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Fleet Foxes, Teatro Smeraldo, Milano - Guest: Alela Diane - 20.11.2011

Post n°174 pubblicato il 23 Novembre 2011 da syd_curtis
 

 

Cose autoreferenziali che si possono saltare se piombate qui cercando fleet foxes smeraldo. Cose che rientrano nel tag lamentazioni. Cose di cui non so far senza. Cose che in un'altra vita imparerò a non scrivere. Cose.

Anni che non seguivo un concerto seduto in una (comoda) poltrona. Con quel filo(ne) di inestinguibile snobismo che mi contraddistingue, ho sempre ritenuto che i concerti migliori siano quelli osservati in posizione eretta, a lavorar di gomito col vicino; gli altri, a conti fatti, perdibili. Beh, mi dovrò ricredere. Metti pure di stare nelle file laterali della platea, fila h posti 12 13, e di dover girare la testa innaturalmente verso il palco, guaio per la cervicale: tre quattro posti più in là, sei talmente laterale che del palco scorgi solo una fettuccina schiacciata. Poi i cessi, vogliamo parlarne. I cessi dello Smeraldo sono freddi e sudici, quel velluto bordò sulle scale induce il vomito. Metti pure che un tizio altissimo sieda proprio davanti a te. Metti che fuori faccia un freddo cane, fuori. Che ci sia la scighera, densa, pastosa. Metti che trovare un posto auto gratuito in questa zona di Milano sia un'impresa infernale, a meno che non si vogliano scalare marciapiedi alti 60 cm. La maledizione dei concerti in zona centro, già sperimentata a maggio scorso con Billy Bragg (mentre costeggiavo una via laterale in cerca di un parcheggio, improvviso si materializza sulla mia destra un personaggio pittoresco (vedi più avanti alla voce 'barba') che tramite grandi e incomprensibili gesti mi invita a salire su un ampio marciapiede praticamente sgombro: non cedo alle lusinghe e approdo nel silos a pagamento). Metti di trovare parcheggio solo a pagamento (12 euro per tre ore) in un posto in cui la macchina scende e sale dal piano inferiore tramite un ascensore monoposto. Metti che davanti al teatro siano in corso lavori biblici, catalogati sotto il tag expò. Un cratere enorme e recintato: ci vuole una gran pazienza. Metti pure tutta 'sta roba. Resta quella poltrona comoda, un'acustica davvero buona, pure in posizione defilata e la sensazione che per una volta si ascolti ottima musica in un posto dignitoso. Vuoi mettere?

Cose che riguardano le barbe.

La serata delle barbe da talebano. A parte quelle di Robin Pecknold e di alcuni altri membri dei Foxes, ho contato barbe curiose anche in faccia al tizio che distribuiva i biglietti dell'acquisto online e pure tra i manovali del palcoscenico e sul mento del marito di Alela Diane: dev'essere il cancro psichedelico che torna a farsi sentire. Le barbe da talebano mi fanno pensare al sitar, non so che farci e non riesco a fare a meno di scriverlo. Sono quasi terminate le note di servizio, non temete. Il concerto, il concerto, ok, basta indugi.

Cose che riguardano il concerto di Alela Diane. Cose che riguardano la vita e l'opera di Alela Diane. Cose in parte ancora autoreferenziali, ma pure legate in modo inestricabile a cose del concerto. Cose quindi che è bene leggere.

Lo ammetto, anzitutto: sono qui stasera grazie al richiamo di Alela Diane, la cantante di Nevada City ora alloggiata a Portland, musicista che ho nel quore. Non so quanti altri presenti stiano nelle mie condizioni: probabile pochini. I Foxes mi piacciono e molto, ma da soli non mi avrebbero tolto pantofole e divano (e sarebbe stato un errore) e fatto sborsare i 39 e rotti euro, compresa solita ruberia di Ticketone. Alela si materializza sul palco alle 21 e due minuti, quando dici la precisione. Cosa da insegnare a quelli del Magnolia o del Rocket, tanto per dirne un paio. Ore ventuno, mentre la gente ancora sta entrando, le luci sono ancora accese, si spengono e di lì a poco si riaccendono per consentire l'ingresso a persone che è difficile, considerata l'ora, definire ritardatari. Il tutto mette tristezza, povera Alela, manca giusto il tram che passa e il cappello per terra a raccoglier le offerte: ma costava così tanto aspettare ancora dieci minuti? Dura la vita dell'artista di spalla. E' la terza volta che Alela passa per Milano, il sottoscritto sempre presente a bordo palco. Una sola volta come attrazione principale (mio dio, sembra lo zoo), su ben altro palcoscenico: la Casa 139. Le altre due, sempre come spalla (St.vincent, nella prima occasione). Si presenta stasera nella veste che le è più congeniale, per quel che mi riguarda: chitarra acustica a tracolla, accompagnata da altri due ometti. Il marito, Tom Bevitori, ennesima barba afgana di cui sopra, e papà Tom Menig, alla faccia dello scontro generazionale, il rock come mezzo per ribellarsi all'autorità genitoriale, salutare babbo e mamma, eccetera. Tom Menig (già membro, nell'antichità classica, di una cover band dei Grateful Dead) che si alternerà tra acustica, elettrica e banjo.

