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LA QUATTRO LAGHI

Post n°99 pubblicato il 24 Maggio 2006 da kayfakayfa
 
Tag: RUNNER
Foto di kayfakayfa

Per tutto l’anno, Gennaro ed io, tre giorni la settimana, c’incontrammo all’alba, incuranti del freddo e della pioggia, per preparare la Quattro Laghi, la mezza maratona che si disputava a Maggio, il cui percorso, particolarmente duro, si snodava tra Bacoli e Baia, toccando i quattro laghi flegrei: Bacoli; Fusaro; Averno; Lucrino.
Gennaro, da esperto di mezze maratone, è stato uno degli organizzatori delle prime edizioni della Quattro Laghi. Abita di fronte casa mia e in passato, quando c’incrociavamo mentre correvamo sul lungo mare di Pozzuoli, ci salutavamo amichevolmente, incoraggiandoci a vicenda. Allorché decidemmo di correre insieme, non immaginavo di tornare ad allenarmi ai ritmi di quand’ero ragazzo.
Non appena trascorsero i primi due mesi di tormenti fisici e mentali, le gambe e il fiato iniziarono a girare al meglio. Che stavo ritornando in forma, lo capii la mattina che decidemmo di fare venti ripetute da duecento metri. Quando a suo tempo per la prima volta facemmo questo tipo di lavoro, mi fermai alla dodicesima serie. Oltre a mancarmi il fiato, vedevo tutto ombrato. Quella volta, invece, superato il momento di confusione che sopravvenne alla decima, completai le ripetute, correndo l’ultima in maniera massimale. La mattina che Gennaro apparve sul portone con il cronometro nella mano, intuii che iniziavano i guai!
“Che intenzioni hai?” domandai mentre, corricchiando, imboccavamo il viale che conduceva giù al litorale.
“Conosci la Quattro Laghi?” mi domandò.
“No!” ammisi scettico. In breve mi spiegò di cosa si trattava, dichiarando che se ci fossimo allenati seriamente vi avremmo potuto partecipare, certo non per vincerla visto che vi gareggiavano atleti professionisti, ma per chiuderla in un tempo decoroso.

“Cosa vuol dire allenarci seriamente?” mi preoccupai.
“Fino e ora abbiamo badato alla condizione fisica. E’ giunto il momento di guardare al tempo. Se davvero vogliamo parteciparvi, dobbiamo correre ad una media di quattro e venti a chilometro per ventuno chilometri!”.
Solo chi corre può capire cosa significa viaggiare ad un tempo simile. Oddio non è niente considerato che c’è gente tra gli amatori che corre sotto i quattro minuti al chilometro. Eppure, raggiungere quei ritmi richiedeva notevoli sacrifici. Il lunedì curavamo il fondo. Partivamo da Pozzuoli alle cinque del mattino. Arrivavamo a Baia e tornavamo in meno di un’ora e mezza.

La fatica vera cominciava il mercoledì. Di corsa, raggiungevamo Coroglio per riscaldarci. Quindi, tornando, alternavamo tre minuti di corsa veloce a due di recupero a passo cadenzato. Per le prime due serie riuscivo a tenere il passo di Gennaro. Le restanti fissavo la sua figura, metro dopo metro, allontanarsi sempre più da me. “Maledetto, che hai in quelle gambe?” imprecavo mentalmente, arrancando sulla strada. Alla fine d’ogni serie, Gennaro mi mostrava il cronometro preoccupato.
“Non ci siamo. Le prime due le hai fatte in 4 e 30. Adesso invece ti stai avvicinando ai 5. Parti troppo sparato e poi ti perdi per la via. Devi imparare a gestire le energie. Solo così puoi dominare il tempo!”

