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Record Store Day

Post n°102 pubblicato il 15 Aprile 2011 da syd_curtis
 

 

Il Record Store Day è un rito pagano officiato dal 2008, il terzo sabato di Aprile, con l'evidente scopo di rallentare l'inevitabile estinzione del negozio di dischi così come l'avevamo conosciuto nei nostri anni migliori, sob. Questo è il mio piccolo contributo alla causa (persa). Un pezzetto di questo post lo trovate anche su Vitaminic, che ha dato il via alle danze.

---


In principio c'era Ricordi, vicino al Duomo, lastricato di vinile: camminavi coi piedi in spalla per paura del frantumo. Lì comperavo Remain in light dei Talking Heads nel 1983, sottobraccio a Formica, mio compagno secchione con i brufoli sulle tempie e la leadership dell'oratorio di Carate. Formica, non l'avessi mai creduto, si metteva di lì a poco con una ragazza, Dorina, una compagna con i riccioli castani in un taglio fuorimoda e un'ombrina di peluria baffuta. Sedeva (sedava) davanti, nei primi banchi, con le mani sulle ginocchia e sorrideva triste e guardava i brufoli di Formica come osservasse la ferita sul costato di Gesù: si sarebbero sposati di lì a pochi anni. Non capivo perché Formica m'avesse preso sotto la sua ala protettrice, forse per quella speciale vis missionaria che sempre anima i regazzetti timorati di dio. Schifavo la scuola, sotto effetto di musica alternativa new wave dark eccetera, insomma i joy division e robert smith incarnato. Quando s'impiccò Ian Curtis, lo seppi quattro anni più tardi. Quando lo dissi a Formica, fece, Ianni chi?

Ricordi fu il primo. Ricordi? fu il primo. Ricordi, ah, ricordi? Fu il primo? Quanti ricordi. Fu il primo. Non ricordo perché Formica mi tenesse sottobraccio in quella piazza del Duomo, né come l'attraversammo. Ma ho ancora il vinile. Lui comprò Mike Oldfield, Crises. Quando tornammo a casa, alla casa di Formica, insistette per farmi sentire il disco. Il suo. Io gli dissi se non convenisse delle volte studiare informatica: avevamo l'esame di maturità. Formica mi guardò stupito, Dorina guardò lui, ci guardammo, e poi in silenzio sfilò Oldfield dalla confezione, lo appoggiò sul piatto e mise con estrema cura la puntina. Anche sua mamma venne navigando in pattine verso il salotto. Io ero già new wave da un po', però mi piacerebbe mentire e dire che le nuvole si diradarono, là nel cielo che scoloriva verso il vallone di Paìna, Brianza, e vidi chiaro nel mio futuro, che mai e poi mai poteva esser fatto di Oratori e Mike Oldfield. Formica alla fine mi parlò molto bene degli America.

The wind in my heart
The dust in my head
Drive them away.


Mi ricordo anche di Oggiono, ma ho dimenticato il nome del negozio. Fu la prima volta che avvicinai il sesso femminile da vicino. Ero già meno new wave, attecchiva la neo-psichedelia. Giravo vestito come Greg Prevost e ricordo che cercai anche di coltivare un ridicolo caschetto. Però a Monica piacevano ancora i Cure. Che ci vuoi fare. Per farla contenta, di sabato giravo con un crocifisso fosforescente su una camicia nera. Solo che lei faceva difficoltà, diceva la paura, mi guardava molto negli occhi, limonavamo appena, le carezzavo il maglione in zone sicure e ascoltavamo A Forest con le lacrime agli occhi. Del resto, avevo pratica solo su me stesso, non ero di grande conforto con la paura. Tornando poi deluso verso casa, in macchina, alla prima curva piantavo su i Fuzztones. Però da Oggiono, quel pomeriggio vicino al suo compleanno, tornai con la intiera discografia dei Cure a prezzo speciale, Three imaginary boys, Seventeen Seconds, Faith e Pornography: le scrissi un biglietto che terminava con ci perderemo assieme in questa fantastica foresta. Capitolò. Uscimmo di casa dopo Hanging Garden. Ciulammo come porcospini per tutta la notte sul sedile posteriore della Panda verde di suo papà prestinaio.

I'm running towards nothing
again and again and again


Però forse così sono più ricordi miei che dei negozi di dischi. Così dico l'ultima cosa, più aderente. All'inizio dei tempi c'era il Discotto di piazza Petazzi di Sesto San Giovanni. Non ricordo il numero civico. Ancora minorenne, ci andavo in treno il sabato pomeriggio. Il proprietario era un capellone che metteva su un sacco di metal che io schifavo, ma c'era poi tutto quello di cui scriveva Rockerilla, i butthole surfers-pussy galore-birthday party e la neopsichedelia damascata.

Io ero timido triste solitario e depresso, condizione che col tempo e la musica alternativa andò peggiorando. Ricordo un disco (vinile) dei That Petrol Emotion, Manic Pop Thrill, ne parlava enormemente bene Rockerilla, forse Alessandro Calovolo buon'anima o chissà chi, magari lo stesso Sorge, mi piacerebbe ricordarlo o riscoprirlo. Vorrei anche ricordare come si chiamasse quel giornalista fan di Pink Floyd e Neil Young, dei quali scriveva monografie argute. Mi piacerebbe sfogliare le vecchie riviste rockerille, se mia madre approfittando di un mio attimo di distrazione e allontanamento non mi avesse un giorno cestinato tutto quanto, tutte le riviste che tenevo in uno scatolone. Ah, tutti quei giornaletti, oh beh li ha portati papà alla piazzola, caro.

