saranno di chi ne ha titolo secondo la tradizione civilistica romana. L'imposta sui fabbricati sarà corrisposta ai comuni e corrisponderà al canone d'affitto corrente. Gli altri immobili passeranno ai comuni, con privilegio di locazione a favore del vecchio proprietario.
La proprietà delle terre che non siano piccoli orti passerà ai comuni. Questi le assegneranno ai precedenti detentori, se agricoltori. Negli altri casi le daranno in locazione ad agricoltori professionali. La produzione agricola sarà progettata e guidata dai comuni, dalle regioni e dallo Stato, attraverso organi composti da eletti e da specialisti.
Il commercio, l'artigianato, l'industria e ogni altra attività saranno regolate secondo il diritto privato.
Dopo essersi impadronite del nostro lavoro, le multinazionali e in genere le grandi aziende, attraverso la pubblicità e le altre correnti forme di plagio dei singoli, si vanno impadronendo non solo della nostra capacità di spesa ma anche del nostro libero arbitrio. Pertanto la democratizzazione delle aziende e il controllo politico delle loro attività costituiscono un'esigenza umanistica. Le aziende potranno essere sottoposte ad amministrazione controllata nel caso che insorga timore per l'economia nazionale. Lo Stato e gli altri enti territoriali conferiranno alle persone fisiche e alle persone giuridiche gli impianti e i macchinari con un contratto di leasing. Le banche industriali forniranno il capitale di esercizio dietro garanzia personale e solidale dei proprietari. Lo stato e gli altri enti potranno avviare delle imprese associando i privati in base al contratto di compartecipazione.
Il movimento dei capitali con l'estero sarà gestito dallo stato. Lo stato meridionale che verrà deve spiritualmente prepararsi a tutti i possibili eventi della storia futura. Esso non ha alcun interesse a permanere e a sostenere l'Unione Europea, che fonda la sua morale sul profitto capitalistico e affida all'ingordigia efficiente l'avvenire delle popolazioni coinvolte. Un marcato interesse ha invece alla vitalità e allo sviluppo delle collettività presenti nel Continente mediterraneo.
L'intolleranza religiosa e razziale costituiranno reato penalmente perseguito.
Il Movimento per la Liberazione del Sud Italia avrà base comunale. In ogni comune, anche fuori del Meridione, si formeranno una o più Compagnie. Le Compagnie sono subordinate al direttorio unico. L'adesione al Movimento è pubblica e comporta il giuramento di agire politicamente in modo conforme alle decisioni. Saranno ammesse soltanto le persone capaci di fedeltà. Le domande di adesione saranno accompagnate da un curriculum politico. L'adesione al Movimento è consentita ai nati in un comune del Sud Italia e ai loro figli nati altrove, limitatamente alla prima generazione. Gli oriundi meridionali di successive generazioni saranno ammessi caso per caso. Gli iscritti contribuiranno al funzionamento del Movimento. Il Movimento adotterà una bandiera bianca con al centro un simbolo che richiami l'idea di fratellanza umana.

Nicola Zitara

Siderno, 27 Giugno 2004

FONTE:http://www.eleaml.org/nicola/politica/parte_mls.html

 
 
 

LA STRAGE DI PONTELANDOLFO E LE AMNESIE DI AMATO

Post n°112 pubblicato il 17 Agosto 2011 da lecittadelsud
 

Domenica 14 agosto Pontelandolfo, in provincia di Benevento, ha ricordato con una solenne cerimonia i centocinquant'anni dalla strage del 14 agosto 1861, forse la pagina più nera del Risorgimento.

Il 7 agosto 1861 - forse animati dalla falsa notizia di uno sbarco dei Borboni - un folto gruppo di "briganti" - un epiteto su cui oggi molto si discute - della "banda" dell'ex capitano borbonico Cosimo Giordano (1839-1888) s'impadroniscono dei comuni di Casalduni e Pontelandolfo, nel Beneventano, uccidendo quattro "galantuomini" favorevoli al governo di Torino e cinque carabinieri. L'11 agosto i bersaglieri tentano di riprendere il controllo di Pontelandolfo: ma cadono in un'imboscata, e quaranta di loro sono condotti a Casalduni e uccisi. Sull'episodio gli storici non sono concordi: non manca una tesi " complottista" - ma non incredibile - secondo cui le false voci sarebbero state diffuse da "galantuomini", proprietari terrieri intenzionati ad alimentare il conflitto per profittare poi della successiva, inevitabile repressione.

