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« Niccolò Amanio (Note bio)All'Esimio Poeta e letterato... »

Ad Amalia Bottini...

Ad Amalia Bottini Minardi gentil donna in Bologna

EPISTOLA

Quando vi arrivi questo mio strambotto,
Voi, dopo un atto o due di maraviglia,
Correrete alla firma che sta sotto.

E vi vorrete stropicciar le ciglia
Per dirvi certa che la sia di mano
Del vecchio amico di vostra famiglia.

Di quello attrito moccicon romano
Che santamente ognor vollevi bene
Come far deve ogni fedel cristiano;

E appena vi udì poi stretta in catene
Di fior conteste e d' oro in filigrana,
Si sentì confortar tutte le vene.

Sonmi quel desso, o mia dolce sovrana,
Che a prosciogliervi vengo dal sospetto
Ch' io non fossi in balìa della befana.

Che pensato di me, che avrete detto
Mentre io scorrea tacendo i mesi e gli anni
Contro ogni norma di civil rispetto!

Giurar lo si potria pel Pretejanni
Siate corsa a final conclusione
Ch'io mutassi di cuor come di panni.

Questa sentenza ah troppo in giù mi pone!
Pur, pel misfatto' mio, la riconosco
Entro i termini esatti di ragione.

Ch' io ben rammento com' io tacqui vosco
Sin dacchè, fatta sposa, mi scriveste
Dalla vostra campagna in Calamosco.

Ed io mi vi mostrai ruvido e agreste
Col rendervi silenzio quinquennale
A tante care parolette oneste.

Errai, peccavi nimis, feci male;
Ma più assai che di cuor mancai di senno,
E più che prigionia merto spedale.

Per carità di Dio, fatemi cenno
Che vagliami speranza di perdono;
O dall' Albo de' vivi io mi dipenno.

Siavi modello la clemenza in trono:
E pensate che siamo in Cristiania
Ove si assolve un uom supplice e prono.

Intendiamcela adesso, Amalia mia.
Io v' aprirò i recessi del mio cuore
Sì che tutto veggiate che ci sia.

Quel dì che della Posta il ser fattore
Lasciommi a 'casa il vostro ultimo foglio
Tutto pieno di grazia e buono umore.

Provai nel petto un pungolo d'orgoglio
Più che se avesse il popolo voluto
Coronarmi poeta in Campidoglio.

Tutto lo lessi col divino aiuto,
E dentro vi trovai nèttare in copia
Da èmpierne le botti collo imbuto.

Dal color suo di malva e d'elitropia
Mutossi intanto il mio volto, qual fosse
Infardato di minio o di sinopia.

Rosse le guance, e rosso il naso, e rosse
Le orecchie entrambe, e insiem rossa la fronte,
Cotanto il sangue vi affrettò sue mosse.

E questo accadde per lo udirmi conte
Vostre fortune in braccio all' imeneo,
Donde spicciovvi di delizie un fonte.

Poi chi detto l' avria mi fessi reo
Del costume di quello onde fu tratta
La mascella fatale al filisteo!

Ma io pensai che a lettera siffatta
Altrettale si avesse a contrapporre
Per mettere fra lor come una epatta.

E ne venni in sul ticchio di comporre
Un tal-qual capo-d' opera di stile
Da levarmi oltre i merli d' una torre.

E lì a darmi di pugna e di staffile,
Lì a succhiarmi il cervello onde far macca
Di tal frasario che non fosse vile!

Però fur baie: che la mente stracca
Per certa sua vigilia antipoetica
Mi rispondea pur sempre alla bislacca.

Confondea colla estatica la estetica,
Prendea per Bonifacio un beneficio,
E scambiava la fisica per l' etica.

Io mi trovava allora in certo uficio,
Angustiato e ristretto al par del fiume
Sotto i ponti di Cestio e di Fabricio.

Sorgeva appena il Sol per farci lume,
E io, vestite le mie brache in fretta,
Mi strascinava al solito costume.

E in fondo a un bucolin di cameretta
Gemea fra memoriali e protocolli
E carta schiccherata e carta netta.

Ed ivi coi capegli or irti or molli
Durava in agonia, tanto che l' ora
Fosse arrivata che assopisce i polli.

Poi la dimane alla novella aurora,
Ci facevam da capo a quelle gioie,
E così l'altra appresso e l'altre ancora.

Io mi sentia fra' piè certe pastoie
Da non dover più mai movere un passo
Fuor che tra il guazzo di cotante noie.

Come potea sì sdilinquito e lasso
Levar l'ingegno mio, donna cortese,
Del Boccaccio a' cacumi e a quei del Tasso?

Fatto pagar mi avreste e danni e spese
S' io vi venia davanti colla boria
Di farla al Sorrentino, e al Certaldese.

Questa è di me la genuina istoria:
Io non m' era signor dell' intelletto,
Pur serbando il volere e la memoria.

Quindi aspettar dovea tempo più schietto
Che mi rendesse qualche lena ed agio
Per ragionarvi con più degno effetto.

Ma il tenor della vita in quel disagio
Le fonti avvelenò di mia salute,
E me ne andava in fumo adagio-radagio.

