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Edvard Munch. Arte2

Post n°3637 pubblicato il 01 Marzo 2010 da artfactory

Quando, all'età di quindici anni la sorella Sophie muore di tubercolosi, proprio come la madre, il giovane Munch si ritrova a vivere l'esperienza del lutto e dell'angoscia della perdita in una sorta di apres-coup che lo costringe a riappropriarsi del proprio lutto originario, delle emozioni che sembrava aver depositato nella sorella stessa. Come osservano i Baranger e Mom (1987, p.184) "il primo tempo del trauma...acquista il suo valore eziologico a partire dal secondo, dalla sua riattivazione per un evento...e attraverso la storicizzazione analitica che congiunge i due tempi. Il primo tempo del trauma rimane muto finche la Nachtraglichkeit gli permette di parlare e di costituirsi in trauma". Naturalmente in Munch la storicizzazione non è analitica ma utilizza l'opera artistica quale medium ove operare questa storicizzazione. L'opera d'arte, come osserva Liebert (1982) "non ha l'effetto di operare un working through, cioè, di alterare permanentemente la rappresentazione mentale centrale di se stesso e degli altri e determinare cambiamenti basilari negli altri aspetti della sua organizzazione e delle prospettiva psicologiche interne. In questo modo ogni tentativo artistico inevitabilmente fallirà a questo proposito e riaffiorerà il sottostante conflitto" (p.448-449, trad. mia). Tuttavia in Munch la funzione del lavoro artistico sembra teso a far sì che l'immagine del ricordo possa accedere alla pensabilità, più che alla soluzione del conflitto. La sua funzione è quella di creare un contenitore, di poter "rappresentare l'irrapresentabile". Nel lavoro di ricostruzione e di significazione del ricordo, l'ombra, rappresentativa dell'esperienza del passato, del lutto non elaborato, inghiottendo la sorella, ed annientandola, ricade su di lui.

La riappropriazione del proprio lutto è rappresentata anche nel dipinto Morte nella camera di una ammalata (1895), la scena della morte della sorella Sophie.
Qui il giovane Munch si ritrae sulla sinistra del dipinto, accomunato al dolore della famiglia, in cui tuttavia l'isolamento e l'incomunicabilità restano tangibili nelle prospettive assolutamente divergenti di ogni personaggio. "E' la messa in scena del ricordo, e i personaggi non hanno l'età che avevano al momento dell'evento, ma quello dell'anno in cui viene concepito il quadro" (Di Stefano). E' il tempo del ricordo racchiuso in una prospettiva chiusa e ricorsiva, in cui il passato non può essere tale, ma è sempre, persecutoriamente, presente. Qui Munch esplicita quell'aspetto della "funzione psicoanalitica della mente" in cui l'elaborazione dei contenuti mentali è sempre rivolta al presente. "Il passato non è importante, perchè non ci si può fare nulla: le sole cose su cui si può fare qualcosa sono i resti, le vestigia del passato, degli stati mentali passati" (Bion, 1997, p. 60). Come Freud ha asserito nell'inconscio non troviamo traccia di una concezione del tempo. Il tempo è una dolorosa acquisizione della consapevolezza di Sè. In una litografia del 1896 le figure sono accomunate viceversa dalla prospettiva verso il letto della sorella morta, mentre sulla parete di fronte aleggiano i fantasmi dei morti, a sottolineare come il lutto attuale non faccia che ripresentificare quello precedente, ancora da vivere ed elaborare; la sorella Inger, in primo piano, sembra accogliere lo sguardo del pittore, carico di angoscia e di lutto, contenimento relazionale che rappresenta il movimento iniziale verso l'elaborazione e la pensabilità.
Questa possibilità di elaborazione e di riappropriazione del proprio vissuto emozionale si sviluppa in ragione della solitudine che si relativizza a poco a poco. La zia che cura fino al limite della propria impotenza la nipote in Bambina malata, il primo piano della sorella Inger, sia in Morte in camera di una malata, che nella relativa successiva litografia, sembrano indicare come prepotenti le istanze vitali, ovvero le buone relazioni con gli oggetti, nel mondo interno di Munch controbattono il carico di lutto che proprio quell'anno si è nuovamente abbattuto su di lui, con la morte del fratello Andreas. Inger è l'unica sorella che sopravviverà insieme ad Edvard.