E la repressione ci fu, durissima. Su ordine del generale Enrico Cialdini (1811-1892), una colonna di cinquecento bersaglieri al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri (1818-1887) entrò all'alba del 14 agosto a Casalduni, dove trovarono poche persone: molti, avvisati per tempo dell'arrivo dei soldati erano fuggiti. Andò peggio a Pontelandolfo, dove gli abitanti furono in gran parte sorpresi nel sonno. "Di Pontelandolfo e Casalduni - aveva scritto Cialdini a Negri - non deve rimanere pietra su pietra".

Un soldato, il filatore valtellinese Carlo Margolfo, descrisse poi nelle sue memorie quanto avvenne a Pontelandolfo, con parole che meritano di essere riportate per intero: "Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l'ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l'incendio al paese. Non si poteva stare d'intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l'obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava".

Ma il soldato Margolfo tace pudicamente gli stupri delle donne, che non risparmiarono né le anziane né le bambine, anche di nove o dieci anni, e la profanazione della Chiesa Madre, dove fu perfino strappata alla Madonna la sua corona, che risultano da altri resoconti e sono riassunti nella recente delibera comunale che ha proclamato Pontelandolfo "città martire". A lungo i dati ufficiali riconobbero solo diciassette vittime, fra cui la bambina di nove anni Concetta Biondi (1852-1861) che, per sfuggire alla violenza carnale, si rifugiò in una cantina dove fu inseguita e uccisa, con il suo sangue che si mescolava al vino che usciva dalle botti sventrate dai soldati.

Oggi si sa che i morti furono almeno quattrocento, dieci per ogni bersagliere ucciso secondo la logica perversa che tutti condannano per le Fosse Ardeatine ma dimenticano quando si tratta del Risorgimento e del Sud. Ma c'è chi parla di mille, aggiungendo episodi successivi di repressione e coloro che morirono per le ferite patite il 14 agosto.

Che Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni dei centocinquant'anni dell'Unità d'Italia, sia voluto salire a Pontelandolfo in occasione del centocinquantenario dell'eccidio insieme a rappresentanti dei bersaglieri e al sindaco di Vicenza, la città del colonnello Negri, è certamente un dato positivo. Non giova alla vera unità d'Italia il silenzio o peggio la mistificazione sulle stragi e gli eccidi che costellarono la "conquista del Sud". Qualche dubbio resta però - e giustifica le polemiche manifestazioni separate di alcuni gruppi  - quando si sentono nei discorsi ufficiali e si leggono negli articoli dei grandi quotidiani frasi secondo cui la memoria di Pontelandolfo non può né "rimettere in discussione il Risorgimento" né "rivalutare il Regno delle Due Sicilie".

Certo, non si tratta di sostituire una "leggenda rosa" alla leggenda nera che corre sul Regno dei Borboni. Ma non può essere vietato ricordare che la leggenda nera fu ampiamente diffusa dal Piemonte, dalla Gran Bretagna sua alleata e dalla massoneria, e che offuscò completamente i successi economici e culturali del Regno delle Due Sicilie, per non parlare delle sue ricchezze spirituali e religiose. Quella leggenda nera dura ancora oggi, e nessuno dovrebbe avere più paura di una storiografia obiettiva e onesta.

No, presidente Amato, Pontelandolfo e tante altre vergogne - basterebbe ricordare la deportazione nel forte piemontese di Fenestrelle di centinaia di soldati borbonici, lasciati morire di stento e di freddi dopo di che i loro corpi, troppo numerosi per essere sepolti, erano gettati in un pozzo di calce viva - mettono davvero in discussione il Risorgimento, che non va confuso con l'unita d'Italia. Se l'unità era un'aspirazione ragionevole, il Risorgimento fu il modo ideologico - centralista, laicista, anticattolico - di realizzare questa aspirazione. Le stragi come quella di Pontelandolfo non furono un incidente di percorso, ma il frutto avvelenato e inevitabile di quell'ideologia, che ancora pretende di egemonizzare il modo di raccontare l'Italia e la sua storia.

