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Alcune poesie in romanesco

Foto di valerio.sampieri

Il brano seguente è tratto dalla prefazione al volumetto -di sole 38 pagine- "Alcune poesie in dialetto romanesco di G. G. Belli scelte ed illustrate dal P. Daniele Olckers o. s. b. ", Monaco, Tipografia accademica F. Straub, 1878.

Prefazione.

Quel che già lodava il Grossi nel Porta e che noi altri Bavaresi lodiamo nelle poesie in vernacolo del nostro celeberrimo poeta Francesco de' Kobell - cioè la copia e la vivacità dei quadri, l'acume d' osservazione, la finezza di satira, la natura viva e parlante che ci vien posta sotto gli occhi - tutto ciò si trova in grado ancor superiore nelle poesie del poeta romano Giuseppe Gioachino Belli.
Egli nacque nel 1791 in Roma, ove cessò di vivere improvvisamente il 21 dicembre 1863. In tenera età ebbe la disgrazia di perdere il padre, onde per aver di che vivere era costretto a lavorare in diverse computisterie come scrivano-apprendista; qualche tempo fu segretario del principe Poniatowski. Ma la natura che l'avea fatto poeta, lo traeva agli studi, onde lasciando l'ufficio di segretario si ritirò a dozzina in un convento di cappuccini, ove potea studiare più liberamente, e per campare dava delle lezioni private e nei ritagli di tempo faceva anche non di rado il copista di memorie legali.
Di tali strettezze lo tolse una giovine e ricca vedova che lo prese in isposo e gli diede così i mezzi necessarii a coltivare gli studi classici. Con questi egli congiunse uno studio particolare cioè quello della vita del popolo romano, il quale studio gli aperse una miniera inesausta di soggetti per i suoi versi in dialetto romanesco. Il modo, ch'egli teneva per conoscere ben bene la vita del popolano di Roma, è più o meno lo stesso, che tenne il nostro Francesco de' Kobell per poter ritrarre la vita dei montanari bavaresi. Il Belli, come ci narra Morandi, "si mischiava fra le più umili classi del popolo, negli omnibus, nelle chiese, nelle taverne, ne' teatri e in quelle vie più rimote, dove i popolani sentendosi come a casa propria non badano a star sui convenevoli e si rivelano per quel che sono. Egli era in somma un pittore che ricavava i suoi bozzetti dal vero. Alla sera tornato a casa coloriva in tanti sonetti le scene, che avea vedute.".
Dicesi ch'egli ne abbia composti circa due mila e trecento in vernacolo, e come il Porta [Carlo Porta nato a Milano nel 1776, morto nel 1821] pei Lombardi, il Capasso [Nicola Capasso nacque in Grumo villaggio nel territorio d'Aversa nel 1671, morì in Napoli nel 1745] pei Napoletani, il Meli [Giovanni Meli nacque a Palermo nel 1749, morì nel 1815] pe' Siciliani, cosi il Belli per i Romani diventò il classico del dialetto patrio.
Una raccolta di sonetti del Belli venne pubblicata in Roma nel 1839 Pe' tipi del Salviucci, un'altra nel 1843 in Lucca coi tipi del Giusti. Nel 1865 Ciro Belli, figlio del defunto poeta, pubblicò in Roma co' tipi del Salviucci poesie inedite di suo padre in quattro volumi, cioè in dialetto romanesco 786 sonetti ed in lingua italiana 80 sonetti, 15 componimenti vari, 34 terzine e 37 ottave. Finalmente Luigi Morandi nel 1869 fece una edizione di trenta sonetti attribuiti al Belli con un discorso sopra la satira in Roma e nell' anno seguente ne pubblicò ducento (Firenze, G. Barbèra).
Ouest' ultima edizione diede occasione al dottissimo Signor Schuchardt di pubblicare alcuni suoi articoli sopra il Belli e la satira romana nella gazzetta universale di Augusta. (1871. N' 164, 165, 166 u. 167.) Peccato, che nel 3° di quegli articoli dell' egregio letterato si legga: (pag. 2971) "Trasteveriner(n) welche Hostieund Messer in einer Tasche tragen'' in luogo di: "Rosenkranz und Messer.".
Nato in tempo di rivoluzione e senza appoggio com' era dopo la morte del padre G. G. Belli non si potè sottrarre all' influenza di quelle idee rivoluzionarie, che allora erano in voga e dominavano, il che fu cagione di certi sonetti, ch' egli ravvedutosi più tardi avrebbe voluto fare sparir dal mondo. In età più matura diventò acerrimo avversario e oppugnatore di tali idee. Certo è che i sonetti del Belli sono e saranno sempre un monumento prezioso non solamente riguardo alla lingua e ai costumi de' Romani, ma anche per quel che riguarda la topografia e statistica di Roma. Gli sconvolgimenti politici d'Italia hanno più o meno cambiata la faccia di Roma, forse la cambieranno ancora di più. Ritraendo il Belli nei suoi sonetti la vita del popolano parlò anche delle chiese, degli istituti d'educazione, dei conservatori, degli ospedali ove i popolani poveri trovavano ricovero assistenza ed aiuto spirituale e corporale nelle loro miserie, toccò inoltre arti e mestieri, mercati, monete e molte altre cose riguardanti la statistica.
Avendo io avuto dall' onorevole Collegio de' Professori del Ginnasio Massimiliano l'incarico di scrivere il programma di quest' anno scolastico 1877/78 ho voluto pubblicare alcuni sonetti del Belli, i quali non si trovano nell' edizione del Morandi. Sono di quelli che furono pubblicati dal figlio del poeta nella raccolta summentovata. In questa raccolta però molte cose presuppongonsi come notissime, che a noi altrj Tedeschi sono più o meno ignote, onde per facilitare l'intendimento delle poesie da me scelte vi aggiunsi varie spiegazioni e corredai di note quei sonetti che ne erano privi affatto, premettendovi inoltre alcune osservazioni intorno al parlare del popolano di Roma in generale, e vari cenni grammaticali riguardo al dialetto romanesco in particolare.

