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Inghilfredi

Post n°1728 pubblicato il 09 Giugno 2015 da valerio.sampieri
 

Di Inghilfredi, poeta siciliano, ma secondo alcuni lucchese, del XIII Secolo, si conoscono 7 composizioni. I testi, che sono tratti da "Rimatori della scuola siciliana", a cura di Bruno Panvini, Olschki, Firenze 1962 e 1964 e sono reperibili sul sito Progetto Duecento sono i seguenti:

Audite forte cosa che m'avene
Caunoscenza penosa e angosciosa
Del meo voler dir l'ombra
Dogliosamente e con gran malenanza
Greve puot'om piacere a tutta gente
Poi la noiosa erranza m'à sorpriso
Sì alto intendimento


Audite forte cosa che m’avene:


Audite forte cosa che m’avene:
eo vivo in pene stando in allegranza,
saccio ch’io amo e sono amato bene
da quella che mi tene in disïanza.
Da lei neente vogliomi celare:
lo meo tormentar [cresce],
como pien è, dicresce,
e vivo in foco como salamandra.
Sua caunoscenza e lo dolze parlare
e le belleze e l’amoroso viso,
di ciò pensando fami travagliare.
Iesù Cristo [creolla] in paradiso
e, poi la fece angelo incarnata,
tanto di lei mi ’mbardo,
che mi consumo e ardo,
ch’eo rinovello com’ fenice face.
L’omo selvagio à ’n sè cotal natura,
che piange quando vede il tempo chiaro,
pero che la tempesta lo spaura:
simile a me lo dolce torna amaro.
Ma sono amato da lei senza inganno;
a ciò mia mente mira,
sì mi ’nsolleva d’ira,
come la tigra lo speglio isguardando.
Gioia agio presa di giglio novello,
sì alta che sormonta ogne ricchezza:
donòmi senza noia lo più bello;
pertanto non si bassa sua grandezza.
A la mia vita mai non partiragio;
sua dottrina m’afrena,
così mi trage a lena
come pantera le bestie salvage.
Pogna ben cura chi ama di bon core
per sofferir non perda malamente.
Luntanamente m’à tirato Amore,
per cui [o]maggio [è] [l]o ditto presente.
Lo sofferir m’à condutto a bon porto:
lo meo lavor non smonta,
ma nasce e toll’e monta
[ . . ] e spica e fior’e grana.


Caunoscenza penosa e angosciosa


Caunoscenza penosa e angosciosa
as[s]ai se[i] più che morte naturale,
al mio parire;
fus[s]i gioiosa tanto e amorosa,
cum cui tu gissi, mai sentiria male
senza fallire;
seria gaio e giocondo,
aver[i]a gioi e tutta beninanza,
nulla già mai vedria contar lianza,
[ c'a la sua fosse ] a pare in onne loco.
Li qual deriano honor[e] mantener[e]
e fermi stare in alto paragio
son più sfallenti;
regensi in servitute per avere
auro e argento e non gentil coragio
d’esser piacenti.
Grandeza si consuma;
l’erbe derian granire e non fiorire,
nè arbori foglire, - nè fare frutto,
veder lo male più che ’l ben saglire.
Non pare di barnagio i[n] nulla parte
che si peni gradire, nè avanzare,
però cordoglio;
ciascuno ’n tal mistieri si comparte,
lo meo cor parte vedendo regnare
folli’ ed orgoglio.
Risguardando m’am[m]iro:
donne e donzelle vegio di gran dire
senza sostegno tornare niente,
sì malamente gentileza spare.
Non deveria lucer luna, nè stelle,
de[v]ria lo sol freddare e non calire,
l’aigue turbare,
nè mai auselli posare in ramelle,
giachiti a terra tristar e languire,
più non vernare.
Contasi mal per meglio,
vedesi il pegio tuttora avanzare,
per contra fare - vince malenanza;
è l’onoranza - natural perita.
Cavalier non cognosco da mercieri,
nè gentildonna da altra burgese,
peno sovente,
nè bon donzello da altro lainieri;
non è leanza ver[a], cio è palese
veracemente.
Dico lo meo parvente
per exempli: chiara ven l’aire scura,
lo vil ausel sovrasaglie il falcone,
pres’à leon natura di taupino.