Massimo Introvigne

Fonte:http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-la-strage-di-pontelandolfoe-le-amnesie-di-amato-2739.htm

 
 
 

LE DUE SICILIE PRIMA DELL'UNITA'

Post n°111 pubblicato il 20 Luglio 2011 da lecittadelsud
 



Le Due Sicilie erano lo stato italiano preunitario più esteso territorialmente e comprendevano tutto il Sud continentale d’Italia, l’Abruzzo, il Molise, la parte meridionale del Lazio e la Sicilia. La storia delle Due Sicilie era cominciata nel lontano 1130 con i Normanni e il loro sovrano Ruggero II, il regno durò 730 anni e i suoi confini rimasero in pratica invariati comprendendo comuni che avevano spesso origine greca: “Correva l’anno 1072 quando Roberto e Ruggero d’Altavilla irrompevano nella città di Palermo ponendo fine al dominio arabo in Sicilia e avviando un processo che avrebbe portato l’isola a divenire il regno più ricco dell’Occidente cristiano. I Normanni, oltre ad esaltare al massimo le potenzialità economiche e culturali della Sicilia riuscirono a dimostrare, in un tempo in cui l’intolleranza era la regola, come fosse possibile la convivenza con civiltà diverse … per oltre un secolo la Sicilia fu un riferimento cui gli altri sovrani guardarono con grande rispetto e che la Chiesa cercò di blandire fino a insignire, nel 1130, il gran conte Ruggero II della ambita dignità regia. La corte del primo re di Sicilia divenne la più brillante dell’Europa medievale”. Scrive Benedetto Croce: “L’unità territoriale non fu il solo retaggio che i principi normanni lasciarono all’Italia meridionale, perchè con essa le trasmisero l’unità monarchica, nel senso di uno stato governato dal centro, con eguali istituzioni e leggi, magistrati e funzionari; e questa forma vi serbò sempree, nonchè mutarla nel fatto, non se ne concepirà altra nemmeno in idea. Ai Normanni (1130-1194), seguirono gli Svevi (1194-1266), gli Angioini (1266-1442) e gli Aragona (1442-1503); a loro subentrarono gli Spagnoli (1503-1707) e poi gli austriaci per solo ventisette anni (1707-1734); i più importanti sovrani delle varie casate furono considerati ai vertici assoluti dell’aristocrazia europea: ricordiamo per tutti Federico II di Svevia, detto Stupor Mundi”, artefice di ordinamenti statali e riforme che lo fanno considerare uno dei piu’ grandi statisti di tutti i tempi. Nel 1734 la Spagna rioccupò il Regno strappandolo agli Asburgo e iniziò l’era borbonica con i suoi re: Carlo (1734-1759), Ferdinando I (1759-1825), Francesco I (1825-1830), Ferdinando II (1830-1859) e Francesco II (1859-1861). Carlo, figlio di Filippo V, re di Spagna e di Elisabetta Farnese, entrò in Napoli il 10 maggio 1734, sconfisse il 25 maggio gli Austriaci nella battaglia di Bitonto e mise la Nazione sotto uno scettro “che unisce ai gigli d’oro della Casa di Francia ed ai sei d’azzurro di Casa Farnese le armi tradizionali delle Due Sicilie: il cavallo sfrenato, vecchia assise di Napoli e la Trinacria per la Sicilia”; l’incoronazione di Carlo si celebrò, l’anno successivo, nel duomo normanno di Palermo, a testimoniare la continuità della monarchia meridionale nata nello stesso luogo nella notte di Natale del 1130 con Ruggero II. Nella successiva guerra contro l’Austria, del 1744, Carlo fu vittorioso a Velletri, e si confermò nuovo interprete e simbolo della secolare Nazione: il Sud d’Italia non aveva più a capo un semplice vicerè ma un sovrano tutto suo: “Amico, cominciamo anche noi ad avere una patria, e ad intendere quanto vantaggio sia per una nazione avere un proprio principe. Interessianci all’onore della nazione. I forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare se avessimo miglior teste. Il nostro augusto sovrano fa quanto può per destarne”; successivamente, con la Prammatica del 6 ottobre 1759, re Carlo stabilì la definitiva separazione tra la corona spagnola