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« Quanno ridete...Il Novellino 8-15 »

Francesco Maria Molza 2

XVI

Di M. Francesco Maria Molza

11

Da la più ricca vena il più pregiato
Oro ritrova, e da’ più colti e lieti
Orti le rose, e puri gigli mieti
Dal più riposto e rugiadoso prato;

Questi insieme confusi ’l viso amato
Faran che in parte ornar non ti si vieti,
E ’l gran desir, saggio pittore, acqueti,
Che per sì alta cagion al cor t’è nato.

Indi cinamo e nardo, e ciò che pasce
Nel suo più vago ed odorato seno
L’unico augello, in darli spirto accogli.

Ma più tosto che ’l tuo ivi non lasce,
GIULIO, temo io, però che in quel bel seno
Mirar senza morir, Amor, ne togli.


12

Gli occhi leggiadri e di luce ebbri ardente
Che né fuggir, né sofferir son oso,
Allor ch’ogni mortal prende riposo
Al suon mi destan di sospir sovente.

E parmi esser talor sì a quei presente
Che men sento ’l martir farsi gravoso,
Poi trovo ogni esser mio sì loro ascoso
Che forza è che seguirli io mi sgomente.

Pur chiudo gli occhi e ’l vano error lusingo
Per aver qualche pace, infin che ’l mare
Il sol lasciando a noi col carro torni.

Non però solo una favilla estingo
Dell’adorno mio foco, o delle amare
Notti ritrovo più tranquilli i giorni.


13
Mentre me verso il bel gorgoneo fonte
Per non segnato calle invita spesso
Un possente desir ch’al cor s’è messo
Di girvi appresso con rime alte e pronte,

Non sia che la serena e vaga fronte
Più mi si nieghi, e sofferir da presso
Quegli occhi vaghi in cui si legge espresso
Com’altri al tempo faccia inganni ed onte;

Sol che mi porga questa speme ardire,
Mostrandomi talor di poca luce
Qualche scintilla, e mi si scuopra intorno,

Di farmi, spero, a tutto ’l colle udire
Con sì fervide note, alma mia duce,
Che invidia muova a più di mille e scorno.


14

Talor madonna folgorando muove
Ver me sì fiero e dispietato sguardo,
Ch’io dico: "S’al fuggir son pigro e tardo,
Amor vedrà di me l’ultime prove".

Ma poi mirando come alor mi trove
Infermo a sì possente e fiero dardo,
Raffrena ’l colpo di cui pero ed ardo,
Quel che de l’arme non avien di Giove.

Qual s’udrà mai sì scaltro e caro ingegno
Che in rime stringa non usate e rare
Ciò ch’a pena pensar meco son oso,

Ed alzi lei tanto al celeste regno
Che con sì chiaro essempio ’l ciel impare
D’esser nel mezzo ’l folminar pietoso?


15

Santa, sacra, celeste e sola imago,
Nella qual Dio se stesso rappresenta,
Ornar terreno stile indarno tenta,
Spesso mi dice un pensier scorto e vago.

Ma l’alma, che di ciò non d’altro appago,
Perché più volte sé delusa senta
Non so come fin qui non si sgomenta,
Pur quel seguendo ond’io mi struggo e impiago;

E vuol ch’io speri dal mortal diffetto
Cantando allontanarmi, e gir sì lunge
Ch’a lei possa piacer qualche mio detto.

O se per sorte là dove ella aggiunge
Di girle appresso non mi sia interdetto,
Beato ardir, ch’or mi lusinga e punge!


16

Donna, ch’ogni felice e chiaro ingegno
Con l’estrema di voi men degna parte
Stancar potete, ed all’antiche carte
Far con le nuove pur onta e disdegno,

Poiché ’l mondo d’amarvi non è degno,
Cui grave peso sì da voi diparte
Che ’ndarno tenta ogni sua forza ed arte
Per giunger sì riposto ed alto segno,

L’orme di Lui, ch’a suo diletto bella
Vi fece, che se stesso amando mira
E di sempre gioir seco non cessa,

Seguite, e con pietosa umil favella
Dite: "Più l’arco di costor non tira",
E sforzate i desir nostri a voi stessa.


17

Anima bella e di quel numer una
C’han fatto il secol lor vivendo chiaro
Di virtù, di valor, di pregio raro,
Quanto ’l ciel in mill’anni non aduna,

Già solei tu con vista assai men bruna
Consolar il mio stato aspro ed amaro,
Or mi ti mostri di pietà sì avaro
Ch’io porto invidia ad ogni rea fortuna.

Forse vuoi dirmi in cotal guisa: "Scrivi
La domestica fraude e il fier licore,
Di che ancor t’odo sospirar sovente,

O pur da i foschi ed inameni rivi
Volano i sogni temerarii fuore,
E d’error vani altrui empion la mente".


18

Torbida imago e ne l’aspetto scura
Pur mi ti mostri e di pietà rubella,
Spirto gentile, allor ch’arde ogni stella
E la notte le piaggie e i colli oscura.

L’alma del tuo gioir certa, e sicura
De la vita ch’or meni in ciel più bella,
Da sé discaccia vision sì fella
E poco larve sì mentite cura;

E membrando ch’omai volge il quinto anno
Che spinto dal tuo bel carcer terreno
Salisti al ciel con passi pronti altiero,

Si riconforta in così duro affanno,
E spera in breve entro l’empireo seno
Teco godendo avvicinarsi al vero.


19

Piangi secol noioso e d’orror pieno
Ed ogni senso d’allegrezza oblia,
Di valor nudo in tutto e leggiadria,
Orrido e fosco, già lieto e sereno,

Che ’n te venuto è sul fiorir pur meno
Quel chiaro germe che d’alzar tra via
Era gli antichi onor, la cortesia,
Che vivendo mai sempre egli ebbe in seno.

E tu, che visto pompa hai sì crudele,
Altiero fiume, sotto l’onde il crine
Ascondi, e ’l corso a’ tuoi bei rivi niega,

E tosco amaro in te rinchiudi e fele
Simile a quello onde con duro fine
Alma sì bella dal mortal si slega.


20

La bella donna, di cui già cantai
Sì novamente e con sì caldo affetto,
Cangiato ha in reo il suo leggiadro aspetto
Ch’armavan sì felici e vivi rai.

Io, che udir tuon giamai tal non pensai,
Perduto ho in un momento ogni diletto,
E di tal piaga offeso l’intelletto
Ch’altro non penso più che traer guai.

Al chiuder d’i begli occhi onesti e santi
Sparver d’Amor le gloriose insegne
Per colmarne d’eterni e duri pianti.

Alzovvi Morte le sue scure e indegne
Inanzi tempo: o rari e bei sembianti,
Chi fia che senza voi viver più degne?

Francesco Maria Molza
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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