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« Amore è un disio che...'A libbreria »

Il Malmantile racquistato 04-3

Post n°1765 pubblicato il 19 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

QUARTO CANTARE

56
Ripongo la nocciuòla e la castagna,
E rimetto le gambe in sul lavoro
Per una lunga e sterile campagna
Disabitata più che lo Smannoro (496).
Dopo cinqu'anni giunta a una montagna,
Mi si fe' innanzi un grande e orribil toro,
Che ha le corna e i piè tutti d'acciaio,
E tira, che correbbe nel danaio.

57
E come cavalier che al saracino
Corre per carnovale o altra festa,
Verso di me ne viene a capo chino,
Colla sua lancia biforcata in testa.
Io già colle budella in un catino
Addio, dicevo al mondo, addio chi resta;
Addio Cupído, dove tu ti sia,
A rivederci (497) ormai in pellicceria.

58
O mamma mia, che pena e che spavento
Ebbe allor questa mezza donnicciuola!
Tremavo giusto come un giunco al vento;
Chè quivi mi trovavo inerme e sola.
Pur, come volle il cielo, io mi rammento
Del dono delle Fate; e la nocciuòla
Presa per caso, presto sur un sasso
La scaglio; ella si rompe, e n'esce un masso.

59
Tal pietra per di fuori è calamita,
E ripiena di fuoco artifiziato.
Ormai arriva il toro, ed alla vita
Con un lancio mi ven tutto infuriato:
Ma perchè dietro al masso ero fuggita,
Il ribaldo riman quivi scaciato (498);
Chè in esso dando la ferrata testa,
In quella calamita affisso resta.

60
Sfavilla il masso al batter dell'acciaro,
E dà fuoco al rigiro (499) ch'è nascosto;
Ed egli, a' razzi ch'allor ne scapparo,
Un colpo fatto aver vede a suo costo,
Perchè non vi fu scampo nè riparo
Ch'ei tra le fiamme non si muoia arrosto.
Ed io, scansato il fuoco e ogni altro affronto,
Lieta mi parto e tiro innanzi il conto (500).

61
Più là ritrovo un grand'uccel grifone,
E topi assai che giran come pazzi,
Perch'egli, entrato in lor conversazione,
Gli becca, graffia e ne fa mille strazzi.
Di lor mi venne gran compassïone,
E vo per ovviar ch'ei non gli ammazzi;
Ma quei mi sente al moto, e in piè si rizza,
E per cavarsi vien con me la stizza.

62
Questo animale ha il busto di cavallo,
Di bue la coda, e in sulle spalle ha l'ale;
Il capo e il collo giusto come il gallo,
E i piè di nibbio vero e naturale;
Gli artigli di fortissimo metallo,
Grandi, grossi e adunchi in modo tale,
Che non vedesti, quando leggi o scrivi,
Mai de' tuo' dì i più bei interrogativi.

63
Son appuntati poi, che a far più acuto
Un ago altrui darebbe delle brighe;
Talchè, se al viso fossemi venuto,
Con essi mi lasciava assai più righe
D'un libro di maestro di liuto
E d'una stamperia di falsarighe,
Con farmi a liste come le gratelle,
Da cuocervi le triglie e le sardelle.

64
Or per tornare: in quel ch'io ho timore
Che 'l mio grifo sia scherzo del grifone,
La castagna, ch'i'ho in tasca, caccio fuore,
La rompo, e n'esce subito un lione,
Che mi scemò non poco il batticuore;
Perch'egli in mia difesa a lui s'oppone,
E mostrògli or coll'ugna ed or co' denti,
In che mo' si gastigan gl'insolenti.

65
L'uccello anch'egli, che non ha paura,
Gli rende molto ben tre pan per coppia;
Ma quel, che aver del suo nulla si cura,
Il contraccambio subito raddoppia;
E ben ch'ei voglia star seco alla dura,
L'afferra e stringe tanto, ch'egli scoppia;
Di poi garbatamente gli riseca
Gli stinchi su' nodelli e me gli reca.