Il lento e doloroso lavoro del lutto già in precedenza era giunto ad un punto di recupero delle figure della vitalità, nel dipinto Primavera del 1889.
Questo quadro è stato dipinto in un periodo di convalescenza, la ripresa delle proprie forze, la sconfitta della malattia e della morte sono mirabilmente descritte dalla leggerezza e dalla luminosità delle tende che si sollevano sofficemente sospinte verso l'interno dalla luminosa ariosità della brezza primaverile, a rischiarare un ambiente in cui la giovane malata, la sorella Sophie, risalta per il suo pallore in contrasto col colore salubre dell'incarnato della figura materna che l'assiste.
Quasi una idealizzazione la sconfitta della morte che sembra indietreggiare e dover cedere i suoi spazi alla vita rappresentata dalla madre florida, le due finestre luminose come seni rigogliosi di nutrimento vitale. Un omaggio alla zia, Karen Bjolstad, che ha preso validamente il posto della madre nella rappresentazione del mondo interno di Munch e che in questo modo ha permesso al suo stesso mondo interno di costituirsi. Un'identificazione in cui magicamente ripara alla morte della sorella, restituendola alla vita con questo quadro, così come si libera dalla propria malattia. La sorella può essere ritrovata viva dentro di sè nella misura in cui la mente di Edvard può riappropriarsi di tutta la emozionalità che aveva compresso dentro di lei nell'estremo sforzo di sopravvivere all'allagamento di angoscia persecutoria e di impensabilità legate alla solitudine in cui si è compiuta la perdita originaria.
Il recupero di oggetti vitali al proprio mondo interno permette di riappropriarsi del proprio mondo emozionale, in un travaglio che segue un continuo movimento oscillatorio tra aperture verso la vita, il legame e la passione del sentimento, e la paura angosciosa dell'abbandono. Ma nell'inverno di quello stesso anno, il 1889, morirà il padre, e le immagini vitali e luminose devono nuovamente lasciare il posto alle memorie delle perdite. Il lavoro del lutto, già di per sè così duro di fronte alla precocità e drammaticità del trauma iniziale, sembra doversi rinnovare e recedere continuamente in una lotta impari col potere della morte.

Questa ambiguità è espressa in un'opera come Il bacio (1897), dove il rapporto può essere concepito solo come fusione e con-fusione, unica salvaguardia nei confronti di un abbandono che sembra viceversa prospettarsi come unica evenienza possibile, come è rappresentato per esempio in Separazione (1896) o in I solitari (1906/07). "Ognuno sta solo sul cuor della terra", e in Munch questa solitudine è tratta non certo da una riflessione sulla solitudine fondamentale e metaforica dell'essere umano, ma da una concreta e dolorosa esperienza di vita.
Queste tematiche mi sembrano comunque riassunte nell'opera fondamentale La danza della vita (1899-1900), una vita che sembra promettere e togliere con la stessa leggerezza, con la leggerezza di un danza per l'appunto. La vita che offre uno scenario naturale accogliente perché la promessa ideale offerta dall'oggetto primario, rappresentata dalla donna in bianco alla sinistra, possa muovere desideri e passioni, tenerezza e gioia - le varie coppie impegnate al centro della scena - per finire togliendo tutto in una separazione irreparabile, raffigurata nella donna in nero sulla destra.
Il tempo della vita qui rappresentato si pone peraltro come un tempo senza divenire, una "temporalità circolare" (Baranger e al., 1987) fissata nell'attimo ricorrente del trauma, della separazione ineludibile. La storicizzazione che sembra proporsi è una falsa storicizzazione, in quanto la congiunzione tra promessa e disillusione fissa il tempo in una circolarità ricorsiva in cui il principio di morte ha sempre la meglio. Tuttavia, anche in questo dipinto, che mi sembra uno dei più tragici per il pessimismo - leopardiano - che trasmette, non completamente possono essere perdute le tracce di quello slancio vitale che, in qualche modo, può essere ricercato e trovato al fondo dello spazio interno della propria mente da parte di Munch: la luna all'orizzonte si riflette nel mare in una simbologia di fertile creatività.
L'oggetto buono e vitale non sembra tuttavia poter trovare un posto stabile nel mondo interno di Munch, essendo il fondo della sua angoscia racchiuso in una nicchia dell'anima irragiungibile, incomunicabile. Troppo solo sembra essersi sentito questo piccolo bambino di fronte alla perdita tragica della sua infanzia, troppo isolati tutti nella propria depressione ed angoscia quanti stavano intorno a lui.
La folla muta e cieca della Sera sulla Karl Johansgate (1892), non sembra accorgersi dell'esistenza del passante sulla destra che, solo, deve risalire la corrente, deve tornare verso l'origine, recuperare qualcosa da cui tutti viceversa sembrano allontanarsi, spaventati e pieni d'angoscia. Un passante che tuttavia non ha voce, sembra ripiegato su se stesso, a sua volta è impotente ad esprimere ciò che sente.

