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« Parla come magniLi vanni »

Giovanni Guidiccioni 6

XXI
Di M. Giovanni Guidiccione

62

Se ’l tempo fugge e se ne porta gli anni
Maturi e ’n erba e ’l fior di nostra vita,
Mente mia, perché tutta in te romita
Non antivedi i tuoi futuri danni?

Dietro a quel fiero error te stessa affanni
Che sospir chiede a la speranza ardita;
Scorgi omai il ver, ch’assai t’hanno schernita
Or false larve, or amorosi inganni,

E fa’ qual peregrin che cosa vede
Che piace, ed oltre va, né il desio ferma
Lungi dal nido suo dolce natio.

Mira qui il bel che l’occhio e ’l senso chiede,
Ma passa e vola a quella sede ferma
Ove gli eletti fan corona a Dio.


63

Chi per quest’ombre de l’umana vita,
RUFIN mio, spazia in compagnia di questi
Duri avversarii di desiri onesti
Che n’avean cara libertà rapita,

Se col cor queto e con la vista ardita
Talor non mira gli splendor celesti,
Cade tra via: tu ’l sai, che mentre desti
Gli anni a vil cura ne l’età fiorita

Giacesti infermo; ed io, mentre che ’n pene
Sott’altrui scorta i miei cieco menai,
Più volte in van gridai la mia salute.

Volsi con quel pensier che reca spene
Di vero ben, che non si cangia mai,
Il bel lume cercar de la virtute.


64

TEOLO gentil, s’al ver dritto si mira,
Per l’erto calle a vera fama vassi
Ove tu muovi i giovinetti passi
E dove aura d’onor sì dolce spira.

Gli anni spesi in mal uso in van sospira
Ed a’ bei raggi de la gloria fassi
Tepida neve il mio cor, sì che i bassi
Desir vincendo al buon sentier mi tira.

Ma già cade al suo fin quest’egra vita,
Né picciol tempo ornar mi poria il petto
De’ pregi bei che tu tra via t’acquisti;

Piacciati, poi che ’n cima a la salita
Giunto sarai, pien di cortese affetto
Torre a morte i miei giorni oscuri e tristi.


65

Traggeti a più bel rio l’ardente sete
Salendo sovra il cerchio de la Luna,
Alma, che corto vedi e senza alcuna
Speme d’onesto fin t’affondi in Lete,

E ti diporta per le sante liete
Contrade, ove non può morte e fortuna,
Sparso e negletto ciò che ’l mondo aduna,
E sciolta e rotta l’amorosa rete

Dove s’intrica il cor, dove s’annoda,
E dove grida nel morire aita,
E là ’ve gli occhi miei fan largo fiume.

Fa’ che nel tuo partir di te non goda
L’empio avversario ch’a peccar n’envita,
Che tempo è di ritrarsi al vero lume.


66

Duo lustri ho pianto il mio foco vivace
Che fa cener del cor, preda di quelle
Parti de l’alma sempiterne e belle
Che dee sol infiammar divina face.

Se la tua santa man, Signor verace,
Che coronato stai sopra le stelle,
Lo stral che sì l’accese indi non svelle,
Come avrò saggio de l’eterna pace?

Come a te ne verrò? Come qui mai
Ti darò grazie di sì larghi doni,
Che doveano affidar la mia speranza?

Il duro scempio e le mie colpe omai
Rimuovi e monda tu, né m’abbandoni
Quella pietà ch’i nostri falli avanza.


67

Al bel Metauro, a cui non lungi fanno
Servi devoti a Dio romito seggio,
A i boschi, a i vaghi prati eterno deggio,
Poiché a l’ingiuste brame esilio danno.

Qui dove l’odio è vinto e muor l’inganno,
Il bel de’ sacri studi amo e vagheggio,
Spio lo mio interno, e quelli error correggio
Ove m’avolsi è già l’undecim’anno.

Non son da i crudi ed affamati morsi
De l’invidia trafitto, e quella maga
Non può cangiarmi il volto e la favella,

Maga perfida e ria, cui dietro corsi
Incauto: or l’alma del suo fin presaga
Ritorna in signoria dov’era ancella.