e quella delle Due Sicilie, restituendole la piena indipendenza. La dinastia borbonica durò 126 anni, con essa il Sud, non solo riaffermò la propria indipendenza, ma ebbe un indiscutibile progresso nel campo economico, culturale, istituzionale; purtroppo “La storiografia ufficiale continua ancora oggi a sostenere che, al momento dell’unificazione della penisola, fosse profondo il divario tra il Mezzogiorno d’Italia e il resto dell’Italia: Sud agricolo ed arretrato, Nord industriale ed avanzato. Questa tesi è insostenibile a fronte di documenti inoppugnabili che dimostrano il contrario ma gli studi in proposito, già pubblicati all’inizio del 1900 e poi proseguiti fino ai giorni nostri, sono considerati, dai difensori della storiografia ufficiale: faziosi, filoborbonici, antiliberali e quindi non attendibili “. In realtà, all’epoca dell’ultimo re meridionale, Francesco II, l’emigrazione era sconosciuta, le tasse molto basse, come pure il costo della vita, il tesoro era floridissimo, l’economia in crescita, la percentuale dei poveri era pari al 1.34% (come si ricava dal censimento ufficiale del 1861) in linea con quella degli altri stati preunitari. La popolazione dai tempi del primo re della dinastia borbonica Carlo III (1734) a quelli di Francesco II si era triplicata e questo indicatore, a quei tempi, era un indice di aumentato benessere (è chiaro che si parla di livelli di vita relativi a quei tempi quando il reddito pro capite in Italia era meno di un quarantesimo di quello di oggi e molte delle comodità attuali erano inesistenti), la parte attiva era poco meno del 48%. Contrariamente a quanto affermato dalla storiografia ufficiale, la politica dei sovrani borbonici fu improntata a diversificare le attività produttive del Sud favorendo lo sviluppo dell’artigianato, del commercio e della prima industrializzazione degli stati preunitari italiani, superando, in questo modo, i confini di un’economia basata quasi esclusivamente sull’agricoltura, che, in realtà, rappresentava l’attività prevalente anche nel resto d’Italia e di gran parte d’Europa. All’inizio, fu necessario, per permettere alle giovani fabbriche meridionali di raggiungere un livello competitivo, un sistema di protezioni doganali, analogo a quello esistente in altri Stati; il “protezionismo” fu poi gradualmente mitigato dal 1846, l’obiettivo, in quel momento, era di inserire l’industria, ormai matura, nel meccanismo del commercio europeo: si abbassarono i dazi d’importazione, che precedentemente potevano arrivare anche al 20%, si strinsero numerosi trattati commerciali compresa la lontana India dove, dal 1852, era attivo un console delle Due Sicilie e dove arrivò, primo tra gli italiani, un bastimento meridionale. La critica liberista, con in prima fila economisti meridionali come Villari e Scialoja, già esuli per motivi politici, ha bollato la politica economica dei sovrani meridionali, definendola un “fallimento autarchico”, figlia del loro “paternalismo” e del “protezionismo” (le industrie meridionali, ad esempio, sono state chiamate “baracconi di regime”) ma questa bocciatura appare in gran parte ideologica e strumentale agli interessi della monarchia sabauda e dei suoi sostenitori, ai quali venivano forniti argomenti per calunniare i sovrani meridionali da loro spodestati; al contempo, era anche utilissima agli stessi economisti ai quali venivano assegnate le cattedre universitarie solo se erano “allineati” a questa impostazione critica. È vero che il principio su cui era basata l’economia borbonica era quello di uno sviluppo guidato e sostenuto dallo Stato che salvaguardasse gli interessi dei ceti popolari e l’autosufficienza del Mezzogiorno in tutti i settori, ma è altrettanto vero che ci si deve pur chiedere dove finissero i prodotti delle fabbriche meridionali che erano ai vertici delle