La solitudine di Munch si esprime al suo culmine, nella massima tensione rappresentabile in Disperazione (1892). Egli è solo, la natura intorno a lui si esprime indifferente alla cupa perdita del senso di sè che quel soggetto senza volto manifesta nel suo fermarsi lasciando che da lui si allontanino cose vive che si muovono, anche se verso il tramonto.
Come si può ben vedere questo dipinto prelude al Grido (1893).
Se questo viene considerato il capolavoro di Munch, le ragioni che ne determinano il successo credo che siano molteplici. Come ha osservato Rugi (1996) con quest'opera viene sovvertito un pregiudizio classico, sostenuto fra gli altri da Schopenhauer, della irrapresentabilità del suono.
E osservando questo quadro non può non venire in mente il paziente di Bion che, nella dimensione frammentata del suo tempo, segnala la mancanza del legame col seno attraverso il ripetere come manchi il "gelato" (no-ice cream), come manchi il grido (no I scream), e come questo grido, nel momento in cui può essere espresso, venga a rappresentare il legame (Bion, 1970, pp.22-23). La capacità di nominare, osserva Bion, "anche se il nome si limita ad essere un mugolio o un urlo" (ibid. p. 18) depone per l'acquisizione della capacità di tollerare una "congiunzione costante", ovvero di avere uno spazio interno sostenuto da un buon oggetto che permette di tollerare l'assenza e di pensare (v. anche Bion, 1962a,b).
Nel cammino elaborativo della propria vicenda Munch giunge finalmente a poter accedere al nocciolo della sua angoscia, a trovare una via espressiva e comunicativa, una via di pensiero, pur se appena abbozzato. Il trauma infantile di Edvard si deve essere posto come "una esplosione così violenta...accompagnata da una paura così immensa...da poter essere espressa...per mezzo di un improvviso ed assoluto silenzio" (Bion, 1970 p. 22). Un improvviso silenzio, quello anche proiettato nel terrore muto, senza nome nel volto della sorella Sophie, che ha necessitato del cammino di una vita per poter essere rotto, lacerato dal grido che finalmente trova uno spazio entro cui essere accolto. La natura-madre si piega all'onda sonora, si deforma secondo le sue linee di diffusione. Il grido di Munch trova una sua corrispondenza nella natura. Il personaggio, intriso di morte, come il suo volto mummiesco indica, riesce a far uscire il suo carico all'esterno, a pretendere di non sentirlo più come proprio, ad accettare la morte della madre senza doversi identificare in essa, tappandosi le orecchie per non sentire, ovvero far rientrare dentro di sè, il grido della madre-natura, che gli ritorna la morte, dipingendo le "nuvole come sangue vero", il sangue dell'emottisi fatale della madre e della sorella, come una cosa che deve stare al di fuori di lui. Arrivando ad accettare la perdita, elaborando il lutto, dentro di sè può ritrovare un contenitore buono, la madre viva, capace di contenere la sua angoscia.

