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« Marco CavalloGiulio Camillo »

Canzoniere petrarchesco 11

Post n°1740 pubblicato il 12 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

71

Perché la vita è breve,
et l'ingegno paventa a l'alta impresa,
né di lui né di lei molto mi fido;
ma spero che sia intesa
là dov'io bramo, et là dove esser deve,
la doglia mia la qual tacendo i' grido.
Occhi leggiadri dove Amor fa nido,
a voi rivolgo il mio debile stile,
pigro da sé, ma 'l gran piacer lo sprona;
et chi di voi ragiona
tien dal soggetto un habito gentile,
che con l'ale amorose
levando il parte d'ogni pensier vile.
Con queste alzato vengo a dir or cose
ch'ò portate nel cor gran tempo ascose.

Non perch'io non m'aveggia
quanto mia laude è 'ngiurïosa a voi:
ma contrastar non posso al gran desio,
lo quale è 'n me da poi
ch'i' vidi quel che pensier non pareggia,
non che l'avagli altrui parlar o mio.
Principio del mio dolce stato rio,
altri che voi so ben che non m'intende.
Quando agli ardenti rai neve divegno,
vostro gentile sdegno
forse ch'allor mia indignitate offende.
Oh, se questa temenza
non temprasse l'arsura che m'incende,
beato venir men! ché 'n lor presenza
m'è più caro il morir che 'l viver senza.

Dunque ch'i' non mi sfaccia,
sí frale obgetto a sí possente foco,
non è proprio valor che me ne scampi;
ma la paura un poco,
che 'l sangue vago per le vene agghiaccia,
risalda 'l cor, perché piú tempo avampi.
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi,
o testimon' de la mia grave vita,
quante volte m'udiste chiamar morte!
Ahi dolorosa sorte
lo star mi strugge, e 'l fuggir non m'aita.
Ma se maggior paura
non m'affrenasse, via corta et spedita
trarrebbe a fin questa apra pena et dura;
et la colpa è di tal che non à cura.

Dolor perché mi meni
fuor di camin a dir quel ch'i' non voglio?
Sostien ch'io vada ove 'l piacer mi spigne.
Già di voi non mi doglio,
occhi sopra 'l mortal corso sereni,
né di lui ch'a tal nodo mi distrigne.
Vedete ben quanti color' depigne
Amor sovente in mezzo del mio volto,
et potrete pensar qual dentro fammi,
là 've dí et notte stammi
adosso, col poder ch'a in voi raccolto,
luci beate et liete
se non che 'l veder voi stesse v'è tolto;
ma quante volte a me vi rivolgete,
conoscete in altrui quel che voi siete.

S'a voi fosse sí nota
la divina incredibile bellezza
di ch'io ragiono, come a chi la mira,
misurata allegrezza
non avria 'l cor: però forse è remota
dal vigor natural che v'apre et gira.
Felice l'alma che per voi sospira,
lumi del ciel, per li quali io ringratio
la vita che per altro non m'è a grado!
Oimè, perché sí rado
mi date quel dond'io mai non son satio?
Perché non piú sovente
mirate qual Amor di me fa stracio?
E perché mi spogliate immantanente
del ben ch'ad ora ad or l'anima sente?

Dico ch'ad ora ad ora,
vostra mercede, i' sento in mezzo l'alma
una dolcezza inusitata et nova,
la qual ogni altra salma
di noiosi pensier' disgombra allora,
sí che di mille un sol vi si ritrova:
quel tanto a me, non piú, del viver giova.
Et se questo mio ben durasse alquanto,
nullo stato aguagliarse al mio porrebbe;
ma forse altrui farrebbe
invido, et me superbo l'onor tanto:
però, lasso, convensi
che l'extremo del riso assaglia il pianto,
e 'nterrompendo quelli spirti accensi
a me ritorni, et di me stesso pensi.

