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Giovanni Guidiccioni 3

XXI
Di M. Giovanni Guidiccione

22

Anima eletta, il cui leggiadro velo
Diè lume e forza al mio debile ingegno,
Mentre a gli strali di pensier fu segno
Che così casti ancor per tema celo,

Scendi pietosa a consolar del cielo
Le mie notti dolenti, ch’è ben degno,
Poiché sì amara libertà disdegno
E ’l cor già sente de l’eterno gielo.

Solei, pur viva, in sogno col bel volto
E con la voce angelica gradita
Partir da me le più noiose cure.

Deh perché, poi che morte ha ’l nodo sciolto
Che strinse lo mio cor con la tua vita,
Non fai tu chiare le mie notti oscure?


23

Come da dense nubi esce talora
Lucido lampo e via ratto sparisce,
Così l’alma gentil, per cui languisce
Amor, s’uscìo del suo bel corpo fora.

Seguilla il mio pensiero, e la vede ora
Che con l’eterno suo Fattor s’unisce,
E mia casta intenzion pregia e gradisce,
E co’ suoi detti la mia fede onora.

Io rimasi qua giù ministro fido
A por ne l’urna il suo cenere santo
E far de gli almi onor publico grido.

Or le mie parti con pietà fornite,
Sazio del viver mio, non già del pianto,
Aspetto ch’ella a sé mi chiami e ’nvite.


24

Poi che qui fusti la mia luce prima
A dimostrarmi aperto e nudo il vero,
E festi ardente il tepido pensiero
Ch’un’ombra pur di ben non vide imprima,

Or che Dio in cerchio de’ beati stima
E premia i merti del tuo cor sincero,
Apri a l’alma i secreti di quel vero
Regno, e l’aita ivi a salire in cima;

Che salirà, sol che tu dica a lui:
"Signor, quest’alma a i desir casti intenta
Fu per mio studio giù nel mondo cieco;

Io de’ suoi bei pensier ministra fui,
Ed io ti prego umil che le consenta
Ch’eterno goda di tua vista meco".


25

Deh vieni omai, ben nata, a darmi luce
De le cose del ciel ch’aperte vedi,
Or che sì presso a Dio sì cara siedi
E sì vagheggi la sua eterna luce.

Dimmi in che guisa quel supremo Duce
Le corone dispensi e le mercedi,
Conta i tuoi gaudi ed al mio duol concedi
Requie ed oblio, poi ch’a morir m’induce:

Acciò che l’alma a cui già vita desti
Senta del vero bene e si consoli,
Afflitta, udendo il tuo dir dolce e pio.

Tutta in se stessa poi, spezzando questi
Ritegni umani, a te sì lievi e voli,
Finita la sua guardia e ’l pianto mio.


26

A quel che fe’ nel cor l’alta ferita,
Soavissimo stral, chieggio perdono
Se de gli occhi ond’uscìo più non ragiono,
E se d’altra beltà l’alma è invaghita.

Poi che lor luce e mia speme infinita
Morte empia spense, e ’l suo più caro dono
Chi ce ’l diè si ritolse, in abbandono
Diedi al dolor la mia angosciosa vita,

Le cui spine pungean l’anima tanto
Che non scerneva il suo sereno stato
E chiudeva a se stessa il camin santo.

Die’ loco a nuova fiamma, onde lentato
Il duol acerbo e scosso il mortal manto
Vengo ove sei talor lieto e beato.


27

Saglio con l’ali de’ pensier ardenti,
Che ’l nuovo foco mio forma ed accende,
Là ’ve ’l cener del tuo, ch’altrove splende,
Anzi il vivo dolor gli avea già spenti.

Saglio a’ cerchi del ciel puri e lucenti,
Ove i suoi premi il tuo bel viver prende;
Quivi ti veggio e quivi i desir rende
La tua divinità queti e contenti.

Ben dèi tu a lei, che spesso a te m’envia
Scevro dal duolo e da le cure vili,
Render grazie dal ciel, non pur salute;

E dirle che quaggiù guida mi sia,
Mentre che cerchi tu coi preghi umili
Impetrar dal tuo Sir la mia salute.


