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Bacco in Toscana 2

Post n°1590 pubblicato il 08 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Bacco in Toscana
di Francesco Redi
Edizione 1685 (versione tratta da: Poesia del Seicento, a cura di C. Muscetta e P. P. Ferrante, Torino, Einaudi, 1964 vol II)
Il testo del ditirambo, con introduzione critica di notevole valore, si triva anche sul sito Classici Italiani.

Del vin caldo s’io n’insacco,
Dite pur ch’io non son Bacco;
Se giammai n’assaggio un gotto,
Dite pure, e vel perdono,
Ch’io mi sono un vero Arlotto:
E quei che in prima in leggiadretti versi
Ebbe le Grazie lusinghiere al fianco,
E poi pel suo gran cuore ardito e franco
Vibrò suoi detti in fulmine conversi,
Il grande anacreontico ammirabile
Menzin, che splende per febea ghirlanda,
Di satirico fiele atra bevanda
Mi porga ostica, acerba e inevitabile.
Ma se vivo costantissimo
Nel volerlo arcifreddissimo,
Quei che in Pindo è sovrano, e in Pindo gode
Glorie immortali, e al par di Febo ha i vanti
Quel gentil Filicaia inni di lode
Su la cetera sua sempre mi canti;
E altri cigni ebrifestosi,
Che di lauro s’incoronino,
Ne’ lor canti armonïosi,
Il mio nome ognor risuonino,
E rintuonino:
Viva Bacco il nostro re!
Evoè,
Evoè!
Evoè replichi a gara
Quella turba sì preclara,
Anzi quel regio senato,
Che decide, in trono assiso,
Ogni saggio e dotto piato
Là ’ve l’etrusche voci e cribra e affina
La gran Maestra, e del parlar Regina;
Ed il Segni segretario
Scriva gli atti al Calendario,
E spediscane courier
À monsieur l’Abbé Regnier.
Che vino è quel colà,
C’ha quel color doré?
La Malvagìa sarà,
Ch’al Trebbio onor già diè:
Ell’è da vero, ell’è;
Accostala un po’ in qua,
E colmane per me
Quella gran coppa là:
È buona per mia fé,
E molto a gré mi va:
Io bevo in sanità,
Toscano Re, di te.
Pria ch’io parli di te, Re saggio e forte,
Lavo la bocca mia con quest’umore,
Umor, che dato al secol nostro in sorte,
Spira gentil soavità d’odore.
Gran Cosmo, ascolta. A tue virtudi il cielo
Quaggiù promette eternità di gloria,
E gli oracoli miei, senz’alcun velo
Scritti già son nella immortale istoria.
Sazio poi d’anni, e di grandi opre onusto,
Volgendo il tergo a questa bassa mole
Per tornar colassù, donde scendesti,
Splenderai luminoso intorno a Giove
Tra le Medicee Stelle astro novello;
E Giove stesso, dal tuo lume adorno,
Girerà più lucente all’etra intorno.
Al suon del cembalo,
Al suon del crotalo,
Cinte di Nebridi
Snelle Bassaridi,
Su su mescetemi
Di quella porpora,
Che in Monterappoli
Da’ neri grappoli
Sì bella spremesi;
E mentre annaffione
L’aride viscere
Ch’ognor m’avvampano,
Gli esperti Fauni
Al crin m’intreccino
Serti di pampano;
Indi, allo strepito
Di flauti e nacchere,
Trescando intuonino
Strambotti e frottole
D’alto misterio;
E l’ebre Menadi,
E i lieti Egipani
A quel mistico lor rozzo sermone
Tengan bordone.
Turba villana intanto
 Applauda al nostro canto,
E dal poggio vicino accordi e suoni
Talabalacchi, tamburacci e corni,
E cornamuse e pifferi e sveglioni:
E tra cento colascioni
Cento rozze forosette,
Strimpellando il dabbudà,
Cantino e ballino il bombababà.