Del meo voler dir l'ombra


Del meo voler dir l’ombra
cominzo scura rima.
Como di dui congiunti Amor mi ’nungla,
sì natural m’adombra
in lavoreo e rima,
essendo due, semo un com’ carne ed ungla.
Ed è rason, poi membra
la Scriptura le membra
che di tal guisa tale Amor congiunge,
sì che, quando l’agiunge,
tal dritto amor v’aiunge,
chi lo manten, null’altra gioi li membra.
Ed eo, c’a provar miro
sono, salvando sperdo,
sì che concriomi ’n amare spunza;
doglio quando più miro
lo guadagno che perdo,
che più mi pura ca l’aigua la spunza.
E ciò mi fa cui sono,
c’al cor m’à miso un sono
di ben voler sì forte, che m’abatto
in tai pene, che batto
le mani e giù m’abatto
e son giocondo [e] di pianger fo sono.
Stringe lo core e gronda
lo viso di condutto
dell’aigua, che tale fonte risurge;
non ò coverta a gronda,
che lo mal che m’è adutto
covrir potesse, se el non risurge.
Tal è ’l disio c’ònde
che sì spesso mi conde
d’un aghiac[c]iato pensier crudo e resto,
und’eo di duol no resto
quand’a pensar m’aresto
là u’ il disio lo mio mal nasconde.
S’eo tegno il dritto a inverso
e di lei il cor mi ’ncembra,
tal la sento non maraviglia parmi
tant’ao nascoso in verso
del meo core la cambra,
chè nullo amante di ciò non è par mi,
d’essere amato a punto
da lei, per cui son punto
da lungi più che quando le son presso;
und’eo a dir m’apresso
qual eo [n]d’agio lo presso,
e non di tutto posso dire un punto.
Del meo disir non novo
chiuso parlare spargo,
ca chiusamente doglio sopra cima;
nullo par di me novo,
che tal porto lo cargo
in dritto amor, per c’ogn’altro dicima.
La mia fede è più casta
e più diritta c’asta,
che ’n segnoria s’è regata a serva
e più lealtà serva
che ’l suo dir non conserva
60lo bon Tristano al cui pregio s’adasta.
Lo mio buon dir s’avasta,
va [a] lei, per cui se vasta
la mia persona, c’a governar nerv’à
la nave di Minerva,
6che sì forte mi ’nerva
a sofrir pena c’ogn’altro divasta.


Dogliosamente e con gran malenanza

Dogliosamente e con gran malenanza
conven chio canti e mostri mia grameza,
ca per servire sono in disperanza:
la mia fede m’à tolta l’allegreza.
Però di canto non posso partire,
poi c’a la morte mi vado ap[p]ressando,
sì come il ciecen, che more in cantando,
la mia vita si parte e vo morire.
Partomi da sollazo e d’ogne gioco
e ciascun altro faccia a mia parvenza,
ca dentro l’aigua m’à abrusciato il foco,
mia sicurtate m’à dato spavenza.
Fui miso in gioco e frastenuto in pianto
sì falsamente mi ’ngannò lo sguardo,
sì come a lo leone lo leupardo,
c’a tradimento li leva l’amanto.
Per tradimento sono dismarruto,
del qual null’omo potesi guardare
e son sì preso e sì forte feruto,
c’agio dottanza di poter campare,
poi che le pia[c]que a quella c’à in podere
la rota di fortuna permutare;
però le piaccia di me rallegrare;
cui à saglito, faccialo cadere.
Faccia in tal guisa che naturalmente
vadan le doglie che ò non pe[r] rasone,
ca non è gioco d’essere servente
a chi è meno di sua condizione.
E rason porta di punir li mali;
però si guardi chi mi tene a dura,
che la pantera à in sè ben tal natura,
c’a la sua lena tragon li animali.
S’eo trago a voi, non vo’ più star tardando,
ched io non saccia in che guisa mi provo;
ardo, consumo e struggo pur pensando
com’ son caduto e unde e com’ mi trovo.
Però ciascun faccia di sè mutanza
ed agia in sè fermanza e novo core;
lo fenix arde e rinova megliore;
non dotti l’om penar per meglioranza.
Però la sesta facc[i]a movimento,
ancor che paia altrui disordinato,
e facc[i]a mostra per avedimento
che ciascun guardi chi siede in mio stato;
chè ciascun d’alto potesi bassare,
se regimento non à chi ’l difenda;
lo leofante null’omo riprenda,
se, quando cade, non si può levare.


