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ESECRANDO BERLINGUER

Post n°730 pubblicato il 16 Aprile 2012 da kiwai
 

 

Accusato insistentemente di sterile polemismo anticomunista e di appiattimento culturale, tipicamente berlusconiano, oggi voglio anch’io annoiare gli amici con una lectio magistralis .. ma tranquilli non ne rivendico la paternità, solo la condivisione …

 

Riemerge periodicamente nella “blogghistica” sinistra il culto di Berlinguer, padre della questione morale e vate della “terza via”, rimpianta icona del comunismo nostrano.

Nell’italica sinistra, più o meno estrema, è tuttora sacrilego metterne in discussione l’eredità politica e morale.

Ovviamente non concordo ed anzi oserei addirittura, (udite, udite) sostenerne la “pochezza di respiro politico” in contrapposizione al demone dei demoni: Bettino Craxi.


Già sento le indignate urla dei “moralmente superiori”, mentre si affannano ad affastellare le fascine per il mio rogo .. e risuonano tonanti gli anatemi degli intellettuali sinistri:

“Blasfemia !!! blasfemia !!! .. contrapporre all’incommensurabile cugino di Cossiga, quel maledetto ladro che ha spogliato l’Italia e ci ha lasciato Berlusconi … “

 

Ebbene si, perché una volta tanto, voglio parlare di Politica, con la P maiuscola, e provare a leggere la Storia, (quella con la S maiuscola) senza i paraocchi della polemica quotidiana.

In questo senso ho trovato interessante questo libro a cura di Gennaro Acquaviva e Marco Gervasoni: Socialisti e comunisti negli anni di Craxi.

 

Una vera a propria “malattia del sangue” affligge da sempre la sinistra italiana: il massimalismo, che porta a rifiutare con sdegno ogni ipotesi politica che non sia la fuoriuscita dal sistema capitalistico-liberale.

 

A partire dal 1968, grazie alla Contestazione Studentesca, il marxismo, nella versione leninista, aveva preso a dilagare e a investire sfere della vita e della condotta un tempo regolate dalla tradizione e dai costumi e lo spirito rivoluzionario sembrò che stesse riportando una vittoria definitiva sul suo nemico di sempre.

In quegli anni, tutto veniva letto, interpretato, valutato, vissuto in nome dell’ideologia della contestazione globale della civiltà occidentale, di cui nulla si sottrasse a una condanna senza appello: né la scienza, né la tecnologia, né lo Stato di diritto, né la socialdemocrazia, né, tanto meno, l’economia di mercato. Ne era risultato un clima ideologico nel quale non c’era spazio alcuno per il riformismo e per il revisionismo.

 

Lucio Lombardo Radice , giunse ad affermare che ormai il marxismo era divenuto il linguaggio comune della gente pensante e l’orizzonte teorico entro il quale tutti coloro che si volevano progressisti e democratici erano obbligati a muoversi.

In effetti, la strategia gramsciana della occupazione delle agenzie di socializzazione – scuola, università, stampa, ecc. -- , sapientemente calata nella realtà italiana da Palmiro Togliatti, aveva conseguito il suo obbiettivo: l’ideologia comunista era diventata il “nuovo senso comune”, che nessuno, a sinistra, osava contrastare apertamente.

Umberto Eco così si esprimeva: “Mai come oggi quell’insieme di principi filosofici e di strategie politiche che vanno sotto il nome di marxismo è stato accettato come valore diffuso e indiscutibile”.

 

Ebbene: Craxi osò discutere l’”indiscutibile”.

Contestò frontalmente quello che era diventato il “senso comune” della Sinistra italiana.

Un “senso comune” che regnava con l’arma tipica della tradizione bolscevica : il terrorismo ideologico.

Su chiunque osava criticare il marxleninismo, si abbatteva, puntuale e impalcabile, l’arma della scomunica: diventava un traditore dell’idea socialista e, come tale, veniva bollato.

Craxi non solo si dichiarò apertamente riformista, ma ebbe l’ardire di fare quello che nessun leader della Sinistra italiana aveva osato fare : si richiamò esplicitamente alla eredità del revisionista Bernstein !