68

Per me da questo mio romito monte,
Men noioso e più bel che ’l Vaticano,
Scende rigando un bel pratello al piano,
E muor nel Serchio indi non lungi un fonte.

Qui prima piansi mie sventure e l’onte
Di morte, ohimè, che lo splendor sovrano
De gli occhi miei del mondo orbo ed insano
Spense in turbando la serena fronte.

Or in memoria del mio pianto amaro
E di lei, che beata è tra le prime,
Sorge questo ruscel soave e chiaro.

Cingol di lauri, e forse un dì le cime
Piegheranno al cantar del mio buon CARO,
Mastro famoso di leggiadre rime.


69

Apra e dissolva il tuo beato lampo,
O Sol di grazie, queste nubi folte,
Che nanzi a gli occhi de la mente accolte
Chiudommi il passo de l’eterno scampo.

Se ben del foco tuo talora avampo
E pentito vers’io lagrime molte,
E ’ntorno a le speranze vane e stolte
Il forte stuol de’ pensier saggi accampo,

Tosto vien poi chi sol con un bel giro
Di duo lumi raccende altro desio,
E sovra l’alma vincitrice stassi.

Debile e ’n forza di quel falso e diro,
Che pur m’insidia ancor, come poss’io
Drizzar a te senza il tuo aiuto i passi?


70

O messaggier di Dio, che ’n bigia vesta
L’oro e i terreni onor dispregi tanto,
E ne i cor duri imprimi il sermon santo
Che te stesso e più ’l ver ne manifesta,

Il tuo lume ha via sgombra la tempesta
Dal core, ove fremea, da gli occhi il pianto;
Contra i tuoi detti non può tanto o quanto
De’ feri altrui desir la turba infesta.

L’alma mia si fe’ rea de la sua morte
Dietro al senso famelico, e non vide
Sul Tebro un segno mai di vera luce:

Or raccolta in se stessa invia le scorte
Per passar salva, e s’arma e si divide
Da le lusinghe del suo falso duce.

71

A quei ferventi spirti, a le parole
Che quasi acuti strai dentr’al cor sento,
Scaldo i freddi pensier e lor rammento
Quanto talor in van da me si vòle.

Levansi allor ardenti al sommo Sole,
Che tutto scorre e vede in un momento:
Servo fedel di Dio, quel che divento
Allora è don de le tue voci sole.

Che non sì tosto ne’ bei rai m’affiso
Ch’io scorgo il ver che qui l’ombra ne vela,
E quel tanto son io per te beato.

S’aggelan poi, ma tu, cui solo è dato,
Spesso gli ’nfiamma, e lor mostra e rivela
Gli ordini occulti e ’l bel del Paradiso.


72

O sante figlie de l’eterno Sire,
Fede, Speranza e Carità, ch’avete
Spesso assalito il core, or pur sarete
Vittoriose del suo folle ardire.

Fuggesi già l’antico uso e ’l desire,
Che non può cosa indegna ove voi sete;
Già fra le schiere de’ beati liete
La vertù vostra mi si fa sentire,

Sì dolce adorna il Dicitor celeste
I vostri merti, e sì nel vostro foco
Le sue parole e lo mio spirto accende.

De le repulse che vi diè moleste
Il cor, ch’ardì soverchio e vide poco,
Duolsi e v’inchina con devote emende.


73

Il verde de l’età nel foco vissi
E punse il cor sol amorosa cura,
Poi nacque altro desio, per la cui dura
Legge a me stesso libertà prescrissi.

Quanto carco d’error e vil men gissi
Chiaro il veggio or ne la mia fama oscura:
Volea, purgati in questa età matura
I pensier ch’io tenea nel fango fissi,

Tanto appressare a le faville vive
Di gloria il nome mio ch’avesse lume,
Come molt’altri ancor, poi ch’io sia spento.

Ma già Morte il mio dì nel ghiaccio scrive,
E rammentar dal divin Sol mi sento
Ch’altro splendor del suo più non m’allume.

Giovanni Guidiccioni
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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