E se cantandolo,
Arciballandolo,
Avvien che stanchinsi,
E per grand’avida
Sete trafelinsi;
Tornando a bevere
Sul prato asseggansi,
Canterellandovi
Con rime sdrucciole
Mottetti e cobbole,
Sonetti e cantici;
Poscia, dicendosi
Fiori scambievoli,
Sempremai tornino
Di nuovo a bevere
L’altera porpora,
Che in Monterappoli
Da’ neri grappoli
Sì bella spremesi;
E la maritino
Col dolce Mammolo,
Che colà imbottasi,
Dove salvatico
Il Magalotti in mezzo al solleone
Trova l’autunno a quella stessa fonte,
Anzi a quel sasso, onde l’antico Esone
Diè nome e fama al solitario monte.
Questo nappo, che sembra una pozzanghera,
Colmo è d’un vin sì forte e sì possente,
Che per ischerzo baldanzosamente
Sbarbica i denti e le mascelle sganghera:
Quasi ben gonfio e rapido torrente
Urta il palato e il gorgozzule inonda,
E precipita in giù tanto fremente,
Ch’appena il cape l’una e l’altra sponda.
Madre gli fu quella scoscesa balza,
Dove l’annoso fiesolano Atlante,
Nel più fitto meriggio e più brillante
Verso l’occhio del sole il fianco innalza.
Fiesole viva, e seco viva il nome
Del buon Salviati, ed il suo bel Majano:
Egli sovente con devota mano
Offre diademi alle mie sacre chiome,
Ed io lui sano preservo
Da ogni mal crudo e protervo;
Ed intanto
Per mia gioia tengo accanto
Quel grande onor di sua real cantina
Vin di val di Marina.
Ma del vin di val di Botte
Voglio berne giorno e notte,
Perché so che in pregio l’hanno
Anco i maestri di color che sanno:
Ei da un colmo bicchiere e traboccante
In sì dolce contegno il cuor mi tocca,
Che per ridirlo non saria bastante
Il mio Salvin, c’ha tante lingue in bocca.
Se per sorte avverrà, che un dì lo assaggi
Dentro a’ Lombardi suoi grassi cenacoli,
Colla ciotola in man farà miracoli
Lo splendor di Milano, il savio Maggi.
Il savio Maggi d’Ippocrene al fonte
Menzognero liquore unqua non bebbe,
Né sul Parnaso lusinghiero egli ebbe
Serti profani all’onorata fronte:
Altre strade egli corse; e un bel sentiero
Rado, o non mai battuto, aprì vêr l’etra;
Solo ai numi e agli eroi nell’aurea cetra
Offrir gli piacque il suo gran canto altero;
E saria veramente un capitano,
Se, tralasciando del suo Lesmo il vino,
A trincar si mettesse il vin toscano:
Ché tratto a forza dal possente odore,
Post’in non cale i lodigiani armenti,
Seco n’andrebbe in compagnia d’onore,
Con le gote di mosto e tinte e piene,
Il Pastor de Lemene;
Io dico lui, che, giovanetto, scrisse
Nella scorza de’ faggi e degli allori
Del paladino Macaron le risse,
E di Narciso i forsennati amori;
E le cose del ciel più sante e belle
Ora scrive a caratteri di stelle:
Ma quando assidesi
Sotto una rovere,
Al suon del zufolo
Cantando spippola
Egloghe, e celebra
Il purpureo liquor del suo bel colle,
Cui bacia il Lambro il piede,
Ed a cui Colombano il nome diede,
Ove le viti in lascivetti intrichi
Sposate sono, in vece d’olmi, a’ fichi.
Se vi è alcuno, a cui non piaccia
La Vernaccia
Vendemmiata in Pietrafitta,
Interdetto
Maladetto
Fugga via dal mio cospetto,
E per pena sempre ingozzi
Vin di Brozzi,
Di Quaracchi e di Peretola,
E per onta e per ischerno
In eterno
Coronato sia di bietola;
E sul destrier del vecchierel Sileno,
Cavalcando a ritroso ed a bisdosso,
Da un insolente satiretto osceno
Con infame flagel venga percosso:
E poscia avvinto in vergognoso loco,
Ai fanciulli plebei serva per gioco;
E lo giunga di vendemmia
Questa orribile bestemmia.