 

L’aria fresca del primo mattino, satura di mare e sogni, scioglieva nel sangue la fatica e il dolore. Gennaro e io correvamo spalla a spalla lungo la strada raccontandoci barzellette e storie di donne, ricacciando in quel modo il pensiero per il lavoro che ci attendeva. In prossimità di un semaforo tranviario, ci fermammo a fare stracking. Con le mani strette all’umida ringhiera affacciata sul mare, stirammo i muscoli delle gambe, osservando la mano di schiuma delle onde sbiancare le tenebre.
“Adesso faremo otto ripetute da 400 metri, ognuna massimo in un minuto e mezzo. Alternandone tre di recupero. Se verso la fine senti le forze venire meno, concentrati e tira fuori tutte le energie che ti restano”.
Dopo la quarta serie, le gambe cominciavano a dolermi.
“Perfetto”, fece Gennaro, venendomi incontro corricchiando. Soddisfatto fissava il cronometro. “Stai tenendo la media. Non lasciarti sopraffare dal dolore e dalla stanchezza proprio ora. Cerca di farne almeno altre due allo stesso ritmo” Riuscii a completarne altre tre. All’ultima mollai. Ciononostante ricevetti i suoi complimenti.

Il dominio del tempo legato alla gestione delle energie fisiche influì sensibilmente sulla mia vita. Senza accorgermene iniziai ad applicare quel principio anche nella vita quotidiana, ottenendo benefici insperati. In passato lo scorrere della giornata era scandito dal monotono roteare delle lancette dell’orologio alla parete dell’ufficio. Nell’attimo in cui il suono della sirena annunciava la fine della giornata lavorativa, era come se sancisse anche la fine della vita in sé. Come tanti, rientravo a casa, cenavo, e accendevo il televisore alla ricerca di un bel programma, affidando il resto della mia vita alle parole e alle immagini di chi gestiva i fili del sottile plagio mentale al quale inconsciamente mi sottoponevo, convinto che quello fosse il modo giusto di vivere.
Imparare a gestire il tempo significava imparare a gestire la mia vita! Lentamente il lavoro smise d’essere l’unica ragione dei miei pensieri. Scoprii che nelle restanti ore potevo fare tante altre cose. Prima di tutto l’intervallo per il pranzo si trasformò in un piacevole momento di lettura e studio. Unitamente, l’intensità degli allenamenti si riflesse sull’aspetto fisico rendendolo gradevole allo sguardo. Amici e colleghi iniziarono a guardarmi con invidia. Nessuno riusciva a capacitarsi dove trovavo il tempo per fare tante cose insieme.

I mesi scorrevano e il cronometro di Gennaro indicava che tutto procedeva in maniera perfetta. Arrivai a coprire un chilometro in quattro minuti e dieci. Un tempo notevole per me. Gennaro era molto soddisfatto. Correndo m’incitava a gran voce.
“Spalla a spalla. Dobbiamo correre spalla a spalla!” urlava sbirciando l’orologio nella mano. Digrignando i denti, mi attaccavo a lui e insieme allungavamo il passo come gemelli siamesi. I nostri respiri si fondevano in un ruggito di rabbia ogniqualvolta tagliavamo l’invisibile traguardo mentale che ci eravamo posti di raggiungere.
Due settimane prima della gara facemmo una prova generale. Il sabato ci recammo in auto sul luogo da dove sarebbe partita la gara. Parcheggiammo l’auto e ci spogliammo. In pantaloncini e canottiera ci avviammo alla partenza. Gennaro non perse occasione di rammentarmi che in salita dovevo ridurre la falcata, aumentando la frequenza dei passi onde evitare di spomparmi. Erano da poco passate le otto quando partimmo. Attenendomi ai suoi suggerimenti, i primi 500 metri viaggiai ad andatura sostenuta onde evitare in gara di restare imbottigliato nel gruppo. Gennaro di tanto in tanto controllava il cronometro.
“Rallenta, stai andando troppo veloce. Porti una media di quattro e dieci al chilometro. Così rischi di scoppiare! Per i primi dieci tieniti sui quattro e trenta.”
La prima salita non mi creò grosse difficoltà. Sentivo che le gambe c’erano e anche il fiato. Nell’affrontare la seconda le cose assunsero una piega imprevista. Ebbi la sensazione di avere al posto delle cosce un paio di tronchi. Arrancavo, metro dopo metro.
“Ma che ti succede? Dai, muoviti!” m’incitava Gennaro. Malgrado mi sforzassi, era come se fossi incollato all’asfalto. Quando giunsi all’arrivo, Gennaro era lì ad attendermi da oltre dieci minuti.
“Quanto?” domandai piegandomi sull’addome con le mani strette ai fianchi.
“Un’ora e 45!” Digrignai i denti per una lancinante fitta alla milza.