La possibilità di esprimere in un ambiente contenitivo "il lutto indicibile" (Abraham e Torok, 1987) permette anche di spezzare la temporalità persecutoria del trauma. Nella versione più conosciuta del Grido la cesura rappresentata per mezzo del parapetto, che prospetticamente taglia rigidamente l'immagine, proiettandola verso l'infinito dissolutore, e contenente le figure che qui, persecutoriamente, sembrano inseguire il personaggio, è in realtà spezzata proprio dalla figura e dall'urlo. Proseguendo la linea del tratto di parapetto antistante la figura del personaggio, si noterà che non corrisponde alla linea del tratto del parapetto che prosegue alle sue spalle. La temporalità circolare della ripetizione che imprigiona all'interno di un universo fatto di persecuzione, di angoscia e di morte, nella relazione tra un contenuto e un contenitore si apre ad una storicizzazione che permette l'individuazione, l'appropriazione delle proprie emozioni e l'esclusione di quelle aliene.
Munch, come già prima ho sottolineato, ha scritto su una copia del Grido: "solo un folle poteva dipingerlo". Egli si dovrà confrontare ancora a lungo con la propria follia, ma in quest'opera si può ritrovare l'apertura espressiva della follia, i "sintomi positivi", produttivi, quelli che permettono di trovare una via, dolorosa e impervia magari, ma l'unica per uscire dalla prigione del non-pensiero. In effetti molto più "folli" sembrano i dipinti raffiguranti La madre morta e la bambina, o Disperazione, o altre varianti del Grido. In queste rappresentazioni del dolore mentale, l'assenza di apertura comunicativa delinea un quadro di inelaborabilità e fissità che veramente configura un'assenza di pensiero, uno stato a "sintomi negativi", la impenetrabilità della "follia".
L'elaborazione depressiva del lutto (v. Grinberg, 1971), che nel Grido possiamo riconoscere, non è una acquisizione data una volta per tutte, ma giunge al culmine di un lavoro elaborativo che procede oscillatoriamente attraverso il passaggio a modalità persecutorie del lutto stesso. In una litografia del 1895, una elaborazione successiva del Grido, così come in un'altra versione dipinta sempre del 1893 (in: AA.VV., 1985, e AA.VV., 1998), questa oscillazione verso la persecutorietà può essere ritrovata nelle caratteristiche che differenziano, profondamente, questa versione dalla precedente.
Vediamo qui come i caratteri salienti che rendono Il Grido così particolare nel percorso umano e artistico di Munch sono profondamente mutati. Le caratteristiche della natura riprendono la rappresentatività quasi "naturalistica" di Disperazione: le linee che descrivono la collina in primo piano, il fiordo, le nuvole, seguono il loro corso senza piegarsi all'onda d'urto del grido del personaggio, e senza amalgamarsi in un tutt'uno. Così come le linee del parapetto continuano senza spezzarsi in corrispondenza della figura, e i personaggi nuovamente si allontanano come a sottolineare l'irreparabilità del distacco e della solitudine.

Le stesse cose si potrebbero dire di Angoscia (1894).
Qui la natura è identificata ancora nel grido, ma in una unione confusiva tra l'Io e una madre-natura sanguinante nel suo grido di morte, non più rappresentabile quindi come una relazione che individua, ma come una relazione che annulla. Nel "corso" della vita una folla muta in preda ad un terrore senza nome, la stessa folla della via Karl Johann, volta le spalle a ciò che nella visione di Munch rappresenta l'alfa e l'omega della sua esistenza: l'origine e il tramonto coincidono, in funzione del tempo ricorsivo e chiuso su se stesso della morte e della persecutorietà. E' la folla degli adulti che restano chiusi in se stessi, sordi.
L'aver potuto tuttavia gridare il proprio dolore e l'angoscia porta Munch a confrontarsi con il proprio nucleo di esperienza più impensabile, e, conseguentemente, a rischiare di sprofondare nella follia, a questo punto non più la follia "bianca" del non-pensiero, ma nella follia come ritiro terrorizzato di fronte ad un'esperienza emozionale in qualche modo rappresentata, e collocata in una dimensione spazio-temporale. L'acquisizione di consapevolezza, il contatto con la verità del proprio mondo interno, produce un carico emozionale difficilmente tollerabile. Così come certi pazienti gravi in psicoterapia, quando cominciano a "star meglio", ad essere più coscienti di sè e della realtà intorno a loro, divengono proprio a quel punto a rischio di suicidio.
Successivamente al Grido l'opera di Munch oscilla continuamente tra immagini di follia e autodistruzione e altre dove prende corpo un sempre maggiore contatto con la vita. Angoscia, come abbiamo già visto, ma anche La vite rossa (1900ca.), fino all'Autoritratto con bottiglia di vino (1906), contengono maggiormente le prime.
"Le case, concepite antropomorficamente, appaiono come esseri animati congelati in un'assenza di vita da un incantesimo diabolico" (Messer). E' la paralisi del tempo del trauma che imprigiona nella sua morsa di morte la mente di Munch. Rappresenta a questo punto la propria mente come un'entità che viene assalita dall'esterno, il sangue mortale lo stringe in una morsa paralizzante, tendendo a renderlo inanimato. Eppure egli rappresenta la sua mente come una casa, una struttura che ha una sua solidità, una sua identità, che può rimanere soffocata, ma che continua a conservare le sue vie comunicative, le finestre non ancora invase dal rampicante.