Alela e i suoi dischi. Cronaca semiseria di una indecisione.

Alela, in jeans e canotta nera, i capelli ancora sciolti e lunghi sulle spalle, quasi come ai bei tempi, quando pareva di aver di fronte una donna dai tratti nativo americani; nel video di white as diamonds, lei china sul fiume, t'aspetti che irrompa una squadraccia di yankees a devastare il campo indiano. Nel sentirla cantare all'ombra di questi due uomini, m'è venuto da pensare che forse ciò che che le manca sia proprio il fatto di rompere forte col passato personale, recidere legami e debiti familiari e cominciare a camminare da sola. Alela Diane, è bene ricordarlo, ha prodotto quattro anni fa un album d'esordio folgorante, uno dei più belli del decennio scorso, quel Pirate Gospel fatto solo di arpeggi semplici di chitarra acustica, e della sua voce, tutt'altro che semplice: yodl accennato, grappoli di note, intrecci come ricami su una tovagliola di pizzo. Alela non pare(va) aver bisogno d'altro, la voce sa(peva) comporre l'intero spettro di pieno e vuoto di una canzone e suonare come suonerebbe una intera band. Quel disco memorabile, tuttavia, l'ha messa da subito di fronte a un cruccio: ripetere, cesellare altre probabili meraviglie acustico-vocali, col rischio di cadere nella maniera, citare sé stessa, o affrontare altri perigli? La strada già con l'album successivo sembrava la seconda: altri ricami delicati e luminosi, con l'aggiunta di una backing band timida, solo accennata. Nel terzo disco, l'ultimo, il passo è più marcato. C'è una band stabile, basso chitarra batteria; Alela afferra il microfono e abbandona l'acustica, si taglia i lunghi capelli, disegna video vintage. Ma tutto funziona a metà, come ci fosse una indecisione di fondo che non si scioglie. La struttura delle canzoni rimane esile, la musica non riesce a varcare la soglia del sottofondo ordinario e piacione, fa rimpiangere in fondo la scarna veste dell'esordio. Più interprete che autrice, vien da dire, come se faticasse a trovare una forma compiuta in cui liberare la straordinarietà del proprio talento vocale.

Scordate il passato, il passato è passato. Ora sotto col concerto.

Il teatro lo riempie lei sola, la sua sola voce, questo è bene chiarirlo. Non so quanti dei presenti la conoscano. Gli applausi sono convinti e caldi, ma nulla che eguagli i boati e le esplosioni riservate in seguito ai Foxes. Il live è corposo, in ogni caso, grazie a dio, ben nove canzoni che toccano i tre album prodotti, più o meno tre quarti d'ora di musica.

There are things that I've seen in my head /
While I'm sleeping in bed /
Do not wither in the morning light

Il primo pezzullo è dry grass and shadows, seguito a ruota da my brambles, sui quali si intrecciano i vocalizzi suoi e dei due compagni accanto, quasi un omaggio ai Foxes che la ospitano. Foxes che pure la aiuteranno, a turno, con apporti -va detto- piuttosto marginali. Vale poi citare la splendida The Rifle, che rimanda dritta al disco d'esordio e di quel disco è il pezzo che ho più di ogni altro nel cuore; e, ancora, the wind, con la voce che si libera finalmente forte chiara e fa vibrare le coratelle, il mandolino del padre a far da delicatissimo contrappunto. Ma è tempo di abbandonare la chitarra, raccogliere il microfono per Elijah. Resta spazio per una nuova canzone, Crimson Rose, che a un primo ascolto pare introdurre una grinta nuova, una pista tutta da esplorare, chi lo sa. Segue White as diamonds, con intermezzo di soli vocalizzi in trio, e si chiude su Long way down, facile e piaciona, che se da una parte incanta, dall'altra fa venir voglia di qualcosa di più corposo, il batterista dei fFxes quasi svogliato nel compito elementare. Uno show che dice ancora una volta il prodigio della sua voce, l'incantamento, ma anche il rischio di trasformarsi in entertainer di classe, e poco più.

 

 

Cose che riguardano i Foxes e il loro concerto, finalmente. Se non avete letto i pezzi precedenti, tornate alla casellina delle barbe e state fermi tre turni. Il resoconto è confuso.

