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Raccontarsi ...

Post n°279 pubblicato il 22 Ottobre 2007 da morton0
 

Recentemente mi sono imbattuta in un romanzo che reputo uno dei più intensi che abbia mai letto in vita mia, La pioggia prima che cada di Jonathan Coe, l’autore della Banda dei brocchi e della Famiglia Winshaw, tanto per citare solo due dei suoi capolavori.

In questo romanzo, di rara bellezza stilistica ed espressiva, la narratrice Rosamund, sul punto di morte, in un estremo atto catartico che sa tanto di testamento spirituale, avvalendosi di un album di fotografie consegna ad un registratore la storia autobiografica di una bambina non vedente, Imogen, di cui si erano perse le tracce, e la cui madre da piccola era stata da lei accudita e amata prima che si interrompessero bruscamente i suoi rapporti con la sua famiglia. Incidendo sul nastro i frammenti della vita di Imogen, Rosamund restituisce alla bambina la dignità della sua identità, il senso lacerato e poi riannodato della sua esistenza, la trama coesa anche se lisa del suo Sé.

Tutto questo mi ha fatto ancora una volta riflettere sul significato della narrazione nella nostra vita e su alcuni aspetti psicologici pregnanti. Quando raccontiamo la storia della nostra vita, raramente seguiamo una linea logica e temporale coerente, ma siamo piuttosto portati a “saltellare” di qua e di là, ad ascrivere tutto quanto ci riguarda ad un nucleo esistenziale dominante, quello che secondo noi costituisce il leit motiv della nostra esistenza. Allora, recuperiamo ciò che ci è successo ieri e lo riconduciamo a quello che ci capitò dieci anni orsono, rievochiamo eventi passati per proiettarli in probabili orizzonti futuri, smontiamo l’orologio del vissuto e le più comuni regole di canonicità, nel tentativo di ritrovare noi stessi e di racimolare parti di noi smarrite o soltanto assopite. E in questo turbinio di attimi che si sovrappongono, in questo caotico e informe gioco di flashback e di flashforward, noi  non ci limitiamo a raccontare asetticamente la nostra vita, ma la ricostruiamo rivivendola, la condensiamo e l’amplifichiamo, cercando di riappropriarcene nei suoi significati reconditi, che ci appartengono solo se riusciamo a guardarla  con occhi aperti e ad afferrarla con entrambe le nostre mani, quella piccola e quella grande, quella dell’infanzia e quella della maturità.

La raccontiamo, la riviviamo, ma anche la ricostruiamo e ce la reinventiamo. Soprattutto, la scopriamo, come quando mi capita di sentire persone, in colloquio da me, che colti da un istante colmo di sorpresa, confessano: “Ma sa che non avevo mai pensato a questo particolare della mia vita! Me ne ero totalmente scordato o lo avevo depositato in qualche cassetto lontano …Eppure mi rendo conto solo ora di quanto sia stato importante per me …!”.

Ad un certo punto del romanzo Thea, la bambina che poi sarebbe diventata la mamma di Imogen, esclama convinta: “A me piace la pioggia prima che cada!”. Alla spiegazione razionale degli adulti che non può esistere qualcosa che non è ancora successo, la bambina risponde con aria di commiserazione: “Certo che non esiste una cosa così (…) E’ proprio per questo che è la mia preferita. Qualcosa può ben farti felice, no? Anche se non è reale”. Nella rappresentazione della nostra vita il senso psicologico prevale sul senso logico, il passato ci inonda e il futuro ci appartiene già nei suoi segnali premonitori intrisi di speranza o di minaccia, il fragore di una risata si scioglie nella lenta dolcezza dello scorrere delle lacrime, il confine tra piacere e dolore si disperde come foglie al vento.
Allora tutto sembra non avere più senso perché il suo senso risiede in un altrove, in qualche scenario da scoprire e da capire, proprio come la pioggia prima che cada.

scritto da: morton0   su: SCHERZO O FOLLIA?

 
 
 
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