Guidavo, lo sguardo fisso sulla strada.
“Ascolta, è inutile che ti amareggi” fece Gennaro per consolarmi. “Uno e 45 è un buon tempo”.
“Non dire stronzate” dissi sorpassando un T.I.R. “E’ inutile che tenti di consolarmi. Lo so che è un tempo di merda. Con tutto l’allenamento fatto avrei dovuto chiudere almeno in 1 e 35. Uno e 45 significa una media di cinque a chilometro. Tanto valeva non mi allenavo affatto!”
"Questa settimana riposi. La prossima facciamo un allenamento leggero. Per la gara starai bene, vedrai!”

Una settimana prima della gara ripresi gli allenamenti. Dal primo istante sentivo che le gambe c’erano. Per tre giorni consecutivi corremmo in surplasse per consentire ai muscoli di scaricare l’eventuale fatica che vi era rimasta accumulata. Il giovedì riposammo. Ci rivedemmo il venerdì mattina.
Stamane si arriva a Baia e si ritorna" fece Gennaro, sorridendo. "Voglio coprire il percorso in uno e dieci!”. Quelle parole mi misero in apprensione. Solitamente completavamo quel tratto in uno e venti. Scendere dieci minuti di botto significava compiere uno sforzo notevole.
Partimmo decisi. I primi tre chilometri le gambe erano di granito. I polpacci pesavano maledettamente; i tendini bruciavano peggio delle fiamme dell’inferno. Correvamo ad una media di 4 e 50. Man mano che avanzavamo sentivo i muscoli sciogliersi. All’improvviso il dolore e la fatica lasciarono il posto ad un’irresistibile smania di volare.
“Che succede?” domandò Gennaro al quale non era sfuggito la mia improvvisa irrequietezza.
“La gambe vanno!” risposi, accennando ad aumentare l’andatura.
“Trattienile. Hai presente i giocattoli a corda? Più giri la chiave più andranno veloci quando la lascerai. Carica le gambe fino all’estremo. Quando sarà il momento andranno da sole!”
Correvo, reprimendo la smania di accelerare. Ogni qualvolta accennavo allo scatto, la voce di Gennaro m’imponeva di frenare. Giungemmo al porto di Baia in poco più di mezz’ora. Gennaro fissò il cronometro e mi sorrise.
“35 minuti. Ottimo tempo!”
Il sipario dell’alba rischiarava i nostri volti madidi di sudore.
“Al termine della discesa aumentiamo” fece il mio amico, sfiorandomi con la spalla mentre risalivamo Punta Epitaffio nel senso inverso a quello dell’andata.
“Ora!” gridò Gennaro non appena fummo sul rettilineo che conduceva ad Arco Felice. Tolsi il freno e le gambe iniziarono a macinare strada. Gennaro mi redarguì perché stavo andando troppo veloce.
“Conservati le energie per la salita dell’Olivetti. Quando l’avrai completata allora dai tutta la birra che ti resta!”
L’affanno dei nostri respiri ci accompagnava verso casa. “4 e quindici. Perfetto!” sentii Gennaro ansimare dietro di me. Affrontando la salita ebbi come la sensazione di accarezzare appena l’asfalto con i piedi. Chiudemmo in uno e dodici.
Gli ultimi due giorni che restavano alla gara svolgemmo un lavoro di defaticamento. La notte prima della partenza dormii pochissimo. All’alba già ero alzato e vestito!
Raggiungemmo Bacoli con la macchina di Gennaro.