66
Metto uno strido, e mi ritiro in dreto,
Io, c'ho paura allor, ch'ei non m'ingoi;
Ma quegli, ch'è un lione il più discreto
Che mai vedesse il mondo o prima o poi,
Ciò conoscendo, tutto mansueto
Gli lascia in terra, e va pe' fatti suoi.
Ed io gli prendo allora, essendo certa
D'averne aver bisogno in sì grand'erta;

67
Là dove non si può tenere i piedi,
Ma bisogna che l'uom vada carponi.
Perciò con quegli uncini poi mi diedi
A costeggiar il monte brancoloni:
E convenne talor farsi da piedi,
Battendo giù di grandi stramazzoni,
Perchè non v'è dove fermare il passo;
Cagion, che spesso mi trovai da basso.

68
Tutti quei topi via ne vengon ratti,
E furon per mangiarmi dalla festa;
Perocchè dalle granfie io gli ho sottratti
Di quella bestia a lor tanto molesta.
Così vo rampicando come i gatti
Sull'aspro monte dietro alla lor pesta,
Sopportando fatiche, stenti e guai,
E fame e sete quanto si può mai.

69
Pur finalmente in capo a due altr'anni
Giungemmo al luogo tanto desiato.
Ma non finiron qui mica gli affanni,
Perchè di muro il tutto è circondato;
E qui s'aggiunge ancor male a malanni,
Ch'io trovo l'uscio, ma 'l trovo diacciato (501).
Pensa se allor mi venne la rapina (502),
E s'io dicevo (503) della violina.

70
Ora tu sentirai, che 'l dare aiuto
A tutti quanti sempre si conviene;
Perchè giammai quel tempo s'è perduto,
Che s'è impiegato in far altrui del bene.
Non dico sol all'uomo, ma anche a un bruto
Che forse immondo e inutile si tiene,
E che tu non lo stimi anche una chiosa (504);
Perocch'ognuno è buono a qualche cosa.

71
Se tu giovi al compagno, allor tu fai
(Quasi gli presti roba) un capitale;
Anzi talor, per poco che gli dài,
Ti rende più sei volte che non vale.
Ma non si dee ciò pretender mai,
Perch'ell'è cosa che starebbe male;
Questo è un censo, il quale a chi lo prende
Richieder non si può, s'ei non lo rende.

72
Guarda s'ell'è così: io, per la mia
Pietà di prender di quei topi cura,
Da lor vinta restai di cortesia
E n'ebbi la pariglia coll'usura;
Perocchè in questa zezza ricadía (505),
Ch'io ho d'aver trovata clausura,
Eglino tutti sul cancel saliro
E si fermaro, ove è la toppa, in giro.

73
E gli denti appiccando a quel legname
Come se 'n bocca avessero un trapáno,
Presto presto vi fecero un forame,
Da porre il fiasco (506) e vendere il trebbiano;
Talchè, in terra cascando ogni serrame,
Spalanco l'uscio di mia propria mano
E passo dentro, e resto pur confusa,
Perch'ancor quivi è un'altra porta chiusa.

74
Ma parve giusto come bere un uovo
A' topi farvi il consueto foro.
E dopo questa a un'altra, e poi di nuovo
Infino a sette fanno quel lavoro;
Quando fra verdi mirti mi ritrovo,
Che fan corona a una cassa d'oro,
Ch'è a piè d'un tempio ch'è dipinto a graffio (507),
E a prima faccia tien quest'epitaffio:

75
Cupído Amor, che tanti ha sbolzonato,
Bersaglio qui si giace della morte:
Ei, ch'era fuoco, il naso ora ha gelato,
Se i cuor legò, prigione è in queste porte.
Hallo trafitto, morto e sotterrato
Quella cicala della sua consorte;
Nè sorgerà, se pria colma di pianto
Non sarà l'urna che gli è qui da canto.

76
Non ti vo' dire adesso, se in quel caso
Mi diventaron gli occhi due fontane,
E feci come chi s'è rotto il naso,
Che versa il sangue e corre al lavamane.
Così cors'io a piangere a quel vaso,
Durando a lagrimar sei settimane;
E per aver quel più voglia di piagnere
Mi diedi pugna sì, ch'io m'ebbi a infragnere.

