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Un blog creato da g1b9 il 10/01/2009

Sentimentalmente

Tutto ció che mi dá emozioni....

 
 

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« Un uomo solo...Dicono che sia il colore... »

Non sempre servono le parole...

Post n°4742 pubblicato il 05 Ottobre 2020 da g1b9
 


 Caro blog,custode dei miei pensieri, delle mie fantasie, custode di quanto desidero appuntarmi, perchè non si perda qualcosa che vorrei ritrovare e solo tu puoi fare questo, caro blog, oggi mi appunterai un racconto, da Futura del Corriere, un momento di vita, che potrebbe appartenere alla vita di tanti, certo con le modifiche del caso... ma le stesse emozioni di sicuro.


.Il codice di Matteo, che ama i film (e non li può vedere).

Anna Siccardi

L'appuntamento era all'uscita della metropolitana, dove ero arrivata in anticipo con una strana tensione, i sensi all'erta di chi non sa cosa aspettarsi. E mentre studiavo i volti delle persone che emergevano dal sottosuolo mi tornava in mente la conversazione con la mia amica.

«Devi solo accompagnarlo al cinema e spiegargli cosa succede tra i dialoghi», aveva detto Paola.

«Ma è cieco da sempre?», le avevo chiesto.

«Dalla nascita», aveva risposto lei.

«E cosa gli piace esattamente del cinema?», avevo chiesto ancora.

«È appassionato» aveva detto, come se fosse stata una domanda sciocca.

Riconoscerlo era stato facile, non solo per il bastone bianco che accarezzava ogni scalino, ma per la bolla di vuoto che il fluire delle persone gli disegnava intorno, come a tenere una distanza cautelativa. Quella che io avrei dovuto varcare. Ero rimasta a osservarlo, non vista, sentendomi un po' disonesta: è così, senza intenzione, che si consuma la prima prepotenza verso un cieco. Matteo era alto, magrissimo, imbronciato e senza traccia degli occhiali scuri che mi aspettavo. L'esibizione di un paio d'occhi fuori uso era, del resto, la prima prepotenza che un cieco può esercitare su un vedente.

«Ciao, sono Anna», gli dissi, e all'improvviso ero solo una voce.

«Ciao», disse lui, volgendosi precisamente dove avrebbe dovuto. «Io sono Matteo».

«Andiamo?» disse poi, prendendomi sottobraccio in una vicinanza che non aveva nulla di personale.

Ci incamminammo tra la gente e muoversi nel mondo mi sembrò improvvisamente complesso. Dovevo evitare gli inciampi e le persone, impostare rotte il più possibile lineari e tenere a bada mille paure irrazionali: nessuna voragine si sarebbe aperta sotto di noi, Matteo non stava covando rancore per il fatto che io ci vedevo e lui no, né io sarei diventata cieca per contagio. L'ansia è una bestia insaziabile. La sala era semivuota, ma ci sedemmo comunque in seconda fila, sovrastati dallo schermo, per non disturbare gli altri pochi spettatori.

«Mi piacciono le poltrone in velluto dei vecchi cinema», gli dissi per ingannare il tempo.

«Sono un ricettacolo di germi, è una di quelle cose che non puoi vedere neanche tu», disse lui.

Il tempo, del resto, non si lascia certo ingannare. Poi le luci si spensero, il film iniziò e io mi protesi verso Matteo per sussurrargli all'orecchio quello che si vedeva: una strada affollata, una grande città, una donna sola, aspetta qualcuno. Inizia a piovere, la donna guarda l'orologio, fa per andarsene, ma si accende una sigaretta e resta dov'è.

Ogni martedì, stesso luogo, stessa ora.

Ogni settimana un film diverso, sceglieva lui. E raccontargli ciò che si vedeva era un modo nuovo di attraversare le storie: mi fluivano attraverso come vaste maree che dovevo distillare in poche gocce. Ma quello che davvero facevo io, ogni martedì, era raccogliere indizi su di lui, frammenti misteriosi della vita di Matteo.

Vivi solo?

Come vai al lavoro?

Come immagini le persone, i volti, i colori?

Un giorno, nel salutarci, gli chiesi chi gli preparasse la cena. Lui rise e disse che se la preparava da solo, perché? Io non riuscivo a capire come si potessero armeggiare pentole e fuochi nel buio assoluto, ma lui mi disse che sua madre gli preparava delle vaschette che lui doveva solo scaldare.

«Stasera spinaci», disse.

«Comodo», abbozzai, ancora preda dell'unica domanda che non riuscivo a fare.

Quella sera, a casa da sola, cenai al buio e ruppi un piatto.

E poi vedemmo quel film. Non ricordo il titolo, ma c'era una lunga scena di sesso che non riuscii a raccontargli. Più tardi, da casa, mi feci coraggio e lo chiamai. Matteo rispose al quarto squillo.

«Sono Anna» dissi. «Disturbo?»

«No» disse lui, ma il suo tono era duro. «Dimmi».

Era la prima volta che lo chiamavo.

«Devo scusarmi con te».

«Per cosa?»

Il tempo di accendere una sigaretta e trovare le parole.

«Sai quando Hans è entrato nella stanza di Katherine? Poco dopo l'intervallo».

«Sì».

«E lui si è seduto sul letto anche se Katherine gli diceva di andarsene?».

«Sì».

«Lui rimane nella stanza e c'è quella lunga scena muta».

«E?».

«Ti ho mentito».

«Ah sì?».

«Sì. Ti ho detto che si tengono la mano. In realtà scopano».

«Ah».

«Sì».

«Mi stai dicendo che hai censurato il film?».

«Eh? Sì, in effetti sì».

«E cosa ti fa pensare che non me ne sia accorto?».

«Be', c'era quella musica che copriva tutto…».

«E perché mi hai mentito?».

«Beh, sei un uomo. Descriverti una scena di sesso è una cosa imbarazzante».

«Capisco».

«Sì?».

«Ci vorrebbe un codice».

Io non dissi nulla.

«Ci penseremo», disse infine, e riagganciò.

Io rimasi con il telefono in mano in attesa che mi richiamasse. O di trovare il coraggio di richiamarlo. E proprio allora mi sembrò di afferrare l'unica verità sul nostro strano rapporto; le cose più vere tra noi accadevano nel vuoto: nel buio e nel silenzio.Il martedì successivo lui non venne. Per qualche motivo non mi stupii. Era per la telefonata? O per la menzogna? O perché avevo voluto troppo. O qualcosa. Ma cosa? Guardavo la gente uscire dalla metropolitana e non riuscivo ad andarmene, come intrappolata in un deja-vu: ero nella prima scena del nostro primo film. Una strada affollata, una grande città, una donna sola, aspetta qualcuno. Inizia a piovere, la donna guarda l'orologio, fa per andarsene, ma si accende una sigaretta e resta dov'è.

 

 
 
 
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