(e qui ho scoperto di essere stato un inconsapevole craxiano ante-litteram : ricordo che all’ultimo anno di liceo, proprio nel 1968, scrissi sul mio banco “W Berstein” suscitando le invettive della maggioranza dei miei compagni di classe, che da allora mi omologarono tra i fascisti).

 

“Non vogliamo battere le strade né del socialismo della miseria, né del socialismo della burocrazia e del neofeudalesimo burocratico ... La nostra strada vuol essere quella di un socialismo moderno, che non volti le spalle al problema fondamentale della nostra civiltà, che è quello di fare avanzare, a un tempo, la giustizia sociale, la libertà politica e l’efficienza produttiva ..”

 Camera dei deputati, seduta del 10 ago-sto 1976.

 

Di qui la sua contrapposizione al compromesso storico, la strategia con la quale Enrico Berlinguer intendeva realizzare un inedito esperimento : innestare il pluralismo politico sul tronco della tradizione terzointernazionalista .

Una accecante illusione se è vero, come è vero, che anche Walter Veltroni ha finalmente riconosciuto che comunismo e libertà sono cose incompatibili.

Ma Berlinguer, chiuso nelle sue certezze ideologiche, questo non poteva neanche sospettarlo.

Accadde così che egli progettò di estrarre dal marxleninismo una nuova versione del comunismo : la così detta “terza via”  – precisando –  che doveva essere rigorosamente distinta dalla via socialdemocratica, ché la sua meta non poteva non essere la fuoriuscita “dalla logica del capitalismo, per muoversi nella direzione di uno sviluppo economico, sociale e politico di tipo nuovo, orientato verso il socialismo, ma tenendo costantemente presente i Paesi del blocco sovietico, doveaffermava con la massima serenità  – era “universalmente riconosciuto che esisteva un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche erano sempre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione”.

Aggiungeva Berlinguer che era un fatto di evidenza solare che “nel mondo capitalistico c’era crisi, nel mondo socialista no”.

 

Insomma come disse Craxi : “ Berlinguer è fermo alla televisione in bianco e nero”.

E tali sono ancora gli attuali sacerdoti del suo “santino”.

 

“Leninismo e pluralismo sono termini antitetici : se prevale il primo muore il secondo.

E ciò perché l’essenza specifica del progetto leninista consiste nell’istituzione del comando unico e della centralizzazione assoluta:  la statizzazione integrale della vita umana individuale e collettiva.

La democrazia ( liberale o socialista) presuppone l’esistenza di una pluralità di centri si potere ( economici, politici , religiosi, ecc. ) in concorrenza fra di loro la cui dialettica impedisce il formarsi di un potere assorbente e totalitario.

Di qui la possibilità che la società civile abbia una certa autonomia rispetto allo Stato e che gli individui e i gruppi possano fruire di zone protette dall’ingerenza della burocrazia.

La società pluralista è una società laica nel senso che non c’è alcuna filosofia ufficiale di Stato, alcuna verità obbligatoria, la legge della concorrenza non opera solo nella sfera economica, ma anche in quella politica e in quella delle idee .

 Il che presuppone che lo stato è laico nella misura in cui non pretende di esercitare , oltre al monopolio della violenza, il monopolio delle gestione dell’economia e della produzione scientifica.

 

Secondo me, sono principi e valori che sarebbe ora di ricominciare a promuovere.

 

 
 
 
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CUBA LIBRE

QUANTO COSTA
LA LIBERTA'???




La morte di un prigioniero di
coscienza, una persona in
carcere per le sue idee, senza
aver commesso alcun reato.
Orlando Zapata Tamayo,
42 anni, fù arrestato durante
la primavera del 2003 e condannato
a tre anni di carcere.
Durante la prigionia a causa della
sua attività di dissidenza nel
carcere, gli furono aggiunti altri
anni di detenzione fino a un totale
di 30 anni di reclusione.
BASTA YA!

 


 

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