Scemo si ne restai d' ogni virtute
Ch' io pareva un tesor di notomia,
Ricco, dal capo al piè, d' ossa e di cute,

O di quei che moderna bizzarria
Disegna tisicuzzi e trafilati
Quando vuol darvi il mondo in parodia.

Credendo allor miei giorni numerati,
I superior che mi fornian la paga
Posermi nel libron de' giubilati.

Pur, la costoro idea fu mal presaga;
Perch'io, grazie al benefico riposo,
Pian-pian sentia saldarsi ogni mia piaga.

E già pareami un anno venturoso
Quell' ottocenquarantacinque in cui
A riva mi recai pesto e corroso.

E stimando finiti i giorni bui,
Dissi al figliuol: Chè non facciam viaggio?
E ben volea peregrinar con lui.

Aspettavam del Sol tiepido il raggio,
Per aver dì migliori alla bisogna
Tra il fin d'aprile e il cominciar di maggio.

In cima a' miei disegni era Bologna,
Per rivedervi e dimandarvi pace,
E sì purgarmi della mia vergogna.

Ma ciò invan si desia che al ciel non piace!
Ecco addensarsi turbinosa e roggia
L'aria pe' soffi di Garbin vorace.

Giù per l' umbre vallee torbida pioggia
Mugghia in torrenti, e la gragnuola cade
Qual grano al tentennìo de la tramoggia.

Effigie non han più campi ne strade;
Ed ahi! scorrendo la brumal tempesta
Il piccol censo del mio figlio invade!

L'onda prorompe in quella parte e in questa,
E come non fer mai zappa o badile,
Fende, apre e scalza, e dall' urtar non resta.

Dove si vide un martellar simile?
Parea Natura un villanzon gagliardo
Che menasse la vetta e il manfanile.

Ugual procella mai non colse il Bardo
Fra le rupi di Scozia, o il pellegrino
Sullo Spluga nevoso o il San-Bernardo.

Addio frutta e legumi, e pane e vino!
Addio cavoli e olio, addio pollastri!
Addio cacio e porcèi, canape e lino!

Ah! dopo il tocco di sì rei disastri
Ite, Amalia, a non esser persuasa
Di scaldarvi il caffè coi libri-mastri!

Animali e ricolti, alberi e casa,
Tutto, amica, andò a fascio in quel frangente,
E divenne il poder tabula rasa.

Che avreste fatto voi saggia e prudente?
Pensato avreste a noleggiare il cocchio?
Quello era tempo di pensare al dente.

Tergendomi una lagrima dall' occhio
Sviai dunque ogn' idea del picciol Reno,
Come vi avviso in questo scarabocchio.

Potuto avessi ravviarla almeno
Nella annata dipoi! ma, o buona amica,
Punsemi in quella un peggior dardo il seno.

Di quel nôvo flagel tedio e fatica
Mi sa il racconto: eppure in due parole
Vel dirò se volete che vel dica.

Il dolce figliuol mio, l'unica prole
Di cui donommi il ciel, parve in quell'anno
Dover per sempre chiuder gli occhi al Sole.

Qui lascio a voi del mio paterno affanno
Senso e pittura: io son pur vivo, e basti
Per farvi fede che non n' ebbi il danno.

Ben cinque lune andâr dubbi i contrasti
Fra la morte e la vita; e pel mio cuore
Fur cencinquanta dì tutti nefasti.

Per tanti il corso del letal malore
Tennemi, Amalia, in un pensier sospeso,
In un solo pensier: muore e non muore!

Ma se il ciel volle che ne uscisse illeso,
Venga or la povertà, non mi spaventa:
Or Lucullo io mi estimo, Attalo e Creso.

Se il figlio è vivo, ogni mia noia è spenta.
Fra gli agi e lo splendor, fra gli ori e gli ostri,
Non sempre, Amalia mia, l'alma è contenta.

Adesso che i miei casi hovvi dimostri,
Adesso che v'ho detto i fatti miei,
Discorriamola un po' de' fatti vostri.

Tante cose di voi saper vorrei,
Che, a noverarle, mi vedrei ridutto
A sommarvi i signati degli ebrei.

E non mi rispondete asciutto-asciutto,
Toglietevi di bocca il chiavistello,
Dite il più, dite il men, ditemi tutto.

Parlatemi del vostro Raffaello,
Che mi saluterete tanto tanto
Poi che diceste ch' è sì buono e bello.

Nè vi scordate di notar se intanto
Ch' io mi tacea vi nacquero bambini
A dirvi mamma e a folleggiarvi accanto.

Poi fra più cari che vi stan vicini,
Di madonna Lucrezia e della Cecca
Datemi conto per mille zecchini.

E siate cauta di non farmi pecca
S' io metto a lor novelle un prezzo d' oro,
Poi che son quelle donne oro di zecca.

Voi ben sapete ch'io l'amo e le onoro
Quanto amo e onoro voi: perciò desio
Salvo sempre il lor debito decoro.

Giunto alla fin de lo strambotto mio
Piglio la ceralacca e accendo il fuoco
Ed in far ciò vi raccomando a Dio,

E, dopo Iddio, vi raccomando al cuoco.

Giuseppe Gioachino Belli
2 febbraio 1847

Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 55-65

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
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