Nei giornaletti c'era anche questo disco dei That Petrol eccetera che comprai al Discotto, appunto. Era estate poco prima delle ferie, faceva caldo eccetera e ricordo che lo comprai dopo aver fatto di nuovo il giro di tutto il negozio, che già conoscevo a memoria, per altro. La sezione novità piazzata accanto al banco del dj capellone e poi la sbarra di ferro all'uscita e la cassa in fondo e poi tutte le pile di dischi che avevo spostato e manomesso varie volte, castoro (cit.) con la testa abbassata sulle copertine e le orecchie in fiamme, dimentico di tutto. Sullo sfondo c'era il mostro dei cd, una costruzione di vetro e metallo che conteneva le creature. Al mostro mi avvicinavo solo di rado e in punta di piede e solo dopo aver perlustrato da cima a fondo l'intero universo vinilico retrostante. Mostro che ho sempre vomitato, maledicendolo: tempo un paio d'anni e scompare, non capisco perché si deve pagare per ricomprare la musica che si ha già, non sfonderà mai, costano come li occhi de la testa, mi dicevo. Più o meno le stesse cose che penso oggi dell'e-book e la cosa mi mette una drammatica sottile angoscia, ma ne riparleremo in occasione del prossimo Book Store Day. Continuavo a impilare vinile, col tarlo però che mi rosicchiava le orecchie: metti che prenda piede il cd, che me ne faccio dei dischi. Ora, con l'immateriale, il problema nemmeno si pone. Formidabili, quegli anni (?).

La sto facendo lunga. Compro questo disco dei TPE, lo porto a casa, lo scarto, sapete la sacralità dello scartamento, e già mi pare che ci sia qualcosa che non va. E in effetti non va, è deforme, lo si vede a occhio nudo. Mi dico fa niente, tutto si aggiusta. Lo metto sul piatto, lo faccio girare e vedo l'inesorabile effetto onda del vinile deforme; appoggio lo stesso la puntina, ma il disco è talmente deforme che me la fa saltare su. Ora, sestosangiovanni non era proprio dietro casa e io ci andavo di norma il sabato. Rimando, dunque, con lo speciale scoramento che provi quando una cosa agognata si sfrantuma in merdina: non mi importava degli altri tre dischi che avevo in borsetta, no, quel TPE deforme mi rovinava il pomeriggio, la serata, la settimana. Disperato, decido di metterlo tra due dizionari e calcarci sopra un'alt(r)a pila di libri, lo lascio a marinare per qualche giorno, poi lo riapro, faccio il segno della croce, ma niente da fare. Come lo metto sul piatto, riprende a saltare e la puntina quasi si stacca. Nero fumo, snort.

Il sabato successivo ritorno al Discotto, ma il proprietario non c'è. Al suo posto, il padre anziano, a me (e a tutti) già noto. Quel padre anziano coi capelli corti grigi e il naso grande e rosso che seduto alla cassa ogni tanto gironzolava. Metteva a posto gli scaffali e sbuffava perché gli scaffali non erano mai come avrebbe voluto che fossero, un ordine misterioso noto solo a lui medesimo. Sempre con l'aria di chi schifasse noi poveri pervertiti depressi che giravamo come tossici a caccia della nostra dose di underground a buon mercato, occhi e capelli bassi verso il pavimento. Questo padre che mentre gli dico, il disco è difettoso, alza le mani al cielo e fa, io non ne so niente deve parlare con mio figlio che torna tra una settimana. Balbetto nel mio timidume ma guardi è evidente glielo faccio vedere guardi qui. E lui, io non posso cambiare niente non so niente, fa.

Rimetto il disco nella busta. Faccio un giro nel negozio, ma è come se guardassi gli scaffali di una farmacia. Tengo gli occhi ancora più bassi, ricontrollo per l'ennesima volta il prezzo del doppio di Beefheart (sì, era Trout Mask Replica) e ancora non lo compro. Decido che è finita, non compro niente e me ne vado. Poi seguono le mie, di ferie, vado al mare, dimentico il disco e a Settembre non ho più cuore di riportarlo al negozio. Anzi, nei ricordi credo che questo episodio spezzi per sempre l'idillio tra il sottoscritto e il Discotto. Ci torno forse ancora un paio di volte, ma compro solo dischi sbiaditi, un Playn Jayn neo-psichedelico che fa cagare e una compilation mal registrata di quel gruppo di cui non mi ricordo nemmeno il nome, e alla fine cambio spacciatore.

Music is the antidote
to the world of pain and sorrow


Così cantava Robyn Hitchcock qualche anno fa e dio buono quanto aveva ragione. Poi, se è vero che la rivoluzione non è mai cominciata in un negozio di dischi, è solo perché, noi, nel negozio di dischi eravamo impegnati in cose ben più serie.

 

 
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