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LA MORTE INTRAUTERINA

Post n°12 pubblicato il 19 Giugno 2007 da genitoridiunastella
 
Foto di genitoridiunastella

Dr. Herbert Heidegger

Nel presente testo si evitano intenzionalmente dettagli di carattere medico

INTRODUZIONE
La nascita che coincide con la morte rappresenta sempre un evento molto triste. E’ difficile accettare il fatto che il bambino, fino a quel momento cresciuto nel grembo della madre, possa cessare di vivere improvvisamente e senza una ragione evidente. Negli ultimi anni gli elevati standard della medicina hanno consentito di ridurre drasticamente il numero dei nati morti. La diagnostica prenatale e i progressi fino ad oggi raggiunti danno sicurezza ai genitori fino al momento in cui si trovano di fronte a questa triste situazione. Nessuno è mai preparato ad una morte del genere.
L’aborto spontaneo e il bambino nato morto sono temi tabù. Non se parla, si tende ad evitare l’argomento e a scansare il confronto. Una spiegazione a questo atteggiamento di rifiuto risiede nel fatto che socialmente si tende a dimenticare rapidamente gli insuccessi. Ogni desiderio deve diventare realtà, anche quello di un figlio. Un bambino cercato a fatica non può morire. Pur verificandosi con relativa frequenza, l’aborto spontaneo o il bambino nato morto non trovano spazio nell’ideale di maternità. L’immaginario collettivo non lascia spazio nemmeno al lutto, sebbene anche il dolore provocato dalla perdita di un figlio durante la gravidanza vada vissuto come quello dato dalla perdita di una persona che ha vissuto. Il bambino che muore ancor prima di nascere è una cosa inimmaginabile e soprattutto incompatibile con l’idea che abbiamo della vita e della morte

DEFINIZIONE
Si definisce morte intrauterina la morte di un feto nella seconda metà di gestazione, dopo il 180° giorno, ma comunque prima del termine di nascita. Potenzialmente i piccoli morti in questa fase sarebbero sarebbero stati vitali. Spesso la morte del feto tra il 140° e il 180° giorno di gestazione viene definita morte intrauterina per la difficoltà di definire il momento esatto del decesso.
La morte intrauterina è spesso conseguenza di distress fetale cronico quasi sempre conseguente a patologie della madre, patologie placentari o complicazioni del cordone ombelicale. Il decesso perinatale è quasi sempre provocato da distress fetale acuto.
La moderna nomenclatura definisce “morte fetale tardiva” la morte di un feto di almeno 1.000 g di peso prima del termine di nascita. Si parla di “morte fetale prematura” nel caso del feto con peso oscillante tra i 400 e i 999 g deceduto prima del termine di gravidanza. Il feto di peso inferiore ai 350 g si definisce aborto.
L’OMS definiscedecesso fetale la morte del feto di peso superiore ai 500 g corrispondente alla 22° settimana di gravidanza o ad una lunghezza totale di 25 cm.

INCIDENZA
La bibliografia indica un’incidenza dell’1%.

CAUSE
Le cause della morte intrauterina sono molteplici. Tutti gli eventi descritti in patologia ostetrica possono causare il decesso fetale.
Con un’incidenza percentuale dell’80%, l’ipossia fetale a seguito di una insufficienza placentare (acuta o cronica), rappresenta la prima causa di morte intrauerina. Spesso tuttavia si verifica una concomitanza di cause come diabete mellito o malformazioni.
Nei casi in cui il decesso avviene senza motivo evidente e senza la possibilità di definire con chiarezza la causa si parla di decesso idiopatico (10% - 40% secondo l’autore). 