28

Com’esce fuor sua dolce umil favella
Tra le rose vermiglie e tra i sospiri,
Che fan, come aura suol che lieve spiri,
La fiamma del mio cor più viva e bella,

Amor ne’ miei pensier così favella:
"Accendi, fedel mio, tutti i desiri
Nelle sue ardenti note, e co’ martiri
Cangia la cara libertà novella.

Non odi tu più che d’umana mente
I detti che pietà lieta raccoglie
Per vestirne virtù che nuda giace?

Non vedi tu il suo cor che non consente
Al tuo morir, ma ne’ sospir che scioglie
Viene a temprar l’ardor che ti disface?".


29

O voi, che sotto l’amorose insegne
Combattendo vincete i pensier bassi,
Mirate questa mia, nanzi a cui fassi
Natura intenta a l’opre eccelse e degne;

Mirate come Amor inspiri e regne
In sembianza del Re che ’n cielo stassi,
Come recrei con un sol guardo i lassi
E ’l camin destro di salute insegne.
 
Sì direte poi meco, aprendo l’ali
Verso le stelle: "O felice ora, in cui
Nascemmo per veder cosa sì bella!".

Ma perché non ars’io, perché non fui
Pria neve a sì bel sol, segno agli strali?
Beato è chi la mira o le favella!


30

La bella e pura luce che ’n voi splende,
Quasi imagin di Dio, nel sen mi desta
Fermo pensier di sprezzar ciò che ’n questa
Vita più piace a chi men vede e ’ntende.

E sì soavemente alluma e ’ncende
L’alma, cui più non è cura molesta,
Ch’ella corre al bel lume ardita e presta
Senza cui il viver suo teme e riprende.

Né mi sovien di quel beato punto
Ch’ondeggiar vidi i bei crin d’oro al sole
E raddoppiar di nuova luce il giorno,

Ch’io non lodi lo stral ch’al cor m’è giunto
E ch’io non preghi Amor che, come suole,
Non gli incresca di far meco soggiorno.


31

Io giuro, Amor, per la tua face eterna
E per le chiome onde gli strali indori,
Ch’a pruova ho visto le viole e i fiori
Nascer sotto il bel piè quando più verna;

Ho visto il riso che i mortali eterna
Trar delle man d’avara morte i cori,
E colmar d’un piacer che mostra fuori
La purissima lor dolcezza interna;

Visto ho faville uscir de’ duo bei lumi
Che poggiando su al ciel si fanno stelle
Per infonderne poi senno e valore.

Arno, puoi ben portar tra gli altri fiumi
Superbo il corno, e le tue ninfe belle
Riverenti venir a farle onore.


32

Dicemi il cor, s’avien che dal felice
Albergo del bel petto a me ritorni:
"O graditi e per me tranquilli giorni,
Ove lungi da te viver mi lice:

Godo de’ suoi pensier, de la beatrice
Vista degli occhi e de’ bei crini adorni.
E se non ch’ella: -Omai che più soggiorni?
Vattene in pace al tuo signor, mi dice,

Che langue e duolsi di sua vita in forse -,
Io trarrei nel suo dolce paradiso
Beati i dì, non che sereni e lieti".

"Dille", rispond’io alor, "se mi soccorse
Col proprio cor quand’io rimasi anciso,
Ch’è ben ragion che senza te m’acqueti".


33

Visibilmente ne’ begli occhi veggio,
Ne gli occhi bei dov’Amor vive e regna
Sì che Cipri gentil dispreggia e sdegna,
Starsi il mio cor come in suo proprio seggio.

Ivi del bel s’appaga, e ben m’aveggio
Che tornar meco ad abitar non degna,
Ma in disparte da lui viver m’insegna,
E quel ch’oprar per lo mio scampo deggio.

Io, che gradisco i suoi lunghi riposi,
E spero i miei, li prego indugio e vivo,
Né so dir come, in securtà d’Amore.

Sollo io; ma in seno ho i miei desir nascosi
E le dolci speranze e ’l piacer vivo:
Felice è ben chi nasce a tanto onore!

Giovanni Guidiccioni
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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