L'amoroso pensero
ch'alberga dentro, in voi mi si discopre
tal che mi trâ del cor ogni altra gioia;
onde parole et opre
escon di me sí fatte allor ch'i' spero
farmi immortal, perché la carne moia.
Fugge al vostro apparire angoscia et noia,
et nel vostro partir tornano insieme.
Ma perché la memoria innamorata
chiude lor poi l'entrata,
di là non vanno da le parti extreme;
onde s'alcun bel frutto
nasce di me, da voi vien prima il seme:
io per me son quasi un terreno asciutto,
cólto da voi, e 'l pregio è vostro in tutto.

Canzon, tu non m'acqueti, anzi m'infiammi
a dir di quel ch'a me stesso m'invola:
però sia certa de non esser sola.


72

Gentil mia donna, i' veggio
nel mover de' vostr'occhi un dolce lume
che mi mostra la via ch'al ciel conduce;
et per lungo costume,
dentro là dove sol con Amor seggio,
quasi visibilmente il cor traluce.
Questa è la vista ch'a ben far m'induce,
et che mi scorge al glorïoso fine;
questa sola dal vulgo m'allontana:
né già mai lingua humana
contar poria quel che le due divine
luci sentir mi fanno,
e quando 'l verno sparge le pruine,
et quando poi ringiovenisce l'anno
qual era al tempo del mio primo affanno.

Io penso: se là suso,
onde 'l motor eterno de le stelle
degnò mostrar del suo lavoro in terra,
son l'altr'opre sí belle,
aprasi la pregione, ov'io son chiuso,
et che 'l camino a tal vita mi serra.
Poi mi rivolgo a la mia usata guerra,
ringratiando Natura e 'l dí ch'io nacqui
che reservato m'ànno a tanto bene,
et lei ch'a tanta spene
alzò il mio cor: ché 'nsin allor io giacqui
a me noioso et grave,
da quel dí inanzi a me medesmo piacqui,
empiendo d'un pensier alto et soave
quel core ond'ànno i begli occhi la chiave.

Né mai stato gioioso
Amor o la volubile Fortuna
dieder a chi piú fur nel mondo amici,
ch'i' nol cangiassi ad una
rivolta d'occhi, ond'ogni mio riposo
vien come ogni arbor vien da sue radici.
Vaghe faville, angeliche, beatrici
de la mia vita, ove 'l piacer s'accende
che dolcemente mi consuma et strugge:
come sparisce et fugge
ogni altro lume dove'l vostro splende,
cosí de lo mio core,
quando tanta dolcezza in lui discende,
ogni altra cosa, ogni penser va fore,
et solo ivi con voi rimanse Amore.

Quanta dolcezza unquancho
fu in cor d'aventurosi amanti, accolta
tutta in un loco, a quel ch'i' sento è nulla,
quando voi alcuna volta
soavemente tra 'l bel nero e 'l biancho
volgete il lume in cui Amor si trastulla;
et credo da le fasce et da la culla
al mio imperfecto, a la Fortuna adversa
questo rimedio provedesse il cielo.
Torto mi face il velo
et la man che sí spesso s'atraversa
fra 'l mio sommo dilecto
et gli occhi, onde dí et notte si rinversa
il gran desio per isfogare il petto,
che forma tien dal varïato aspetto.

Perch'io veggio, et mi spiace,
che natural mia dote a me non vale
né mi fa degno d'un sí caro sguardo,
sforzomi d'esser tale
qual a l'alta speranza si conface,
et al foco gentil ond'io tutt'ardo.
S'al ben veloce, et al contrario tardo,
dispregiator di quanto 'l mondo brama
per solicito studio posso farme,
porrebbe forse aitarme
nel benigno iudicio una tal fama:
Certo il fin de' miei pianti,
che non altronde il cor doglioso chiama,
vèn da' begli occhi alfin dolce tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.

Canzon, l'una sorella è poco inanzi,
et l'altra sento in quel medesmo albergo
apparechiarsi; ond'io piú carta vergo.