LA NASCITA
Il 90% dei bambini morti nel grembo materno verrebbero espulsi spontaneamente entro le due settimane successive al decesso. Oggi tuttavia è prassi affermata indurre il parto subito dopo la diagnosi. Spesso è la donna a chiedere di partorire il prima possibile.
Attendere qualche giorno prima di avviare il parto consente ai genitori di “rendersi conto” della morte del bambino.
In seguito allo shock iniziale, molte donne hanno la sensazione di volersi “liberare” del bambino prima possibile. Anche a loro va comunque dato il tempo di riflettere, di abituarsi all’idea. Questo sarà fondamentale per l’elaborazione della perdita. L’ideale sarebbe un parto per vie naturali, ma per molte donne è insopportabile l’idea di mettere al mondo il loro bambino già morto. In questa fase è fondamentale la massima cautela, dimostrare sensibilità e offrire assistenza.
”Bisogna aiutare a nascere chi ha già lasciato questa vita” (Mehl, G.: Zeite Nr. 3/1986, Pag. 42).

ANALGESIA DURANTE IL PARTO
E’ opinione comune voler risparmiare il dolore del parto alla donna costretta a mettere al mondo un bambino morto. La preferita fra le tecniche di analgesia è l’anestesia epidurale. Spesso tuttavia si somministrano anche oppiacei o una narcosi durante la fase di espulsione nella convinzione di far risparmiare energia alla partoriente. In realtà più che giovare alla donna, ciò risparmia all’equipe terapeutica la sua prima reazione.
Le donne che ritengono di dover vivere il parto consapevolmente rinunciano alla somministrazione di antidolorifici.
“ Il dolore fisico diventa una modalità per elaborare il dolore spirituale, le urla un sistema  per rompere il silenzio causato dallo shock subito”.
Analgesici e sedativi vanno somministrati su richiesta della partoriente. Lacrime e sfoghi emotivi non vanno soppressi per nessun motivo.

IL RUOLO DEL MEDICO E DELL’OSTETRICA ALLA NASCITA DEL NEONATO MORTO
Compito del medico e dell’ostetrica durante il parto di un neonato morto è affrontare la situazione con lealtà e sincerità. In questa difficile fase la donna o la coppia vanno accompagnati e non devono avere la sensazione di essere abbandonati a se stessi.
L’idea di diventare mamma e papà, di vivere il parto senza poi avere il bambino rappresenta uno shock. Alcuni reagiscono chiudendosi in se stessi, altri con sfoghi emotivi. I genitori non sono in grado di pensare con lucidità, appaiono come pietrificati. Chi è colpito da un lutto come questo sente morire una parte di sé ed è costantemente tormentato da un dilemma: “Perché proprio a me?”.
In questi casi la cosa importante è offrire “presenza”, dare tempo, invitare a vivere e comunicare ogni sensazione.
Una volta fatta la comunicazione non sussiste più alcuna ragione di fretta. L’ostetrica o il medico dovrebbero segnalare la loro vicinanza e disponibilità invitando, anzi esortando la donna ad informare un’altra persona. Non bisogna dimenticare che anche il personale sanitario subisce uno shock e vive i primi momenti con un senso di impotenza. Non sussiste ragione di non far percepire ai genitori che anche noi (ostetriche, medici e infermieri) siamo scioccati e toccati da questa dura prova.
Il nostro compito è sostenere i genitori nel trovare una risposta da soli e accettare le loro lacrime.
Alle domande della coppia vanno date risposte sincere per liberarla da fantasmi e ossessioni. Vanno inoltre fornite informazioni sull’iter terapeutico, il parto, la degenza, l’iter giuridico, l’autopsia, il funerale, le possibili reazioni psichiche e il lutto, rispettando ogni loro richiesta.
Vanno poi rispettate alcune regole importanti:
i genitori devono poter mantenere il controllo su procedure e decisioni. Il personale deve lasciare libertà di decidere, essere flessibile, dare informazioni, possibilità di informazione e di scelta, fare proposte. La decisione definitiva spetterà probabilmente ai genitori; alla donna va lasciato il controllo sul proprio corpo.
E’ importante sostenere i genitori nelle loro richieste, stare al loro fianco offrendo consulenza senza imposizioni o decisioni prese al loro posto. I genitori hanno bisogno di tempo per se stessi e i loro familiari, per riflettere, decidere, vivere il loro dolore, parlare, riorientarsi.
I genitori vanno trattati con rispetto e dignità. La perdita non va minimizzata con inopportune frasi fatte come “…siete ancora giovani, ne arriveranno degli altri” o “…in fondo avete già dei figli”.
Il bambino va definito come tale. Non si parlerà mai di salma o feto, espressioni che segnalano il distacco emotivo.
Durante il parto è importantissimo che ci sia un contatto aperto e diretto. Non esiste consolazione di un evento come questo. In queste situazioni è preferibile il silenzio, rimanere vicini alla donna e ascoltarla. Il contatto fisico può essere di grande aiuto, ma deve comunque sempre lasciare spazio anche a momenti di solitudine.

