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« Er primo giorno de QuaresimaMi' padre me diceva »

Luigi Alamanni

Luigi Alamanni
(1495-1556)

Sonno, che spesso con tue levi scorte

Sonno, che spesso con tue levi scorte
scioi da me l'alma peregrina e snella
e la ne porti desiosa a quella
che la fa ne' suoi danni ardita e forte,

poi che sol nel tuo regno ha dolce sorte,
menane omai l'oscura tua sorella,
ché s'altrettanto ben si truova in ella,
nullo stato gentil s'agguaglia a morte.

Allor non temeria che 'l nuovo sole
sgombri i suoi beni e turbi ogni sua pace,
o la ritorni in questo carcer cieco.

Lungamente vedria quanto le piace,
sempre udiria l'angeliche parole,
che piú dolce saria che l'esser teco.

Luigi Alamanni



Notturno dio ch'al gran silenzio oscuro

Notturno dio ch'al gran silenzio oscuro
dal suo terrestre vel l'alma disciogli
e la fai dimorar dov'a te piace,
poi la ritorni al rischiarar del giorno,
a' miseri mortai dal ciel non venne
(se conoscesser ben quel che tu vali)
piú bel, piú dolce e piú soave pegno
di te, che tanto puoi quanto t'aggrada.
Tu sol puoi ristorar le membra stanche
e render forza agli affannati spirti,
che senza 'l tuo valor sen vanno a morte.
Non può star senza te cosa mortale,
e la natura pur se stessa ancide
senza soccorso aver dal tuo gran regno.
Ma quel ch'è piú: tu sol puoi far beato,
e mal grado d'altrui, qual uom piú sia
miseramente da Fortuna oppresso.
Qual scettro, qual onor, qual gemma ed auro
son possenti a sgombrar l'ardenti cure,
i pungenti desir, l'accesa sete
che ci fan traviar dal dritto calle?
Quello è dei servi suoi suggetto e servo,
che ha di segno real le tempie ornate,
quell'altro ne' trionfi e nelle spoglie
quanto piú in alto va, piú, d'ora in ora,
gli va in alto 'l desir, che tanto sale
che con danno e sudor gli adduce 'l fine;
quell'altro in posseder terre e tesori
pensa bramar la scelerata fame
che, piú pascendo, in noi piú pasto agogna.
Non saggio ricordar, non dotto esempio,
non certa pruova pon mostrarne 'l vero,
tal che chi punto sia da questi strali
possa al dritto sentier drizzar la mente;
tu sol puoi richiamar, notturno dio,
i fallaci pensier' dai danni loro
e riportargli in piú sicuro porto
dal periglioso mar ch'ei s'hanno eletto.
Tu, dolce Sonno, con tranquillo oblio
chiudi in un punto le miserie umane.
Non amor, non dolor, non sdegno od ira,
non speranza o timor, non povertate,
non invidia crudel, non mille sproni,
che sanza mai posar ne pungan l'alme,
possan lor forze oprar nel tuo bel regno.
Tu puoi solo adeguar l'inguista lance
d'impia Fortuna che qui dona e toglie
senza riguardo aver di tempo o loco.

Sotto 'l governo tuo son quello istesso
il superbo rettor d'arme e d'impero
e 'l semplice cultor di picciol orto.
Cosí felice è quel che viva fuore
d'ogni suo ben come colui che 'l goda,
e sovente adivien che fai beato,
coi dolci inganni tuoi, chi vive in doglia
e nel contrario suo contrario mesci.
Ben, lasso!, il so, che mi dimostri, ognora
che mi concede il ciel posarmi teco,
il mio caro tesoro ovunque sia;
la bella pianta mia quand'a te piace
veggio al mio sospirar dogliosa in vista,
e parlar meco in cosí dolci note
ch'io non ho invidia a chi possegga 'l vero.
O cara pianta mia, se voi sapeste
spesso che largo don mi fa di voi:
dir non saprei che piú si fusse allora,
o 'l vostro alto disdegno o 'l mio diletto.
Ben giuro a voi, per gli onorati rami
c'hanno in le frondi sue tutto 'l mio bene,
ch'io non l'oso pensar, non che ridire:
cosí m'estimo a tant'altezza indegno;
pur ne ringrazio 'l Sonno, e spesso il prego
che mi riduca a tal ch'io veggia come
il bello Endimïon fu già beato.
Poi, ripensando a voi, tanta m'assale
riverenza e timor che ben vorrei
potermi ripentir, ma se gli è fallo
accusaten'Amor, ch'a dirne 'l vero
nuovo desir, non penitenza, adduce.
Almo, notturno dio, chi non t'adora,
chi non ti brama ogni or ben torto vede
e mal sa ragionar dei frutti tuoi.
Corregga pur chi può cittadi e imperi,
conduca pur chi può l'armate squadre,
cerchi chi vuol che sia natura e 'l cielo,
aduni pur chi vuol gemme e tesori,
che s'io ti debbo odiar sien da me lunge
regni, trionfi, onor', ricchezze e quanto
il vulgo infermo scioccamente agogna.
Né pur vorrei della mia intera etate
che, s'ei sapesse 'l ver, direbbe meco
o che vita immortal sia tua sorella,
o che dolce è morir piú d'altra vita.
Che può di piú donar nei lieti campi,
ove chi vuol andar trapassa Lete,
Giove a color che gli onorati ingegni
drizzar vivendo a la glorïosa lode?
Che può di piú sentir l'invitto Alcide,
che di piú 'l forte che d'intorno a Troia
fece piú sol che tutti gli altri insieme?

Non han tanta là giú dolcezza e pace
Anchise e 'l figlio, e chi solcando 'l mare
fece troppo aspettar la casta sposa
quand'io talor che mi dimoro teco,
Sonno gentil, che mi ritogli a morte
e mi conduci a piú tranquilla vita
che si possa gustar (la notte almeno).
Ivi non han poter gli sdegni e l'ire,
non l'altere sembianze e 'l crudo orgoglio,
ligura pianta mia, c'han fatto spesso
l'ardenti voglie in me di ghiaccio e pietra;
ivi non mi pon tôr montagne e fiumi
il voi sempre mirar, né forza avete,
o superbo Apennin, Varo e Durenza,
di furar tanto bene agli occhi miei,
né mi convien per ritrovarla gire
tutto 'l liguro mar cercando e 'l Gallo,
con mio tanto sudor, tempo e periglio,
ch'ivi un momento sol mi porta a lei
e la mi fa sentir qual io piú bramo.
Notturno dio, cosí durasse eterno
l'esser con teco e mai non fusse l'alba,
o tu del sol non paventassi i raggi
com'io, stando lontan, te solo adoro,
te sol chiamo ad ogni or, te vorrei solo
aver compagno ai miei tormenti e guida
fin che m'adduca 'l ciel dove Durenza
di quel ch'io piango qui s'allegra in seno.
Ma s'io la veggo un dí, ti prego allora
che mi torni 'aspettar tra l'onde d'Arno,
che quand'io sono ov'è la pianta mia,
chi mi chiude il veder m'ancide e strugge.

Luigi Alamanni

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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