73

Poi che per mio destino
a dir mi sforza quell'accesa voglia
che m'à sforzato a sospirar mai sempre,
Amor, ch'a ciò m'invoglia,
sia la mia scorta, e 'nsignimi 'l camino,
et col desio le mie rime contempre:
ma non in guisa che lo cor si stempre
di soverchia dolcezza, com'io temo,
per quel ch'i' sento ov'occhio altrui non giugne;
ché 'l dir m'infiamma et pugne,
né per mi' 'ngegno, ond'io pavento et tremo,
sí come talor sòle,
trovo 'l gran foco de la mente scemo,
anzi mi struggo al suon de le parole,
pur com'io fusse un huom di ghiaccio al sole.

Nel cominciar credia
trovar parlando al mio ardente desire
qualche breve riposo et qualche triegua.
Questa speranza ardire
mi porse a ragionar quel ch'i'sentia:
or m'abbandona al tempo, et si dilegua.
Ma pur conven che l'alta impresa segua
continüando l'amorose note,
sí possente è 'l voler che mi trasporta;
et la ragione è morta,
che tenea 'l freno, et contrastar nol pote.
Mostrimi almen ch'io dica
Amor in guisa che, se mai percote
gli orecchi de la dolce mia nemica,
non mia, ma di pietà la faccia amica.

Dico: se 'n quella etate
ch'al vero honor fur gli animi sí accesi,
l'industria d'alquanti huomini s'avolse
per diversi paesi,
poggi et onde passando, et l'onorate
cose cercando, e 'l più bel fior ne colse,
poi che Dio et Natura et Amor volse
locar compitamente ogni virtute
in quei be' lumi, ond'io gioioso vivo,
questo et quell'altro rivo
non conven ch'i' trapasse, et terra mute.
A llor sempre ricorro
come a fontana d'ogni mia salute,
et quando a morte disïando corro,
sol di lor vista al mio stato soccorro.

Come a forza di vènti
stanco nocchier di notte alza la testa
a' duo lumi ch'a sempre il nostro polo,
cosí ne la tempesta
ch'i' sostengo d'Amor, gli occhi lucenti
sono il mio segno e 'l mio conforto solo.
Lasso, ma troppo è piú quel ch'io ne 'nvolo
or quinci or quindi, come Amor m'informa,
che quel che vèn da gratïoso dono;
et quel poco ch'i' sono
mi fa di lor una perpetua norma.
Poi ch'io li vidi in prima,
senza lor a ben far non mossi un'orma:
cosí gli ò di me posti in su la cima,
che 'l mio valor per sé falso s'estima.

I' non poria già mai
imaginar, nonché narrar gli effecti,
che nel mio cor gli occhi soavi fanno:
tutti gli altri diletti
di questa vita ò per minori assai,
et tutte altre bellezze indietro vanno.
Pace tranquilla senza alcuno affanno:
simile a quella ch'è nel ciel eterna,
move da lor inamorato riso.
Cosí vedess'io fiso
come Amor dolcemente gli governa,
sol un giorno da presso
senza volger già mai rota superna,
né pensasse d'altrui né di me stesso,
e 'l batter gli occhi miei non fosse spesso.

Lasso, che disïando
vo quel ch'esser non puote in alcun modo,
et vivo del desir fuor di speranza:
solamente quel nodo
ch'Amor cerconda a la mia lingua quando
l'umana vista il troppo lume avanza,
fosse disciolto, i' prenderei baldanza
di dir parole in quel punto sí nove
che farian lagrimar chi le 'ntendesse;
ma le ferite impresse
volgon per forza il cor piagato altrove,
ond'io divento smorto,
e 'l sangue si nasconde, i' non so dove,
né rimango qual era; et sonmi accorto
che questo è 'l colpo di che Amor m'à morto.

Canzone, i' sento già stancar la penna
del lungo et del dolce ragionar co llei,
ma non di parlar meco i pensier' mei.

Francesco Petrarca

 
 
 
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Data di creazione: 26/04/2008
 

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