I. Qualche osservazione intorno al popolano di Roma.

Della sua lingua il popolano di Roma va superbo; essa è, come dice egli, la lingua del mondo. "Sta lingua che ddich' io, l'hanno uguarmente Turchi, spaggnoli, moscoviti, ingresi... e ttutte l' antre gente." La sua lingua è la più ricca "Ma nun c' è llingua come la romana, pe ddi' una cosa co' ttanto divario, che ppare un maggazzino de dogana.". Egli dunque sentendosi padrone privilegiato di tali ricchezze ne fa quell' uso che gli piace cambiando e rifacendo le parole a modo suo. E siccome il focoso popolano nell' ira piglia le pietre senza curarsi delle loro forme e le slancia contro l'avversario grosse, grandi e piccole come gli vengono tra le mani, così gli escono dalla bocca parole quali gli sono dettate dall' affetto, che non si trovano in verun dizionario. Egli pronto nel suo giudizio senza esitare si trasmuta nomi che gli sono sconosciuti specialmente nomi proprii in altri di suono simile, ma per lo più di tutt' altro significato, onde spessissime volte nascono le più ridicole cose. Cosi per esempio essendogli sconosciuta la voce greca protos per protomedico dice brodomedico, ed invece di medico oculista medico culista.
Sachsen Gotha gli vale Sasso cotto,
Chili gli vale Qui-e-lli,
Poniatowsky gli vale Pignatosta,
Miollis gli vale Qui tollis,
Westmoreland gli vale Vespa d' Olanna,
Gagarin gli vale Cacarini.
Uno della plebe romana additando ad un altro l'arco di Settimio Severo, che sta appiè del Campidoglio gli disse: Questo è l'arco di Settimio, s' è vero. Uno parlando della colonna Trajana l' avea chiamata colonna trogliana; il suo compagno lo corregge dicendo: "Ma nun fu la Repubblica romana che dda l' incennio sce sarvò sta ggioja? .... Ebbe, ssi viè dda Troja sta colonna, s' ha da di Trojana pe l'amor de la Madonna!"
Assistendo un popolano alla solenne processione del Corpus Domini sentì cantare ai cantori della Sistina quelle parole dell' inno Pange lingua: "Sui moras incolatus miro clausit ordine." Pieno di sdegno egli sclamò: "Incollato? (angeleimt) Ho ssempre inteso a ddi da trentun' anno che Cristo in croscè sce mori inchiodato*' (angenagelt).
Una madre raccomanda alla figlia che avea perduto qualche cosa di recitare il Salmo 90; "Qui habitat" e lodando la virtù, l'efficacia di quella preghiera soggiunge: "Se sarai venuta all' acqua di Venanzio l'avrai trovata.'' Con ciò volle indicare il verso 3° di quel Salmo, cioè: "ipse liberavit me de laqueo venantium."
Uno del volgo disse, esser la essenza divina così difficile ad intendersi,,che anche alla testa di Davide era la Sibilla". Gli erano venute in mente quelle parole del Dies irae: teste David cum Sibilla. Un altro si spiegò le parole: hora qua non putatis (filius hominis veniet) cosi: quando non sputate.
Riguardo alla storia ed archeologia il popolano di Roma cambia le cose antiche colle moderne non facendo caso di anacronismi fa usare agli uomini dell' antichità modi di vivere e di dire del tutto moderni.