77
Quando veddi ch'egli era poco meno
In su che all'orlo ed esser a buon porto,
Volli, innanzi ch'e' fosse affatto pieno
E che 'l marito mio fosse risorto,
Lavarmi il viso e rassettarmi il seno,
Acciò sì lorda non m'avesse scorto.
Perciò mi parto, e cerco se in quel monte
Per avventura fosse qualche fonte.

78
In quel ch'io m'allontano, com'io dico,
Martinazza, che era in Stregheria,
Passò di là portata dal nimico (508),
Chè non potette star per altra via;
E perchè sempre fu suo modo antico
Di far per tutto a alcun qualche angherìa,
Lesse il pitaffio, squadrò l'urna, e tenne
Che lì fosse da farne una solenne.

79
Se qua, dice fra sè, Cupído dorme,
Vo' risvegliarlo, per veder un tratto
S'egli è come si dice, e se conforme
A quel che da' pittori vien ritratto;
Sebben chi lo fa bello, e chi deforme:
Basta; mi chiarirò com'egli è fatto.
Per questo ad empier mettesi quel vaso,
A cui poco mancava ad esser raso.

80
Coll'animo di piagner vi s'arreca;
Ma ponza ponza (509), lagrima non getta:
Si prova a far cipiglio e bocca bieca (510),
Nè men questa è però buona ricetta.
Al fin si pone a un fumo che l'accieca,
Sicchè per forza a piangere è costretta;
Onde la pila in mezzo quarto d'ora
Restò colma, e Cupído scappò fuora.

81
Quand'ella verso lui voltò le ciglia,
E vedde quella sua bella figura
Disposta e grazïosa a maraviglia
Che più non si può far 'n una pittura,
Gli s'avventa di subito e lo piglia;
E senza ricercar della cattura (511),
Da' suo' staffieri tenebrosi e bui
Portar se ne fa via con esso lui.

82
Fermossi a Malmantile, e per marito
Lo volle, e già le nozze han celebrate.
Come sai tu, dirai, tutto il seguìto?
Lo so, chè me lo dissero le Fate,
Quelle che mi donâr quel ch'hai sentito;
Che in due aquile essendo trasformate,
Perchè lassù i' facea degli sbavigli,
M'han trasportata qua ne' loro artigli.

Note:
(496) SMANNORO: Si dovrebbe dire Ormannoro. Campi Ormannorum, erano certe pianure vicine a Firenze possedute dagli Ormanni.
(497), A RIVEDERCI ecc. È il saluto di congedo attribuito alle volpi, di cui si dice che tutte finiscono in pellicceria.
(498) SCACIATO. Scornato, deluso.
(499) RIGIRO. Il fuoco artifiziato.
(500) IL CONTO. Questa parola non aggiunge nulla al tirare innanzi; ma, dice il Minucci, l'uso nato da quei che tengono i libri di debitori e creditori, ci obbliga a dir così.
(501) DIACCIATO qui vale serrato. Vedi c. III, 3.
(502) RAPINA. Rabina, rabbia
(503) DICEVO ecc. Brontolavo imprecando.
(504) CHIOSA. Punto, iota, acca.
(505) ZEZZA RICADÍA. Ultima noia, molestia.
(506) PÒRRE IL FIASCO. Vedi c. I, 76. Ma qui credo che pôrre sia contratto da porgere e non da ponere. Di questi forami o finestrini da porgere il fiasco a chi va a comprare il trebbiano (vino qualunque) dai privati, se ne vede ancora moltissimi nelle case e fin nei palazzi di Firenze.
(507) A SGRAFFIO o graffito si dipinge con un ferro acuto nell'intonacatura fresca dei muri.
(508) DAL NEMICO ecc. Portataci dal diavolo; chè in altro modo non ci sarebbe potuta venire.
(509) PONZARE è una forza che si fa in sè medesimo, ritenendo il fiato, quasi riducendo tutto lo sforzo in un punto, come fanno le donne quando mandano fuora il parto. È corrotta dal buon toscano pontare. (Minucci.)
(510) BOCCA BIECA. Bocca storta; come fanno i bambini, quando sono per dare in uno scoppio di pianto, il che in qualche luogo d'Italia dicesi Fare il pizzo.
(511) CATTURA. Qui, La somma di danaro che competeva al birro o birri che avean pigliato qualcuno.

Lorenzo Lippi
Da: "Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

 
 
 
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