industrie italiane (come vedremo in seguito) e che avevano una produzione di manufatti chiaramente superiore alla capacità di assorbimento del mercato interno meridionale, come pure a cosa servisse la poderosa flotta mercantile del Sud, che era la quarta del mondo come tonnellaggio, la cui bandiera garriva in tutti i porti (per esempio, in Francia, era seconda, come presenza, solo a quella inglese). È vero che i dazi sull’esportazione dei prodotti alimentari non erano certo di impostazione liberista, ma essi facevano parte di una politica economica statale che permetteva di vendere i generi di prima necessità ad un prezzo bassissimo, oggi si direbbe “politico”, soddisfacendo in questo modo le esigenze alimentari della popolazione; tutte le fonti, anche le più accese antiborboniche, concordano unanimemente nel confermare che nel meridione d’Italia si viveva con pochissimo; questo, però, non soddisfaceva gli interessi dei proprietari terrieri che divennero, anche per questi motivi, i più acerrimi nemici della Monarchia meridionale e interessati fautori dell’unità d’Italia. Il corso borsistico dei titoli pubblici del Sud d’Italia era elevato su tutte le piazze europee (fino a quota 120) e le sue finanze più che floride erano floridissime (come vedremo in dettaglio nei prossimi capitoli); i conti quindi non tornano a chi vuole conoscere i fatti depurati dai pregiudizi. Aggiungiamo, infine, che a uno stato come il Piemonte, che era sull’orlo del collasso economico, sarebbe stato fatale appropriarsi di una nazione che la critica antimeridionale vuole per forza dipingere come economicamente a terra e sarebbe stato stupido, e stupido certo non lo era, il banchiere Rothschild, che teneva in pugno lo stato sabaudo grazie ai suoi prestiti e che aveva quindi tutto l’interesse che fosse solvibile, non “avvertire” Cavour della non convenienza dell’operazione; in realtà, per i motivi suddetti, il Sud era un frutto golosissimo che avrebbe risolto tutti i problemi finanziari della nazione subalpina. In conclusione possiamo dire che l’economia meridionale non era né completamente liberista né completamente autarchica a guida statale, era una via di mezzo. È, però, vero che i re Borbone avevano una radicata diffidenza per il “capitalismo puro” delle altre nazioni industriali, in parte per motivi nazionalistici, in parte per motivi ideali, con una sostanziale ripulsa di orari di lavoro disumani, come pure dello sfruttamento, molto diffuso, dei bambini. In molte industrie lombarde non veniva osservata la legge sull’istruzione obbligatoria e due quinti degli operai dell’industria cotoniera lombarda erano fanciulli sotto i dodici anni, per la maggior parte bambine, che lavoravano dodici e persino sedici ore al giorno. Il Sud vantava una scuola di primissimo ordine, tanto che proprio a Napoli nacque nel 1754 la Prima cattedra universitaria al mondo di Economia Politica con Antonio Genovesi, e in Europa, le Due Sicilie si comportavano dignitosamente con un incremento annuo del PIL di circa l’1%, a distanza, logicamente, da superpotenze mondiali come Francia e Inghilterra che veleggiavano sul 2,3%; ma, nel Mezzogiorno, pur non essendo ricchi, non si moriva di fame e, come già detto, l’emigrazione non esisteva. Re Ferdinando II incentivò l’opera dell’Istituto d’Incoraggiamento, che era inizialmente alle dipendenze del Ministero dell’Interno e poi, nel 1847, del neonato Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio; questa istituzione centrale coordinava l’attività delle varie società economiche che avevano il compito di diffondere “l’istruzione tecnica specifica” agli addetti dei vari settori economici, con lo scopo di ottimizzare il loro lavoro. Negli altri stati italiani ed europei esistevano analoghe associazioni ma, di solito, erano private, mentre nelle Due Sicilie erano strumento