Greve puot'om piacere a tutta gente


Greve puot’om piacere a tutta gente,
perch’eo parlo dottoso
e sì come om che vive in grande erranza,
poi veo saglire inganno malamente
di tal guisa odioso,
cui no ’l com[m]ise è data pesanza;
eo veo saglir lo non sagio in montanza
e sovrastar li savi adottrinati,
e li argomenti veduti, apensati
mette[r] paz[z]ia per folle oltracuitanza.
Chi non è sagio non de’ amaestrare
e chi folle comenza
mal po finir ca sagio si’ aprovato;
per che ’l meo cor sovente de’ penare,
poi mala provedenza
vole giachir naturale pensato;
ed è ’n tal guisa corso sormontato,
che veo signori a servi star subietti
e servi a signoria essere eletti.
Non pò finir chi non à cominzato.
Non laudo cominzar senza consiglio,
nè no m’è a piacirnento
dar lodo a chi com[m]ette fallisione.
Chi ciò consente cade in gran ripiglio
e chi tace contento
di no avanzar chi sa mostrar rasone;
ca giusto ae divenir chi nd’à casone:
se bon consiglio crede, va montando,
e chi follia solleva, [va] bassando:
lo frutto lauda ’l flor quand’è stasione.
Non piace fior senza frutto a signore;
a cui falla spcranza
considera lo tempo che à venire.
Vana promessa messo m’à in errore,
e folle sicuranza
mi fa del parpaglion risovenire,
che per clartà di foco va a morire:
così mi ’mpiglio credendo avanzare,
ca molti doglion per troppo affidare;
lo pesce aesca l’amo unde à perire.
Poi che tant’agio contrario veduto,
cangiato m’è ’l disio
e sto com’om ch’è di duol quasi vinto;
ciò che di gioi[a] mi donava aiuto
m’ave miso in oblìo,
in fera vampa di foco m’à stinto;
e son di pene di ’[n]torno sì ac[c]into,
c’ogne sustanza di ben m’abandona
a for del tempo, c’un pensier mi dona,
c’a me medesmo dispiaciomi pinto.
Tant’à lo mal lo ben da sè distinto,
ca chi più falla di lodo à corona
e chi ben opra di lui mal si sona;
ogni bon presio di bon loco e spinto.


Poi la noiosa erranza m'à sorpriso


Poi la noiosa erranza m'à sorpriso
e sagiato di sì crudel conforto,
voglio mostrare qual è 'l mio coragio,
ch'eo sono in parte di tal logo miso
ch'eo son disceso e non son giunto a porto;
in gran bonaccia greve fortun'agio
e son dimiso da la signoria,
da regimento là 'nde son signore,
tant'è l'af[f]anno che porta 'l meo core
ove allegran2a vince tuttavia.
Vinco e ò vinciuto e tuttor[a] perdo,
là u' son riceputo istò cacciato,
in isperanza amarisco mia spene,
di gran gio[i] mi consumo e mi disperdo;
sì mi distringe là u' sono alargato,
in allegreza pianger mi convene.
Adonqua [è] Amor che la vita m'acresce,
poi sono amante di ciò che disamo
e vo negando ciò che voglio e bramo
e vivo in gio[i] come nell'aigua il pesce.
Però, madonna, senza dir parlate,
poi no l'avete datelmi, c'Amore
non vol che donna quel c'à degia dare,
e fate vista di scura cartate.
La caccia è presa là v'è 'l cacciatore;
non trovo d'aigua e vo per essa in mare,
a tal son miso che fugendo caccio
e sono arieto com' più vado anante,
se non m'accore di voi lo sembiante,
che l'om disciolto ten legato a lac[c]io.


Sì alto intendimento

Sì alto intendimento
m’ave donato Amore,
ch’eo non sac[c]io invenire
in che guisa possa merzè trovare.
5Però lo mio talento
m’a[ve] miso in errore,
ca non volse soffrire
di non voler sì altamente amare.
Ma poi che piacere
à l’Arnore, che tant’è poderoso,
ciò è lo mio volere;
m’à miso il core in af[f]anno gravoso,
non saccio loco che n’agia ragione.
Penso se narramento
è fatto [a] alcun signore
per dover diffinire
al qual de’ dui s’ac[c]orda più, ’ver pare.
Non è gran fallimento
d’amar, poi che ’l meo core
è voluto asentire
a tal voler ch’eo no ’l posso abentare.
E però degia avere
l’amore forza in loco dobitoso;
e facci’ a lei sapere
che son le pene del male amoroso:
forza d’amar mi mette a condizione.
Lo meo innamoramento
m’à sì tolto ’l valore
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
[ . . . . . . ]
Però ’l gran valimento
di lei, cui chiamo fiore,
vorria, s’eo l’auso dire,
umilmente di merzè pregare
di darme alegiamento
di pic[c]iolo sentore
[ . . . . -ire]
la dolce c[i]era sol d’uno isguardare,
perchè lo meo dolere
avesse via di non esser dottoso
contra l’alto parere
di lei, che m’è come l’omo nascoso,
che per aguaito face offensione.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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