Il palco è loro. Si attacca la spina delle casse, fino a quel momento quasi sotto utilizzate. Il teatro è pressoché esaurito, segno dell'affetto con cui sono seguiti, a dispetto dei tre anni passati dalla loro ultima esibizione italiana.

Alle spalle, proiezione di paesaggi montani, soprattutto prati e cime innevate: disegnati, però, come a stemperare la retorica. Uno spettacolo. Un vero spettacolo che ha come unico punto debole la mancanza di colpi a sorpresa. Il menu è lo stesso cucinato negli altri show di questo tour, scaletta scontata, tanto che non c'è nemmeno bisogno di recuperare la lista dal palco, come fanno alcuni. E' bastato dare uno sguardo preventivo a setlist. Brani eseguiti senza nessuna concessione alle richieste del pubblico: una Oliver James reclamata due tre volte, tanto per dire. Ma c'è quasi tutto quel che è necessario e persino di più. Pecknold trasuda talento sin dalla barba, cosa che dal vivo è pure più evidente. Come Alela, ha una voce che da sola fa palcoscenico. Lo immaginereste, anni fa, ancora sconosciuto, in piedi -chessò- nella Independence Lane di Seattle (sì, quella Seattle del grunge, che per Pecknold non è mai esistita) col piattino delle offerte e un pubblico rapito tutto attorno. Ha una voce dal timbro limpido, acuto, cristallino. I momenti di più forte emozione, dite? Scelta personale: la White winter hymnal ritmata dal battimani del pubblico, perché è una fiaba gioiosa dal testo immaginifico e i Foxes la cantano come fossero monaci trappisti dopo l'imbottigliamento della doppio malto ambrata e dal vivo si avvertono gli effluvi; appena sotto White Winter, sta Montezuma, dove viene voglia di correre a abbracciare Pecknold e ringraziarlo per la gioia che ci regala l'ascolto; la psichedelia acustica di The shrine / An argument con luce chiara accesa a piè di batteria, cosa che fa tanto trip da acido, e colpi accennati su timpani e grancassa, bacchette a testa tonda, arabeschi psych proiettati sul telo alle spalle, forme geometriche. Seguito ideale di quell'argument psichedelico è Blue spotted tail, su cui tornerò in un post dedicato, in cui la voce chiara di Pecknold risuona sul manto di un cielo notturno che piove neve, mentre fuori è Natale e non sappiamo che farcene. Momento riflessivo prima di Grown Ocean e dei bis.

Un primo bis, merabilia!, cantato con Alela, these days di NIco/Jackson Browne, con quel testo così evocativo, anche se la voce acuta di Robin nasconde Alela e questo è male, le ruba lo spazio, poco amalgama, coi due che guardano per terra il testo che sfugge. E poi il gimme five smashato, lui e lei. Nel video su utube c'è un tipo che sussurra: ho la pelle d'oca. Non ero io, ma lo capisco e lo abbraccio idealmente, nel caso passasse di qui.

These days I sit on corner stones
And count the time in quarter tones to ten.
Please don't confront me with my failures,
I had not forgotten them.

Il finale, poi. strabordante, con Blue ridge mountains e Helplessness blues. Resta altro da dire? Come si fermavano per aggiustarsi tra un pezzo e l'altro, dettagli su cui forse devono ancora lavorare o forse no e che denotano la loro genuinità/ingenuità; e il silenzio che c'era in quei momenti, giusto da teatro. Quel teatro che è tutto, tutto per loro. Pecknold, camiciona a quadrotti rossi e neri, parla pochissimo, giusto qualche grazie qua e là, un applauso chiamato per Alela e tanta voce, tanta bellezza, tanto pudore: apprezzatissimo. Foxes che dal vivo (in sei, tra cui il polistrumentista Joshua Tillman, impressionante tra contrabbasso, violino, basso, sax, eccetera) appaiono una macchina coesa, potente, affiatata. Quasi due ore di concerto bello e emozionante. Le armonizzazioni vocali, per cui vanno giustamente famosi, sono perfette pure dal vivo, nessuna sbavatura. A tratti verrebbe voglia che si lasciassero andare di più, che lasciassero più spazio all'improvvisazione, ma ci sarà tempo.

La fine, forse.

Poi si esce nel gelo, ma col quore bollente. La nebbia si è alzata, spiace solo che il giorno dopo sia lunedì. La prossima volta verrò solo per loro, promesso e promossi a voti pieni.



Il setlist di Alela Diane (quello dei Foxes lo trovate qui).

Dry grass and shadows
My brambles
Of many colors
The wind
The rifle
Elijah
Crimson rose
White as diamonds
Long way down

 

 
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