Così p. e ci racconta uno del volgo: Muzio Scevola colle mani dietro manettate da sei carabinieri vien condotto davanti a Porsenna. Questi lo interroga: "Sora maschera, come vi chiamate?" Il popolano di Roma chiama maschera ogni persona sconosciuta, onde parlando anche di persona maschile al feminino maschera si premette sora. Muzio Scevola nella sua risposta dà a Porsenna il titolo: "Sacra Maestà.".
Dopo la conquista di Gerusalemme, racconta un altro della plebe, l'imperatore Tito raccolse ogni roba di valore dicendo: "Caspio, quel ch' è d'oro è mio," e gli scribi che facevano pio pio (bisbigliavano mormorando) te li fece castigare dal correttore. Correttore si chiamava quel servitore del Collegio romano, ch'era destinato a frustare gli scolari cattivi.
Credo però che non andrà lontano dal vero chi abbia l'opinione che lo spiritoso Belli nei suoi sonetti non avrà sempre fatto rigorosa distinzione di quel che si fondava sulla verità dei fatti da quel che era invenzione sua.
Due personaggi sono di grand' autorità presso il volgo romano: il barbiere ed il calzolaio. Il barbiere per la sua pratica con .molta gente, ed il calzolaio per la sua vita sedentaria che gli dà ozio di meditare seriamente su temi difficili, coi quali l'uomo ordinario del volgo non si può occupare. "Er calzolare dottore;" "Dice il barbiere e l'altre gente dotte." A quella opinione poi, che gli s' è ficcata in mente da cotali autorità il popolano s'attiene con una tenacità incredibile, perchè egli l' ha fatta sua, essa è la persuasione d' un Romano de Roma. Tutti coloro che non la pensano come lui vengon da lui censurati, beffeggiati o compatiti come uomini di poco cervello. Nelle cose che non riguardiino la fede né la morale il papa stesso e più ancora i suoi cardinali sono soggetti al tribunale del popolano, che li morde talora senza misericordia. Ne fanno fede quei sonetti pubblicati dal Morandi:
L'uccupazione der papa o 'na vitaccia da cani,
Pe' la morte de papa Gregorio,
L'anima de papa Gregorio.
Er cardinale vero, Er ritratto der cardinale
Tuttavia sono un documento di quella libertà di parola, che godevano i Romani e che non resterebbe impunita in verun altro stato. Quanto tenace sia il popolano di sua opinione lo dimostra anche questo: Un sepolcro antico è creduto dal popolo romano il sepolcro di Nerone, benché vi si trovi inciso il nome del morto: "P. Vibius Marianus.". Questa iscrizione non confonde per nulla il popolano, ma colla sua logica egli argomenta cosi: O il cadavere di Nerone fu tolto di questa tomba e ve ne fu sostituito quello di P. Vibio Mariano - e allora non posso capire la trascuraggine del governo che lasciò impunito un tal rubamento - o chi fece quella iscrizione era un asino, un ignorantaccio; giacché dacché il mondo s' è creato, questa è la sepoltura di Nerone!

 
 
 
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Data di creazione: 26/04/2008
 

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