Per tutto il tragitto il mio amico non smise di darmi suggerimenti. Aveva con sé una cartina del percorso su cui aveva tratteggiato in vari punti l’andatura da tenere per terminare al di sotto di 1 ora e 35 minuti.
“Se impieghi un solo minuto in più puoi dire di esserti ammazzato per niente!”.

Arrivati alla partenza scesi dalla macchina e mi sfilai la tuta.
“Che aspetti a svestirti?” mormorai, fissando Gennaro guardarsi in torno.
“Io non corro!” rispose osservando gli altri concorrenti.
“Tu cosa?…” feci. Le parole mi morirono in gola.
“Non corro!” fece categorico.
“Perché?”
“Io non so essere sportivo. Se corro devo vincere!”
“Ma che vai raccontando” dissi incredulo.
“Quando partecipai per la prima volta alla Quattro Laghi, arrivai quarto assoluto. Uscii pure sul giornale”. Si guardò intorno, poi riprese.  “A molti che sono qui, in passato, ho fatto mangiare polvere. Se ora gareggiassi dovrei mangiare io la loro. E’ più forte di me. Non mi va giù l’idea di non essere più il numero uno!”
“Non capisco” sussurrai scuotendo il capo.
“E’ difficile da comprendere, me ne rendo conto” fece sospirando. ”Eppure è così! Tutto ciò che ho fatto in questi mesi è stato per te. Non deludermi! Adesso riscaldati, tra venti minuti si parte” concluse dandomi una pacca sulla spalla, passandomi il cronometro.

Al via eravamo più di trecento concorrenti, un oceano di colori e allegria. Nell’istante in cui lo starter annunciò la partenza cercai con lo sguardo il mio amico. Era scomparso! Nella mano stringevo il suo cronometro. I primi cinque chilometri portai una media di 4 e 40.

Sapevo che le salite erano dure e non volevo correre il rischio di restare senza benzina precocemente. Indifferente fissavo i concorrenti che mi superavano. Mentre correvo ripensavo a Gennaro e alle ragioni per le quali aveva deciso di non gareggiare. Probabilmente al suo posto anch’io avrei fatto lo stesso, chissà... Al decimo chilometro iniziai a sentire che le gambe volevano andare. A stento riuscii a trattenerle. Correvo ad un’andatura di quattro e venticinque. Almeno per i prossimi cinque chilometri non dovevo scendere sotto quel passo. A cinque chilometri dall’arrivo mollai la “corda” e partii. Metro dopo metro recuperai posizioni. Percossi gli ultimi tre chilometri ad un’andatura di quattro e dodici.
In prossimità del traguardo distinsi sulla linea d’arrivo Gennaro sbracciarsi come un indiavolato. Più mi avvicinavo, più mi sembrava di udirlo gridare “Vai…, vai…” Agli ultimi trecento metri scattai.
Tagliai il traguardo e mi accasciai al suolo sfinito. Le dita della mano erano serrate al cronometro. Lentamente le aprii per leggere la sentenza del tempo. Un’ora, ventisei minuti e quindici secondi.
“Bravo!” esultò sopra di me la voce di Gennaro. Con una smorfia di dolore levai lo sguardo sul mio amico che mi fissava felice.

Quando giungemmo a casa Rosa e Maria, le nostre compagne, erano affacciate al balcone di casa mia.
“Com’è andata?” domandarono in coro sarcastico.
“Abbiamo vinto!” rispose Gennaro strizzandomi l’occhio.
 

                             FINE

 

 
 
 
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