E la lotta con la follia si dispiega fino al limite della sua sopraffazione, culminata nella grande crisi del 1906-1908, con i ricoveri per disturbi nervosi e per l'alcoolismo, rappresentato mirabilmente nell'autoritratto del 1906.
La solitudine, tale in quanto non comunicazione con le altre figure sullo sfondo, e l'oppressione di una via senza uscita verso la morte - il rosso che chiude l'angusta prospettiva dei tavoli - sono rispecchiate dall'espressione del volto di Munch in cui una smorfia di dolore è percepita dal sè del pittore con una profonda rassegnazione depressiva, che ritroviamo nell'espressione degli occhi. Lo sguardo di Munch è senza speranza, non può essere attratto dalla luce che pur copiosa si riversa all'interno dalle finestre, e che illumina la stanza verde in cui si trova. La consapevolezza dei suoi dolori, della propria realtà interna come della propria storia, non sembra poter offrire alcun sollievo all'angoscia e all'impotenza in cui egli appare inchiodato.
Come osserva Messer i colori sono usati da Munch come "chiavi", nel senso musicale del termine, quelli puri come chiave maggiore, quelli sfumati come tono minore. "E' ... del tutto evidente, dall'esame di un gran numero di tele, che per Munch il rosso e il verde costituiscono polarità emotive" (Messer), il rosso legato al trauma infantile, alla morte, il verde "rispecchia i colori permanenti ed eterni della natura" (c.s.), una natura viva e accogliente, una madre-natura capace di sostenere, ma qui relegata ai margini.
In questi anni di grande travaglio emozionale Munch dipinge anche quadri come Ragazze sul ponte (1899 ca.), Fertilità (1902), I quattro figli di Max Linde (1903), Danza sulla spiaggia (1904), Notte d'estate sulla spiaggia (1905 ca.), Le quattro età (1902).
In una delle numerosissime versioni di questo tema delle Ragazze sul ponte, vi è un'immagine dove si possono chiaramente individuare elementi della "vitalità", un accostamento più sereno alla realtà e alla dinamica emotiva. Accanto ad un tema legato alla figura femminile - la donna in bianco e la donna in rosso - e al non risolto accostamento alla passione amorosa, si può vedere come il distacco della figura in primo piano, la sua melanconia, non assuma delle caratteristiche catastrofiche, ma sia contenuta in una tristezza, in una nostalgia forse, che fa parte del normale dispiegarsi della vita emotiva. Il ponte può essere considerato come un elemento simbolico che lega, nell'attimo della sospensione riflessiva, il passato al futuro. Abbiamo allora ancora qui una rappresentazione della visione del tempo di Munch. Le tre ragazze, forse le sue tre sorelle, qui si possono differenziare in base ai loro destini: Sophie e Laura oramai voltate inesorabilmente verso la perdita, Inger che può sostenere il peso dei ricordi e non esserne travolta. E' come se si presentassero le diverse possibilità del destino del ricordo, quello che lo fissa come un carico che schiaccia la mente sotto il suo peso, o quello che lo inserisce nella "temporalità all'opera" (Green, 1990b) lo spazio, il ponte, del legame con un oggetto contenitivo che permette l'elaborazione.

 

 
 
 
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