IL TRATTAMENTO DEL BAMBINO MORTO
Il primo contatto
In passato si preferiva risparmiare ai genitori un dolore inutile evitando qualsiasi contatto col bambino. Per lo stesso motivo si evitava di parlare del neonato schivando ogni vicinanza diretta. Dopo la nascita di un neonato morto, i genitori si ritrovano soli, senza speranza, senza più progetti di una vita col bimbo. Nei primi studi (1968-70) si definisce la perdita del bambino “NON EVENT” ossia la perdita di una persona non ancora esistente e senza nome. L’esperienza ha invece dimostrato l’importanza di un contatto diretto col bambino morto. In alcuni casi si verifica il cosiddetto effetto del “bonding” (termine inglese per indicare legame, attaccamento, n.d.t.).
A tempo debito i genitori vanno informati sull’ipotesi di vedere il bambino, eventualmente sulla possibilità di prenderlo in braccio e addirittura esortati a farlo. Il medico e l’ostetrica sono un modello: se si approcciano al bambino con rispetto, naturalezza e senza timori anche i genitori ne seguiranno l’esempio.
Alcune donne raccontano di un sentimento di euforia, nonostante il bambino morto, come se il corpo reagisse agli eventi solo gradualmente: prima ci sono il parto e la gioia, il dolore arriva solo più avanti.
I genitori vanno messi nelle condizioni di avvicinarsi gradualmente al bambino. La prima carezza viene data con timidezza, prima toccheranno un ditino, poi la manina, poi tutto il bimbo (questo schema replica il modello comportamentale della nascita normale). I genitori vanno lasciati soli col bambino. Se non vogliono vederlo per paura, sarà compito dell’ostetrica affrontare con loro questi timori e sondare se desiderano una descrizione del bambino. L’ostetrica può descrivere il neonato attraverso gli occhi dei genitori. Poi si allontanerà dalla stanza lasciando ai genitori la possibilità di guardare il piccolo: di norma la curiosità è più forte della paura.
Gran parte dei genitori percepisce questo contatto come esperienza positiva. Alle donne che non vedono il bambino può succedere di interrogarsi poi per lungo tempo sull’aspetto di loro figlio. Ciò succede spesso alla donne che partoriscono bambini affetti da malformazioni. In alcune pazienti la fantasia sulla “anormalità” del bambino arriva all’eccesso. Molto spesso queste idee prive di concretezza sono difficili da sopportare. Il personale medico vede il bambino con l’occhio clinico di chi è in grado di riconoscere la malformazione. I genitori invece guardano loro figlio col cuore: toccano le manine, i piedini, la boccuccia, sono addirittura in grado di percepire le somiglianze e far passare la malformazione in secondo piano.
Si parla in questo caso di percezione selettiva positiva, quella che di norma resta impressa nella mente. Più il contatto col bambino è concreto, più si escludono pericolose fantasie su di lui. Tenerlo in braccio, magari anche lavarlo e vestirlo aiuta a creare un legame tra genitori e bambino.

RICORDI
Per molte persone è difficile ricordare l’accaduto nel momento dello shock. Vedere il bambino quando si è sotto shock può farne sbiadire il ricordo più in fretta. Il desiderio di avere un ricordo come una fotografia emerge solo in un secondo tempo. Un ricordo tangibile è molto importante perché rende vivo il bambino anche in futuro. Si può conservare anche il calco del piedino o della mano o conservare il braccialetto di identificazione del reparto.

 www.Sternkinder.de

http://www.provincia.bz.it/sanita/downloads/bioetica/capitoli/9.doc

 
 
 
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