del governo centrale, pur se negli anni si guadagnarono una certa autonomia. Furono, inoltre, creati incentivi economici anche per industriali stranieri che impiantassero le loro attività nelle Due Sicilie così imprenditori svizzeri, francesi, inglesi, accorsero nel regno, si organizzavano periodicamente fiere ed esposizioni locali e nazionali dove i vari produttori potevano esporre i loro manufatti e ricavarne riconoscimenti e premi. Così, grazie alla guida di re Ferdinando II, già nel 1843 gli operai e gli artigiani raggiunsero il 5% dell’intera popolazione occupata per poi raggiungere il 7 % alla vigilia dell’unità, con punte dell’ 11% in Campania (che era la regione più industrializzata d’Italia), queste percentuali erano in linea con quelle degli altri stati italiani preunitari. Complessivamente, per quanto riguarda la parte continentale del Regno, nel 1860 vi erano quasi 5000 fabbriche e dal censimento ufficiale del 1861 si deduce che, al momento dell’unità, le Due Sicilie, pur avendo il 36.7% della popolazione totale italiana, davano impiego nell’industria ad una forza-lavoro pari al 51% di quella complessiva degli stati italiani grazie alla cantieristica navale, all’industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria e alimentare. Dalla stessa fonte, inoltre, si ricava che il Sud, che contava 36.7% della popolazione italiana, aveva il 56,3% dei braccianti agricoli e il 55,8% degli operai agricoli specializzati, in tutto circa 2milioni 600mila unità. Nel 1858 il valore delle esportazioni delle Due Sicilie per gli Stati Uniti raggiunse 1.737.328 ducati, quello delle importazioni ducati 566.243 tra il 1839 e il 1855 la flotta mercantile aveva esportato fuori dal Regno merci per circa 89 milioni di ducati. Le Due Sicilie smerciavano i prodotti meridionali (agricoli e manifatturieri) per 85% del totale verso Inghilterra, Francia e Austria, paesi che erano in grado di acquistarli, cosa che non potevano fare gli altri stati italiani a causa della loro scarsa ricchezza. Negli ultimi anni di indipendenza del regno si cominciò a volgere lo sguardo anche verso i paesi del Mediterraneo, di cui le Due Sicilie ambivano essere la nazione guida nello sviluppo economico. Tenendo presenti questi fatti possiamo concludere affermando che “La rappresentazione del Mezzogiorno come un blocco unitario di arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico ma ha genesi e natura ideologiche. I primi a diffondere giudizi falsi sugli inferiori coefficienti di civiltà su quell’area sono gli esuli napoletani che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della Dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud”. Purtroppo, grazie all’opera di denigrazione sistematica del Meridione preunitario, “La memoria dei vinti è stata sottoposta ad un’incredibile umiliazione … più grave è stato il taglio del filo genetico per cui c’è un pezzo d’Italia che ha dovuto vergognarsi del proprio passato, e poi ci si lamenta che manca la dignità, ma la dignità proviene dal riconoscimento della propria ascendenza … bisogna prima di tutto ridare al Mezzogiorno il senso della sua precedente grandiosità, riscattare questa presunta inferiorità etnica del Sud da operazioni di tentata cancellazione della sua memoria. In realtà la “Questione meridionale”, tutt’oggi irrisolta, nacque dopo e non prima dell’unità; persino un ufficiale piemontese, il conte Alessandro Bianco di Saint-Joroz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale, scrisse nel 1864 che “Il 1860 trovò questo popolo del 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto. La pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia. Adesso veruna cattedra scientifica … Nobili e plebei, ricchi e poveri, qui tutti aspirano, meno qualche onorevole eccezione, ad una prossima restaurazione borbonica”.