Là d’Antinoro in su quei colli alteri,
Ch’han dalle Rose il nome,
Oh come lieto, oh come
Dagli acini più neri
D’un Canaiuol maturo
Spremo un mosto sì puro,
Che ne’ vetri zampilla,
Salta, spumeggia e brilla!
E quando in bel paraggio
D’ogni altro vin lo assaggio,
Sveglia nel petto mio
Un certo non so che,
Che non so dir s’egli è
O gioia, o pur desio:
Egli è un desio novello,
Novel desio di bere,
Che tanto più s’accresce,
Quanto più vin si mesce.
Mescete, o miei compagni,
E nella grande inondazion vinosa
Si tuffi e ci accompagni
Tutt’allegra e festosa
Questa, che Pan somiglia
Capribarbicornípede famiglia.
Mescete, su, mescete:
Tutti affoghiam la sete
In qualche vin polputo,
Qual è quel, ch’a diluvi oggi è venduto
Dal Cavalier dell’Ambra,
Per ricomprarne poco muschio ed ambra.
Ei s’è fitto in umore
Di trovar un odore
Sì delicato e fino,
Che sia più grato dell’odor del vino:
Mille inventa odori eletti,
Fa ventagli e guancialetti,
Fa soavi profumiere,
E ricchissime cunziere,
Fa polvigli,
Fa borsigli,
Che per certo son perfetti;
Ma non trova il poverino
Odor, che agguagli il grande odor del vino.
Fin da’ gioghi del Perù
E da’ boschi del Tolù
Fa venire,
Sto per dire,
Mille droghe, e forse più;
Ma non trova il poverino
Odor, che agguagli il grande odor del vino.
Fiuta, Arïanna, questo è il vin dell’Ambra:
Oh che robusto, oh che vitale odore!
Sol da questo nel core
Si rifanno gli spirti e nel celàbro,
Ma quel che è più, ne gode ancora il labro.
Quel gran vino
Di Pumino
Sente un po’ dell’affricogno;
Tuttavia di mezzo agosto
Io ne voglio sempre accosto;
E di ciò non mi vergogno,
Perché a berne sul popone
Parmi proprio sua stagione.
Ma non lice ad ogni vino
Di Pumino
Stare a tavola ritonda;
Solo ammetto alla mia mensa
Quello che il nobil Albizzi dispensa,
E che fatto d’uve scelte
Fa le menti chiare e svelte.
Fa le menti chiare e svelte
Anco quello,
Ch’ora assaggio, e ne favello
Per sentenza senza appello:
Ma ben pria di favellarne
Vo’ gustarne un’altra volta.
Tu, Sileno, intanto ascolta.
Chi ’ crederia giammai? Nel bel giardino
Ne’ bassi di Gualfonda inabissato,
 Dove tiene il Riccardi alto domíno,
In gran palagio e di grand’oro ornato,
Ride un vermiglio, che può stare a fronte
Al piropo gentil di Mezzomonte;
Di Mezzomonte, ove talora io soglio
Render contenti i miei desiri a pieno,
Allor che assiso in verdeggiante soglio
Di quel molle piropo empiomi il seno,
Di quel molle piropo, almo e giocondo,
Gemma ben degna de’ Corsini eroi,
Gemma dell’Arno, ed allegria del mondo.
La rugiada di rubino,
Che in Valdarno i colli onora,
Tanto odora,
Che per lei suo pregio perde
La brunetta
Mammoletta
Quando spunta dal suo verde;
S’io ne bevo,
Mi sollevo
Sovra i gioghi di Permesso,
E nel canto sì m’accendo,
Che pretendo, e mi do vanto
Gareggiar con Febo istesso.
Dammi dunque dal boccal d’oro
Quel rubino, ch’è i mio tesoro:
Tutto pien d’alto furore
Canterò versi d’amore,
Che saran viepiù soavi,
E più grati di quel ch’è
Il buon vin di Gersolè;
Quindi, al suon d’una ghironda,
O d’un’aurea cennamella,
Arïanna, idolo mio,
Loderò tua chioma bionda,
Loderò tua bocca bella.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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