di Giuseppe Ressa
Fonte: http://www.eleaml.org/sud/borbone/2sprima.html

 

 
 
 

PELAGOSA: L'ARCIPELAGO DIMENTICATO DAI SAVOIA

Post n°110 pubblicato il 01 Luglio 2011 da lecittadelsud
 

L'arcipelago di Pelagosa è situato nel mare Adriatico, a circa metà strada tra il Gargano e la costa dalmata. Esso è costituito da tre isole, Pelagosa Grande, Pelagosa Piccola e Scoglio Caiola (oltre a 13 scogli secondari), in passato covo di pirati e occasionale rifugio di pescatori. Fino al 1861 appartenevano alla Provincia di Capitanata (l'attuale provincia di Foggia), nel Regno delle Due Sicilie, di cui erano l'avamposto più remoto nell'Adriatico. Nel 1860 il Regno di Sardegna, che era lo stato italiano più indebitato della Penisola, senza dichiarazione di guerra e sovvertendo - col tacito consenso di alcune potenze europee - il principio di legittimità dei sovrani italiani, organizzò la conquista del Regno delle Due Sicilie, compiutasi con lo sbarco di Marsala da parte dei Mille, la presa della Sicilia, l'avanzamento di Garibaldi nel sud fino all'ingresso a Napoli (7 settembre 1860), le battaglie sul Volturno e sul Garigliano e l'eroica resistenza delle fortezze di Messina, Gaeta e Civitella del Tronto, capitolata quest'ultima il 20 marzo 1861, tre giorni dopo la proclamazione di Vittori Emanuele II a Re d'Italia. Con regio decreto il Regno di Sardegna, divenuto Regno d'Italia nonostante la decennale resistenza delle popolazioni del sud, che furono depredate delle ricchezze e delle risorse di uno stato divenuto tra i più ricchi della Penisola, si annettè tutti i territori duosiciliani, ma si dimenticò letteralmente dell'arcipelago di Pelagosa.
Nel 1891 il deputato Imbriani porse l'attenzione di Pelagosa al presidente del Consiglio Di Rudinì, ma la questione non fu portata avanti. Gli Asburgo, col beneplacito di casa Savoia, se ne impossessarono nel 1873. I nostri marinai la riconquistarono l'11 luglio 1915 e il tricolore sventolò per 32 anni consecutivi. "Sono molti, e fra questi anche uomini di governo, che non hanno mai saputo che cosa siano le Pelagose, dimenticate dagli italiani, come il mare nel quale esse sorgono", scriveva nel 1911 il professor Antonio Baldacci.
L'arcipelago di Pelagosa, fu italiano (comune di Lagosta, provincia di Zara) dal 1920 al 1947, poi passò alla Jugoslavia e, più recentemente, alla Croazia. Le isole, incontaminato giardino botanico (spiccano 16 varietà di piccole orchidee e 160 specie di fanerogame) e, al contempo, scrigno archeologico, risultano inaccessibili a viaggiatori, turisti, curiosi, studiosi e giornalisti. I fondali attorno ad esse sono un vero paradiso subacqueo. L'isola maggiore è Pelagosa Grande, con i 116 metri d'altitudine di monte Castello. Sulla vetta domina un imponente faro, inaugurato dagli austriaci il 20 settembre 1875, costituito da una torre ottagonale. Si presenta come un vasto edificio a cui sono annessi un osservatorio meteorologico, una chiesa, una casa e una stalla. Da quassù s'abbraccia un larghissimo orizzonte, uno spettacolo mozzafiato: la vista spazia dal Gargano fino alla Dalmazia e al Conero, mentre a sud s'intravedono le coste albanesi.
A Pelagosa si parlava il napoletano (dialetto ischitano): questo è spiegabile in quanto l’isola fu ripopolata (assieme alle vicine isole Tremiti) da Ferdinando II del Regno delle Due Sicilie nel 1843 con pescatori provenienti da Ischia, che vi continuarono a parlare il dialetto d’origine. Con l’avvento del Regno d’Italia l’incuria e l’inefficienza delle nuove istituzioni nazionali fecero si che i pescatori emigrassero tutti entro la fine dell’Ottocento. L’annessione del Regno delle Due Sicilie alla nascente Italia non portò bene alle Pelagose: i Savoia dimenticarono infatti di annetterselo, e abbandonarono le isole al loro destino.
Pochi territori in Europa hanno impressi con tanta evidenza i segni del succedersi delle ere geologiche. L'arcipelago è disabitato, fatta eccezione per i militari, eppure soltanto mezzo secolo fa richiamava le paranze dei pescatori garganici, dalmati e veneti. Contrariamente alle opinioni di alcuni geografi che vedono nel nome Pelagosa un ricordo degli antichi Pelasgi, è certa la sua derivazione da "pelagosus", come suggerisce anche la posizione che queste isole occupano in mezzo all'Adriatico (in greco "pelagos" = mare). Esse erano note fin dall'età della pietra: lo testimoniano i curiosi ritrovamenti di tumuli e tombe di cui diedero dettagliate notizie gli archeologi Marchesetti e il Burton che le esplorarono a fine Ottocento.
Nell’antichità queste isole appartennero a Roma (nome latino: Pelagusa). Nel medioevo furono conquistate dalla Repubblica di Venezia; durante la supremazia della Serenissima, nel XIII secolo, un nobile Lusignan, esiliato, cercò scampo nella Pelagosa Grande e vi costruì un fortilizio. Lui e i suoi compagni esercitarono ogni specie di oppressioni sugli indifesi pescatori, finchè il loro rifugio venne spazzato via. In seguito appartennero al Regno delle Due Sicilie fino al 1860 quando furono "dimenticate" tra i territori del Regno d’Italia. A torto vengono considerate isole dalmatiche, in quanto le loro caratteristiche geologiche richiamano molto più quelle dell'arcipelago delle Tremiti e dell’isolotto di Pianosa, di cui sono la naturale continuazione.

Fonte: http://www.irredentismo.it/Pagine%20web
/pelagosa.htm#pelagosa

 
 
 
 

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Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.
Italo Calvino, da “Le città invisibili”

 


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Paccheri Al Regno delle Due Sicilie
Paccheri di Gragnano ripieni di ricotta di pecora e Gamberetti di Mazzara su ragout di pomodorini del Vesuvio e salsa di Gamberi
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"E ' a Riggina! Signò! … Quant'era bella! E che core teneva! E che maniere! Mo na bona parola 'a sentinella, mo na strignuta 'e mana a l'artigliere… Steva sempre cu nui! … Muntava nsella Currenno e ncuraggianno, juorne e sere, mo ccà, mo llà … V''o ggiuro nnanz' 'e sante! Nn'èramo nnammurate tuttequante! Cu chillo cappellino 'a cacciatora, vui qua' Riggina! Chella era na Fata! E t'era buonaùrio e t'era sora, quanno cchiù scassiava 'a cannunata!… Era capace 'e se fermà pe n'ora, e dispenzava buglie 'e ciucculata… Ire ferito? E t'asciuttava 'a faccia… Cadiva muorto? Te teneva 'mbraccia…".
(tratto da O' surdato 'e Gaeta di Ferdinando Russo)


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Tutto quello che è stato fatto
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Pino Aprile
Piemme, 2010



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Edizioni Palomar, 2005


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Il governo piemontese si vendica mettendo tutto a ferro e fuoco. Raccolti incendiati, provvigioni annientate, case demolite, mandrie sgozzate in massa. I piemontesi adoperano tutti i mezzi più orribili per togliere ogni risorsa al nemico, e finalmente arrivarono le fucilazioni! Si fucilarono senza distinzione i pacifici abitatori delle campagne, le donne e fino i fanciulli
L’ Osservatore Romano (1863)

Il Piemonte si è avventato sul regno di Napoli, che non voleva essere assorbito da quell'unità che avrebbe fatto scomparire la sua differenza etnica, le tradizioni e il carattere. Napoli è da sette interi anni un paese invaso, i cui abitanti sono alla mercè dei loro padroni. L’immoralità dell’amministrazione ha distrutto tutto, la prosperità del passato, la ricchezza del presente e le risorse del futuro. Si è pagato la camorra come i plebisciti, le elezioni come i comitati e gli agenti rivoluzionari
Pietro Calà Ulloa (1868)

Sorsero bande armate, che fan la guerra per la causa della legittimità; guerra di buon diritto perché si fa contro un oppressore che viene gratuitamente a metterci una catena di servaggio. I piemontesi incendiarono non una, non cento case, ma interi paesi, lasciando migliaia di famiglie nell’orrore e nella desolazione; fucilarono impunemente chiunque venne nelle loro mani, non risparmiando vecchi e fanciulli
Giacinto De Sivo (1868)

L’unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’ unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse lo stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che in quelle meridionali
Giustino Fortunato (1899)

Sull’unità d´Italia il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata, è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone
Gaetano Salvemini (1900)

Le monete degli stati pre-unitari al momento dell’annessione ammontavano a 668,4 milioni così ripartiti:
Regno delle DueSicilie 443,2, Lombardia 8,1, Ducato di Modena 0,4, Parma e Piacenza 1,2, Roma 35,3, Romagna,Marche e Umbria 55,3, Sardegna 27,0, Toscana 85,2, Venezia 12,7
FrancescoSaverio Nitti (1903)

Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l´Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti
Antonio Gramsci (1920)

Prima di occuparci della mafia  dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia
Rocco Chinnici (1983)

L’ufficio dello stato maggiore dell’esercito italiano è l’armadio nel quale l’unificazione tiene sotto chiave il proprio fetore storico: quello dei massacri, delle profanazioni e dei furti sacrileghi, degli incendi, delle torture, delle confische abusive, delle collusioni con la sua camorra, degli stupri, delle giustizie sommarie,
delle prebende e dei privilegi dispensati a traditori, assassini e prostitute
Angelo Manna (1991)

 
 

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